Fotografare e guardare / Turismo

3 Novembre 2019

La cultura moderna si è da sempre caratterizzata per un forte orientamento verso il movimento. Cioè per la sua ferma volontà di promuovere gli spostamenti delle persone in tutte le loro forme. Anzi, come ha sostenuto il sociologo francese Rodolphe Christin nel recente volume Turismo di massa e usura del mondo (Elèuthera), nelle società contemporanee la mobilità viene addirittura considerata una garanzia di soddisfazione psicologica, un obbligo senza il quale non si può aspirare ad essere pienamente realizzati come esseri umani. Vale a dire che «la mobilità è diventata un fattore che dà efficacia alla propria performance esistenziale, è un modo per riempire la propria vita e realizzarne gli obiettivi, è un mezzo per conseguire la felicità personale e sociale e per materializzare i propri fantasmi» (p. 29). Non vale cioè la pena accontentarsi di quello che è collocato vicino, perché quello che si trova lontano, che dev’essere raggiunto tramite un viaggio, può sicuramente possedere un valore superiore. 

 

Di conseguenza, lo sviluppo della mobilità favorisce l’espansione del capitalismo contemporaneo, permettendo l’ampliamento della zona d’influenza del mercato. Ma, soprattutto, favorisce lo sviluppo del turismo, dato che il turista può essere considerato un soggetto che si muove per il mondo alla ricerca di esperienze particolarmente gratificanti. Il turismo, infatti, è nato nell’Ottocento come un fenomeno nobiliare e d’élite, ma è stato progressivamente interessato nel corso dei decenni da un processo di radicale massificazione. Dunque appare evidente che, come ha affermato Christin, «l’uso del mondo si sia degradato in usura del mondo» (p. 18). E che pertanto sia necessario impegnarsi in maniera approfondita per combattere tale usura. Per recuperare cioè un senso per il viaggio, per far sì che questo recuperi tutta la sua singolarità, il suo radicamento nel mondo e il suo ancoraggio con la corporeità. 

Questa però si configura come una lotta estremamente difficoltosa, perché il turismo non è solamente quello che oggi è il settore economico più significativo, ma anche un potente fenomeno sociale e culturale. Marco d’Eramo ne ha dato conto qualche tempo fa nel libro Il selfie del mondo. Indagine sull’era del turismo (Feltrinelli), dove ha raccontato come ogni territorio geografico e culturale sia stato progressivamente dotato di una specifica identità che può essere sfruttata per esercitare una capacità d’attrazione nei confronti della domanda turistica. 

 

 

D’Eramo ha messo inoltre in evidenza come il turismo possa essere efficacemente interpretato attraverso l’analisi proposta tempo addietro da Dean MacCannell, secondo il quale quello che conta per i luoghi turistici non è tanto la loro natura oggettiva, ma la loro capacità d’attrazione, che la società elabora dando vita a delle “frecce”, cioè dei markers che attirano l’attenzione. Il turista poi, visitando tale luogo, produce a sua volta altri markers: cartoline, fotografie, giudizi sui social network, ecc. Non a caso, il fotografare sostituisce spesso per i turisti l’atto del guardare. E il digitale, semplificando enormemente l’atto del fotografare, ha intensificato questi comportamenti. Dunque, la diffusa pratica odierna del selfie è dovuta al bisogno di segnalare la propria presenza e la propria esistenza, ma anche alla necessità di produrre dei “marcatori”. Il turista contribuisce pertanto a conferire con i suoi markers una natura autentica all’attrazione di tipo turistico. 

Di conseguenza, nascono anche delle città che sono interamente dedicate al turismo o appositamente trasformate per raggiungere tale scopo. D’Eramo ha raccontato di città come Venezia, San Gimignano, Las Vegas o la cinese Lijiang, la quale è stata ricostruita dopo un devastante terremoto secondo un modello di pura fantasia. Eppure oggi ogni anno circa 20 milioni di turisti si recano all’interno di tale città per vedere dei falsi edifici antichi, come quel palazzo della famiglia Mu che in precedenza non è mai esistito.

 

Si tratta di città che applicano il modello dell’«autenticità messa in scena» di cui ha parlato ancora MacCannell. L’autenticità dev’essere cioè “marcata” per essere visibile al turista. Perciò spesso il turista rimane deluso, perché si è precostituito delle aspettative tramite i markers che ha incontrato prima della sua visita e che non corrispondono alla realtà. Eppure l’industria turistica odierna non si ferma. Spesso addirittura trasforma in attrazione gli stessi turisti. E riesce addirittura a fare affari persino svelando la messa in scena, cioè mostrando quello che è possibile trovare “dietro le quinte”. 

Nonostante tutto, va riconosciuto, come ha fatto anche D’Eramo, che il tanto bistrattato sguardo del turista di massa non è molto differente da quello della modernità. Rappresenta cioè il riflesso di quell’insaziabile volontà di conoscere e comprendere il mondo circostante che ha alimentato con successo il processo di sviluppo delle società occidentali. 

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