Ossessioni / Breve vita felice di Tom Ballard, alpinista

14 Aprile 2020

Tom Ballard. Il figlio della montagna, scritto dall’alpinista e scrittore Marco Berti,

racconta la passione per le montagne e per l’arrampicata di un ragazzo che si distingueva per coraggio, riservatezza e senso dell’ironia; in un mondo, quello degli scalatori, caratterizzato da forte autostima e propensione all’esposizione mediatica, necessaria del resto per attirare sponsor. 

Tom è morto il 25 febbraio di un anno fa, insieme a Daniele Nardi, sul Nanga Parbat; salire sulla cima di quella montagna scalando lo Sperone Mummery era stato l’obiettivo che li aveva accomunati. 

Tom Ballard nasce nel 1988, a Belper in Inghilterra. Sua madre Alison Hargreaves era stata la prima donna a scalare l’Everest senza ossigeno e senza portatori; da sola aveva salito le sei maggiori pareti nord delle Alpi in una sola stagione, quelle rese celebri dal libro di Gaston Rébuffat, Etoiles et tempêtes – Six Faces Nord: Cima Grande di Lavaredo, Pizzo Badile, Cervino, Grandes Jorasses, Petit Dru, Eiger. 

Era scomparsa il 13 agosto del 1995 mentre scendeva dalla vetta del K2, dopo averlo scalato con altri 5 alpinisti. Persero la vita tutti e sei a causa di una terribile tempesta di vento e di neve. 

Sin da piccoli, Tom e la sorella Kate sono coinvolti nella passione per l’alpinismo di Alison, che aveva scalato la Parete Nord dell’Eiger proprio mentre era incinta di Tom. Li si può vedere insieme alla madre nel documentario Alison’s last mountain e in una bella fotografia, inserita nella copertina del libro Le regioni del cuore, di Ed Douglas e David Rose che racconta la sua storia.  

 

Tom cresce con il desiderio di divenire un grande alpinista, ha tutte le doti necessarie per farcela: abilità tecnica, capacità di concentrazione, un fisico forte e agile. A poco più di vent’anni, nel 2009, traccia una nuova via sull’Eiger, denominandola Seven Pillars of Wisdom, in onore all’opera omonima di Thomas Lawrence. Di quel libro gli era rimasta impressa una citazione, riportata più volte nel suo profilo Facebook: “Tutti gli uomini sognano: ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte, nei recessi polverosi delle loro menti, si svegliano di giorno per scoprire la vanità di quelle immagini: ma coloro i quali sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché possono mettere in pratica i loro sogni a occhi aperti, per renderli possibili”.

Ha poche risorse economiche, la scelta di dedicarsi a tempo pieno all’alpinismo gli impedisce di trovare un lavoro stabile e non può contare su risorse economiche famigliari. L’unico sostegno è la modesta pensione del padre Jim, che lo accompagna con un furgoncino in tutti gli spostamenti necessari per le scalate in giro per l’Europa, e che gli fabbrica manualmente chiodi e altri strumenti. Quel furgone è di fatto, per alcuni anni, la loro casa. Solo intorno al 2014, quando il suo nome e le sue imprese cominciano a circolare nell’ambiente alpinistico arrivano i primi sponsor. “Penso a molti importanti alpinisti degli anni Trenta e Quaranta. Anche loro avevano pochi soldi, arrampicavano con il minimo indispensabile, facevano grandi cose con molto poco. Quindi non conta ciò che fai, ma cosa sei riuscito a fare con ciò che hai”.

 

Estate 2015, Tom sulla falesia sopra il rifugio Gardeccia, ph Marco Berti.


Mai ammesso esplicitamente, uno dei sogni di Tom era ripercorrere le imprese di sua madre. Come spiegare altrimenti la sua impresa dell’inverno 2014-2015? Tom è infatti il primo alpinista a scalare da solo e in una stessa stagione invernale le sei maggiori pareti nord delle Alpi, le stesse salite da sua madre d’estate. Non ha solo lei come riferimento alpinistico, Tom studia le vie dei grandi scalatori, valuta varianti, prepara in modo coscienzioso l’attrezzatura e i mezzi di cui dispone. E ama scalare da solo. 

Tante le vie nuove di arrampicata realizzate sulle Alpi e sulle Dolomiti: si era specializzato in particolare nel dry-tooling, una tecnica di ascensione su ghiaccio e su roccia strapiombante, che utilizza ramponi e piccozze; nata dalla progressione su cascate di ghiaccio, permette di sfruttare le punte dei ramponi e delle piccozze per appigliarsi a piccoli spuntoni, buchi e fessure delle pareti rocciose. Tom del resto è anche esperto di ice climbing, fa parte della nazionale britannica e si mette in gioco anche nelle gare individuali. 

 

Guardando il documentario Tom, a lui dedicato, si resta sbalorditi nel vederlo utilizzare questa tecnica con grande facilità e naturalezza: una sorta di ragno, leggero, preciso e veloce. Il filmato ripercorre le sue vicende familiari e le sue imprese, utilizzando anche brevi video girati da Tom stesso durante le grandi scalate dell’inverno precedente, gli autori sono Elena Goatelli e Angel Esteban. Verrà presentato con successo l’anno dopo al Trento Film Festival e riceverà in seguito molti riconoscimenti.

Marco Berti ha salito insieme a Tom una serie di vie dolomitiche; gli è rimasto il ricordo della concentrazione e concretezza del suo salire, e al tempo stesso della giocosità con la quale Tom affrontava la montagna. Un sorriso contagioso, a volte un po' beffardo. La differenza di età spingeva il primo a fare un po' da fratello maggiore dell’altro, a volte in allegria, altre volte con raccomandazioni anche severe. L’impressione che si coglie leggendo il libro di Berti e guardando il documentario su Tom è quella di un alpinista coraggioso e competente che affrontava le scalate soprattutto in termini di difficoltà e problemi tecnici, e cercava soluzioni per superarle, con un’attenzione minore forse ai problemi legati a condizioni atmosferiche o comunque a elementi esterni. Se, come viene raccontato nel libro, salire per allenamento una via difficile di arrampicata sulle 5 Torri sotto la pioggia gelida può avere senso per prepararsi a situazioni ancora più estreme, è più difficile capire la scalata di Tom del versante nord dell’Eiger in condizioni fisiche debilitate dal raffreddore, nel febbraio del 2015. C’era il forte desiderio di completare la serie delle sei grandi scalate invernali, e la primavera era ormai alle porte, un traguardo importantissimo per Tom, ma il rischio in quelle condizioni era stato ancora più elevato.

 

Il Nanga Parbat, sulla sinistra lo sperone Mummery.


Marco Berti, alpinista himalayano di eccellente livello, autore anche di Il vento non può essere catturato dagli uomini, racconta Tom e le sue imprese alpinistiche, offrendone un ritratto che consente di conoscerne le doti tecniche e umane. Utilizza una scrittura chiara e scorrevole, giornalistica nel senso migliore del termine, senza scontate riflessioni sul senso della vita e senza le polemiche che caratterizzano altri libri di alpinismo. Berti racconta i fatti, le riflessioni le lascia a chi legge.

Riguardo l’ultima avventura sul Nanga Parbat, resta un passo indietro, non si occupa delle accese discussioni emerse lo scorso anno intorno alla fattibilità dell’impresa e alla funzionalità della coppia di alpinisti, molto diversi uno dall’altro.

Il loro obiettivo era scalare il Nanga salendo dallo Sperone Mummery, un grande pilastro di roccia superato solo dai fratelli Messner in discesa nell’estate del 1970, inviolato nella stagione invernale: una montagna nella montagna, che pare la via più diretta alla cima, con ai lati due immensi fiumi di ghiaccio. Le grandi difficoltà tecniche della salita appaiono superabili da due alpinisti forti della loro esperienza; altra storia è il livello di pericolo oggettivo da affrontare nella salita, legato ai rischi del luogo e a detta di molti esperti altissimo. 

Il Nanga Parbat non è la più alta montagna della terra ma è la più estesa, quaranta volte il Monte Bianco, due volte l’Everest. Rispetto a quest’ultima e anche al K2, i campi base sono lontanissimi dalla vetta, è necessario inerpicarsi verticalmente per almeno 2.000 metri in più. Le temperature d’inverno possono scendere a trenta-quaranta gradi sotto zero. Nanga Parbat nella lingua locale significa Montagna nuda: il nome deriva forse dalla linea di caduta, quasi verticale, dei suoi versanti, che impedisce alla neve di consolidarsi in alto. 

 

Tom Ballard e Marco Berti al termine di una scalata sul Catinaccio.


Il primo alpinista che pensò di scalare una montagna di ottomila metri fu Frederick Mummery, nel 1895, e volle iniziare proprio dal Nanga. Immaginò di arrivare in vetta dal versante della valle del Diamir, salendo un altissimo sperone di roccia che conduce al ghiacciaio superiore e al trapezio meno ripido della cima. Mentre esplorava uno dei versanti del Nanga con gli alpinisti e i gurkha che lo accompagnavano, fu travolto da una valanga, non si salvò nessuno. Quello sperone prese il suo nome. 

Molto si è scritto sulla pericolosità estrema della via sullo Sperone Mummery. Reinhold Messner e Simone Moro hanno evidenziato le condizioni meteo spesso variabili, con tempeste di neve e rapidi crolli della temperatura, e i rischi derivanti dagli enormi seracchi di ghiaccio incombenti. Messner nella prefazione al libro di Berti rileva che Tom era sì un grande alpinista, ma avrebbe voluto sconsigliargli di iniziare la sfida degli Ottomila proprio con il Nanga e con quello Sperone, che lui ha conosciuto e percorso in discesa. 

La tragica morte di Ballard e Nardi, per beffa del destino, molto probabilmente non è stata determinata da queste cause, non sarebbero stati travolti da una valanga di ghiaccio o da una tempesta di neve. Possiamo solo fare ipotesi, basandoci sulle informazioni di chi ha parlato con loro nell’ultima comunicazione, la sera del 24 febbraio, la giornalista Alessandra Carati e Daniela, la moglie di Nardi, e Alex Txikon che, durante il tentativo di salvataggio, ha potuto osservare con il telescopio i loro corpi appesi alla corda. Quest’ultimo li ha visti sotto il campo 4, dove si trovavano la sera del 24, e dove avrebbero dovuto pernottare. Sarebbero quindi caduti nel corso di una discesa al buio tutta da decifrare, forse necessaria per rimediare al malore di uno dei due.

 

In allenamento con Marco Berti sulla falesie di Rocca Pendice nel 2015.


Pensando alle polemiche feroci che hanno seguito tante imprese di alpinismo estremo, K2, Nanga, Eiger, e che hanno riempito pagine dei protagonisti, viene da chiedersi se ne valga la pena. Alcuni grandi alpinisti si sono persi dietro a contenziosi senza fine, evidenziando egocentrismo e temperamento difficile, una durezza forse necessaria per portare a termine imprese di una difficoltà e di una fatica senza limiti. Non è sufficiente la forza di volontà per resistere a temperature di decine di gradi sottozero, a scalate verticali con l’ossigeno sempre più rarefatto, a dislivelli e baratri, zaini di trenta chili, disagi e sofferenze di ogni tipo. Forse a volte è necessaria una vera e propria ossessione, che a volte spinge forte verso la cima, altre volte conduce alla morte.

Massimo Mila, Renato Chabod, Ettore Castiglioni e altri alpinisti di un tempo, amavano seguire la via di scalata più naturale dal versante più difficile, prediligevano il IV-V grado e portavano sempre un piccolo libro nello zaino. Retorica del bel tempo andato? No, di alpinisti estremi ce ne sono stati in tutte le epoche, basti pensare a Eugen Guido Lammer. È una scelta, una possibilità, che valeva ai loro tempi e vale anche oggi: avremmo alpinisti più umani e più colti, meno ossessivi e forse più felici. 

 

Vale la pena, per amore di fama e di conquista, sottoporre a un rischio estremo la propria vita e alla sofferenza i propri cari? Lo scrittore Robert Macfarlane, inglese come Tom, lo ha scritto chiaro nel suo Montagne della mente: si possono percorrere e salire le montagne con gioia senza dover necessariamente correre rischi estremi. E un nostro scrittore e alpinista scomparso troppo giovane, Giovanni Cenacchi, nel suo libro K2. Il prezzo della conquista, scrisse anni fa una riflessione che a mio avviso vale per tutte la scalate e per tutti i contenziosi: “Cari alpinisti del K2, (…) subito dopo i fatti, dopo la storia necessaria, ci piacerebbe sentirvi raccontare di quel cielo grandissimo, di quel posto così gelido e allo stesso tempo così forte, e di come un ragazzo, undici ragazzi di montagna si trovarono un giorno su una montagna più grande di quanto potessero immaginare. Portateci lassù. Raccontateci dei vostri passi, ricordateci i vostri pensieri, senza retorica e senza rancori”.

 

Nella foto di copertina Alison Heartgrave con i figli Tom e Kate.


Fonti essenziali: 

Marco Berti Tom Ballard. Il figlio della montagna, Solferino, 2019; Il vento non può essere catturato dagli uomini. Da Venezia all’Himalaya, una storia sherpa, Priuli & Verlucca, 2018

Elena Goatelli e Angel Luis Esteban Tom, documentario, 2015

Daniele Nardi e Alessandra Carati La via perfetta. Nanga Parbat: Sperone Mummery, Einaudi, 2019

Simone Moro Nanga, Rizzoli, 2016

Hermann Buhl, È buio sul ghiacciaio, Società Editrice Internazionale, 1962; ultima edizione È buio sul ghiacciaio. Con i diari delle spedizioni al Nanga Parbat, al Broad Peak e al Chogolisa, Corbaccio, 2007

Ed Douglas e David Rose Le regioni del cuore. Storia di Alison Hargreaves, Vivalda, 2004

Reinhold Messner La montagna nuda. IL Nanga Parbat, mio fratello, la morte e la solitudine, Corbaccio, 2003

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