House of cards

22 Maggio 2015

Tra l’apoteosi del potere e l’abisso della rovina c’è solo un sottile crinale, una costante tensione tra l’ebrezza del comando e l’incognita del rovescio. Questo insegna House of Cards, la più potente saga sulla politica vista finora in tv. Lo scorrere degli episodi della serie prodotta negli Stati Uniti da Netflix, arrivata oggi alla sua terza stagione, è stato tutto un sapiente alternarsi di toni e umori. Il racconto è iniziato come una riflessione sull’eccitazione e il fremito della scalata verso la cresta del comando, sulla spregiudicatezza nel piegare il fato alla propria volontà di governare, sull’indifferenza più completa nel sacrificare amici e nemici nella strada che porta al vertice della piramide. Quello in cui si muove Frank Underwood, il quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti interpretato da Kevin Spacey, è un mondo governato da leggi primordiali e brutali (“caccia o sarai cacciato”), dall’arte della dissimulazione, dal desiderio bruciante di primeggiare.

 

 

Dopo il crescendo delle prime due stagioni, la terza, dedicata al racconto dei primi mesi della presidenza Underwood e alla successiva campagna elettorale per la sua riconferma, ha un tono più riflessivo e amaro: una volta arrivati in cima si è più esposti alle raffiche contrarie, al rischio di tradimento da parte dei membri del proprio cerchio magico (l’enigmatico ex capo dello staff Doug Stamper, l’arrivista Jackie Sharp, l’ambiguo “biografo” Tom Yates, forse anche l’amata moglie Claire). Si fa più forte la sensazione che, una volta compiuta la scalata alla Casa Bianca, la parte più elettrizzante del viaggio sia finita, che da lì in avanti si possa solo fronteggiare un inevitabile declino, sorpassati da nuove leve che devono ancora saziare la propria fame di potere, successo, autorità. Per la prima volta, vediamo Frank veramente in difficoltà, ricattato, messo all’angolo, quasi debole, costretto a navigare con un potente vento contrario che allo stesso tempo lo sferza e lo esalta.

 

Anche House of Cards 3 - Atto finale, il romanzo di Michael Dobbs uscito in Italia per Fazi, non è altro che una riflessione amara sul crepuscolo del potere: “Gli uomini raggiungono il culmine della gloria solo per scoprire che la loro reputazione è destinata a cadere come le foglie sotto i venti d’autunno”. La reputazione in questione è quella di Frank Urquhart, il politico conservatore che ha ispirato la serie televisiva della Bbc e, qualche tempo dopo, il suo omonimo adattamento americano firmato Netflix. Dobbs stesso è un politico di lungo corso, che ha ricoperto ruoli di alta responsabilità nelle file del partito conservatore, e il libro è l’ultimo capitolo di una saga letteraria in tre puntate. Pare che anche il premier Matteo Renzi ne sia stato un appassionato lettore.

 

FU (al variegato sottobosco di politici, giornalisti, lobbisti che si muovono tra Downing Street e Wesminster bastano le iniziali per alludere all’uomo più potente del Regno Unito) sta per entrare nella storia come il primo ministro più longevo della storia. Abile comunicatore, implacabile nel question&answer alla Camera, disposto a tutto pur di arrivare ai suoi fini, ha spesso sacrificato l’etica sull’altare dell’opportunità. “Dì pure che sono un bastardo opportunista e calcolatore, se vuoi. Lo prenderò come un complimento”, è il modo in cui ama descriversi a sodali e oppositori. Urquhart è un nobile dell’aristocrazia scozzese che cerca di riaffermarne la rilevanza, il diritto naturale a primeggiare nella catena di comando del paese: in questo è molto lontano dalle origini umili del suo alter ego televisivo americano. Faremmo fatica a immaginarcelo mentre mangia voracemente costolette a Washington, accomodato alla buona a un tavolo della bettola “Freddy BBQ Joint”.

 

 

Non è un caso che Atto finale di Dobbs si apra con molti riferimenti al Giulio Cesare di Shakespeare. Anche qui siamo di fronte a una tragedia, al racconto cupo della fase conclusiva dell’era Urquarth, quando ormai il crinale tra grandezza e declino si è fatto sottilissimo: “è salito così in alto che quasi non tocca più terra con i piedi. Anche perché la terra ai suoi piedi è impregnata di sangue. E scivolosa. È diventato vulnerabile”. Un sanguinoso episodio del suo passato torna a tormentarlo come una sorta di peccato originale, tanto più quando si mischia con una crisi internazionale tra Regno Unito e Cipro e finisce in mano al suo più strenuo oppositore, Tom Makepeace, passato in poco tempo dal ruolo di delfino a quello di vigoroso antagonista. Ai segni della decadenza fisica che Urquhart sperimenta sul suo corpo si aggiunge il senso di un irrimediabile fine politica: “Mi sembra di essere già un pezzo di storia. Di appartenere al passato, non più al presente. E di non avere un futuro”.

 

Seppur raccontata con un minore approfondimento psicologico rispetto alla serie televisiva americana, anche al centro della saga letteraria inglese c’è l’istituzione del matrimonio. Nella serie, il matrimonio tra Frank e Claire è il pilastro che regge le ambizioni politiche dei due, un microcosmo governato da leggi centrate non tanto sull’amore romantico ma su un patto d’acciaio basato sul mutuo rispetto e comuni obiettivi. “Niente dura per sempre, tranne noi”, scrive Frank a Claire dopo che i due hanno superato indenni una prova che metteva a rischio la loro relazione e la loro attività politica. Ma cosa succede quando le ambizioni iniziano a divergere irrimediabilmente, quando uno dei due si deve sacrificare per promuovere l’ascesa dell’altro? Il racconto della crisi è interessante quanto quello della costruzione di una coppia di ferro. Anche Atto finale racconta un’unione che inizia (in modo meno manifesto ed esplicito rispetto alla versione televisiva della storia) a mostrare delle crepe irrimediabili. La moglie Elisabeth è l’alter ego di Frank Urquhart: all’apparenza sembrerebbe meno spietata, meno ambiziosa rispetto all’americana Claire (interpretata da Robin Wright), ma si capisce presto che sarebbe disposta a tutto per salvaguardare l’onore del marito, per custodirne la reputazione. Fino alle estreme conseguenze, fino al sacrificio più impensabile.

 

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