Un libro di Maurizio Bettini / La vera storia del presepio

24 Dicembre 2018

Mentre sindaci, dirigenti scolastici, deputati e senatori della ex Lega Nord, ora Lega di Salvini, e altri personaggi consimili, tutti membri di diritto dell’eterno Carnevale italiano, si agitano per riaffermare la presenza del Presepio nelle scuole e nei luoghi pubblici, dal momento che in virtù del “politicamente corretto” vi è stato estromesso, esce un bel libro dove la storia del presepio è raccontata per filo e per segno. Che cos’è esattamente il presepio? Come nasce? Perché ci sono quei personaggi? Che senso ha farlo oggi? Sono tante le domande che s’affollano in questo libro del classicista Maurizio Bettini, Il presepio (Einaudi, pp. 189, € 19). Il suo non è solo un libro di studio, ma anche un libro di memoria. Meglio: un’autobiografia in forma di studio e di racconto. Tutto comincia con una dichiarazione ad apertura di volume: “Non saprei dire da quanti anni ho smesso di fare il presepio. Venti, trenta, anzi molto di più”. Perché interrogarsi oggi su questo “oggetto” tanto da scrivere un libro dotto e complesso? La risposta non viene subito. Prima bisognerà intraprendere un cammino, per quanto una definizione l’autore la dà subito: il presepio è “una finzione fragile, per questo incantevole”. Seguiamo Bettini. E tenere bene a mente che la parola che l’autore usa, sin dall’esergo infantile, è “presepio” e non “presepe”.

  

La fonte principale sono naturalmente i Vangeli. Si comincia con Matteo (Matteo 2: 1 sgg). La storia è quella della nascita di Gesù a Betlemme al tempo d’Erode. Ci sono i Magi che vengono dall’Oriente, che passano a chiedere a Erode, il quale si fa promettere segretamente che, trovato il bambino, torneranno da lui a riferirgli. I Magi, il cui numero non è definito, seguono la stella, trovano il luogo in cui è deposto il bambinello ma, avvertiti in sogno, fanno ritorno al loro paese per altra strada senza parlare con Erode. Una storia che abbiamo letto molte volte. Bettini ci fa notare che nel passo non ci sono mangiatoie, pecore o pastori. Da dove spuntano fuori? 

 

Il Vangelo di Luca (Luca 2: 6 sgg) è il vero testo che ha favorito la nascita del presepio, anche se non subito. Lì c’è la mangiatoia, poi i pastori, l’angelo, Maria, Giuseppe, ma non ancora i Magi. Non c’è neppure la grotta, presente in molte iconografie successive, in quadri e affreschi. A contribuire alla costituzione del presepio è un altro testo, il Protovangelo di Giacomo, non entrato tra i canonici. Vangelo apocrifo, ma molto influente presso le prime comunità cristiane, è stato composto nel II secolo; è il Vangelo dell’infanzia di Gesù, da cui provengono molte storie sul bambino divino. La vicenda del presepio trova lì una serie di dettagli significativi. Il testo ha un andamento narrativo; fa parlare i personaggi, compresa un’ostetrica, che aiuta Maria a partorire. Lì si trovano il bue e l’asino, fondamentali per ogni presepio che si rispetti, e anche i Magi. Di questa versione all’autore del libro interessa la presenza della grotta. Gesù nasce lì, non in una casa come in Matteo. 

Questa la partenza. Per diventare un vero presepio deve attraversare un altro terreno occupato dai teologi e dai commentatori delle sacre Scritture. Il primo che ci interessa è Origene, anche se ci sono altri prima, compresi eretici come Celso. Origene dà forma canonica al tutto: Betlemme, la grotta, le fasce, la mangiatoia. Il punto su cui si concentra Bettini da antichista, è il parallelo tra Gesù e le figure mitiche che l’hanno preceduto: le storie delle nascite dei bambini divini. In particolare Adone, che sembrerebbe fungere da modello per la nascita dello stesso Salvatore. Inutile dire ci sono innumerevoli paralleli e anche molti dettagli simili tra tutte queste storie, compresa la grotta in Arcadia sul monte Cillene in cui è posto Adone. E poi c’è la storia della nascita di Dioniso stesso. 

I commentatori cristiani hanno sovrapposto le tradizioni pagane a quelle del nuovo Dio e fatto slittare i significati dalla tradizione passata al nuovo evento mitico narrato dai Vangeli, e commentato dagli esegeti. L’autore si concentra sul termine “mangiatoia” per via di questa sovrapposizione di storie: líknon è l’oggetto greco che corrisponde al nostro “mangiatoia”; i Romani lo chiamano vannus, ed è il cesto utilizzato per vagliare il grano. Il viaggio che Bettini ci fa fare tra le parole e le cose è affascinante; ci mostra la parentela tra i miti greci, e poi romani, e il mito cristiano, tra le nascite divine e quella di Gesù a Betlemme. 

 

Luca indica la mangiatoia come un “segno” dato ai pastori per riconoscere il Salvatore, cosa non indifferente, perché lo scambio dei bambini è un topos sempre presente nelle storie mitiche, come racconta la proto-saga di Harry Potter, Animali fantastici, ora nelle sale cinematografiche. Conclusione di questo primo tragitto: il mondo antico è ricco di racconti in cui c’è un bambino nato in una grotta in circostanze eccezionali, deposto non in una culla, bensì in un contenitore differente. Si pensi alla vicenda di Mosè per restare alla tradizione ebraico-cristiana. 

Gli animali rivestono qui un ruolo non secondario: Animali soccorrevoli s’intitola il secondo capitolo del libro. A partire da Gilgamesh sino ad arrivare a Romolo e Remo, e quindi Gesù, sono gli animali a soccorrere il fanciullo divino, il predestinato a grandi cose; una tradizione che nel mondo antico ha conosciuto una grande fortuna. L’eroe bambino è rifiutato dalla cultura e salvato dalla natura, scrive Bettini. Come entrano nella storia della nascita di Gesù l’asino e il bue? Attraverso Virgilio. Mi si perdonerà se qui sarò breve, perché Bettini, che è lettore ed esegeta acutissimo dei testi, non fa mai salti in avanti: procede calmo e sicuro, e vaglia pazientemente tutte le fonti che incontra. 

 

Siamo nella quarta egloga delle Bucoliche con un vaticinio a lungo commentato, che ha portato Virgilio a entrare nel poema dantesco quale guida e mentore. Diamo per scontato anche il passo profetico redatto dal poeta latino; e qui non posso che rimandare alle pagine del libro, così come per la storia di Costantino. In breve: Virgilio sembra anticipare la venuta del Bambino divino, di Gesù, o almeno così può essere interpretato il passo cui si fa riferimento nel libro. Tutta l’antichità cristiana l’ha detto e ridetto, compreso il vaticinio cumano, quello della Sibilla, presente in pitture e intarsi marmorei. 

Arriviamo così a Prudenzio (348-402). In una raccolta intitolata Odi quotidiane parla del Natale di Gesù e degli animali (“i bruti animali”). Arrivano i quadrupedi alla mangiatoia. Bettini ci mostra almeno un paio di sarcofagi cristiani con natività dove sono raffigurati i Magi. Per riassumere e per non perderci in questo che è solo un condensato sommario delle pagine di Presepio, diciamo che le due tradizioni narrative della nascita del Salvatore (Luca e Matteo) confluiscono in un unico racconto visivo. Il passaggio è importante: è un racconto visivo. Il presepio, non bisogna mai dimenticarlo, è prima di tutto un fatto visivo. Possiamo aggiungere: una piccola scultura fatta di tante piccole sculture. Per usare un termine contemporaneo, che non so quanto adeguato, e che Bettini certo non usa, il presepio è un evento performativo. Non siamo al “dire è fare” di J. L. Austin, ma neppure troppo lontani. 

Sono le immagini delle opere d’arte (affreschi, bassorilievi, pitture su tavola) che rendono visibile il presepio: dalle parole all’opera. Siamo in quella che Bettini chiama la “memoria culturale”; il suo libro s’iscrive all’interno di quest’area. Tuttavia senza le parole non ci sarebbero queste immagini. Non le immagini in generale, ma proprio queste. Da qui comincia il presepio propriamente detto: con bambino nella mangiatoia, il bue e l’asino, i pastori, i Magi, con Maria e a volte anche Giuseppe, ma non sempre. I due animali costituiscono un punto importante, come si vedrà poi con San Francesco. Le fonti sono affreschi: nelle catacombe romane e a Verona nell’Ipogeo di Santa Maria in Stelle.

 

 

Bettini, da quello che si apprende leggendo il libro, ci ha messo anni per mettere insieme le cose che racconta e spiega. Non tanto, e non solo, le informazioni; i pezzi c’erano già, per quanto separati. Quello che più conta in questo volume riccamente illustrato sono le motivazioni di fondo, cioè le domande più o meno esplicite che Bettini fa al suo presepio anche se non lo allestisce più da anni; l’ha fatto nel passato e questo, come si vedrà, è quello che conta. 

 

C’è un altro passaggio importante che chi ha fatto il Liceo classico darà per scontato, ma che chi proviene dallo Scientifico o dagli Istituti Tecnici e dall’Artistico non è detto colga al volo. Si tratta del passaggio dall’allegoria al racconto. Oggi anche i ragazzini delle medie inferiori sanno cos’è l’allegoria. Senza allegoria non si capisce la letteratura medioevale, ma soprattutto le Sacre Scritture. La grande tradizione allegorica sta alle nostre spalle, eppure, in qualche misura, anche davanti a noi. 

La mangiatoia non è mai esistita, dice Bettini, eppure è diventata importante grazie al suo contenuto allegorico; di più: grazie alle allegorie dei commentatori. Tutto un fatto di parole: “dire è fare”; da “mangiatoia” si arriva a “greppia”, poi a “recinto”; “presepio” significa esattamente “recinto”, ciò che si “chiude davanti”, come una “siepe”, e questo è lo spazio dove stanno gli animali. E l’allegoria? Origene è lui che porta dentro la storia del presepio gli animali. Cita Isaia 1, 2: “il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la mangiatoia del suo padrone”. Un passaggio che Origene lega strettamente a Gesù il Salvatore. Il gioco è fatto: uso allegorico e esegesi del passo. I due animali entrano in scena. 

La parola “presepio” c’è già nella traduzione di Isaia. Sant’Ambrogio ne è il mediatore. Ciascuno porta il suo pezzetto e tutti insieme creano il presepio. Tralascio alcune cose molto interessanti, che riguardano la presenza o l’assenza di Maria, dei pastori e dei Magi. Gregorio di Nissa spiega la presenza di tutti o quasi i personaggi in questa scenografia natalizia della natività. 

 

Bettini dice una cosa molto importante, che riguarda un’espressione oggi in uso, seppure inflazionata, e quindi in progressivo deprezzamento: storytelling. Dice che dai testi si arriva al racconto. Forse era già implicito, o almeno lo è per chi ha considerato i Vangeli dei racconti. Non è sempre stato così. Aggiunge anche un’altra osservazione che aiuta ad afferrare come funzionano le fake news: i testi falsi o falsificati nella storia della cultura sono quelli che esercitano la maggior influenza sulla memoria e sulle tradizioni. Questo è il succo della storia del presepio: una tradizione inventata in un lasso di tempo lungo, seguendo linee di sviluppo per nulla scontate: caso o necessità? Entrambi, direi.

C’è ancora un altro partecipante al rito del presepio, partecipante al plurale: i Re Magi. Arrivano il 5 gennaio, o almeno così dovrebbe essere, in ogni presepio che si rispetti. Qualcuno comincia a metterli prima, e poi li avvicina, progressivamente alla capanna, o grotta, il giorno fissato: Epifania. Qui ci sarebbe un altro punto interessante da sviluppare: la Befana. Non sto però qui a farlo. Basta ricordare che si tratta di tradizioni che si sovrappongono o divergono, come per la storia di Babbo Natale. La cultura è sempre ibridazione. 

 

C’è una tradizione che sostiene che l’arrivo dei Magi sia legato alla identità taumaturgica di Gesù; i miracoli sono il risultato di una investitura, o riconoscimento, che avviene grazie a loro. Come nelle teorie del complotto – il paragone non appaia irriguardoso – si cerca di far collimare cose diverse, di fonderle insieme; qui è la nascita e le profezie bibliche; è il caso di Isaia citato. In Matteo il ruolo dei Magi è decisivo e non è solo legato a una questione astrologica come qualche volta è stato detto.

C’è un’opera esemplare di tutto questo: i Re Magi che compaiono nel mosaico ravennate di Sant’Apollinare Nuovo, realizzati nel VI secolo. Una meraviglia: mantelli, doni, postura, volti, berretto frigio: tutto questo vale da solo il viaggio nella città romagnola, antica capitale. Ora, come mai i Magi sono diventati tre, mentre in Matteo erano plurali, di numero non definito? E poi perché sono dei re? Rimando alle pagine di Bettini, anche se non esauriscono una storia che da sola meriterebbe un libro a sé. Chissà che l’autore di questo libro non la scriva prima o poi.

 

C’è un testo di un cristiano alessandrino vissuto tra il V e il VI secolo che risalirebbe a un monaco della corte merovingia, una storia avventurosa essa stessa: Excerpta Latina barbari; qui vengono finalmente dati i tre nomi ai Magi: Bithisarea, Melchior, Gathaspa. E il Re Mago nero? E perché in alcuni dipinti figurano un vecchio, un giovanotto e un nero? Risposta di Bettini: la macchina narrativa produce dettagli e notazioni che arricchiscono man mano il racconto. Chi ha letto Propp lo sa. Meraviglia del narrare! Quello che fa specie all’autore di questo volume è che all’origine di tutto ci sia la “lambiccata opera dei teologi”, dal che si capisce che Bettini, pur avendo studiato dai gesuiti, come racconta, non ami le lambiccature. E qui sta probabilmente il cuore del suo libro.

Prima di spiegarlo bisogna andare a Greppio, al presepio vivente di Francesco. Il santo crea il presepio come dal racconto di Tommaso da Celano. La faccio breve, per quanto esista sulla storia un’ampia letteratura da cui, pur conoscendola, Bettini prescinde. Il centro di questo imprescindibile episodio, da cui verrebbe il nostro presepio attuale, c’è una assenza. Mancano il Bambino, Giuseppe, Maria, i pastori e agli angeli. A Francesco interessano il bue e l’asino in carne e ossa da mettere vicino alla mangiatoia. Questo è il focus del praesepium: il fieno contenuto. Possibile? Sì, il santo mette al centro dell’attenzione un oggetto. Non vuole raccontare l’intera vicenda della Nascita, scrive l’autore, come si è creata nella tradizione cristiana sin lì. Si prefigge di mostrare, di far vedere con gli occhi del corpo i disagi che Gesù ha dovuto affrontare sin dalla sua nascita: mangiatoia, fieno, asino e bue a riscaldarlo. Il resto non gli importa. 

Qui è il centro della ricostruzione di Bettini: il praesepium è il fulcro della storia. La “cosa”, non la scena, viene da dire. Gli interessa la traccia linguistica – líkna – che ha inseguito in tutto questo lungo percorso come un detective.

 

A questo punto, siamo al capitolo terzo del libro, intitolato Un’antropologia del presepio, Bettini capisce di non aver “capito” il presepio. Il suo flusso di memoria culturale sì, ma non “la cosa”. Che cos’è “la cosa”? Il presepio, scrive, è un artefatto, posto al centro di un rituale, culturalmente significativo. Tuttavia ha perso il suo significato originale, quello su cui lavoravano i teologi e gli esegeti. Necessita qualcosa che Bettini non ha più – dice di averlo avuto, ma che non l’ha più da decenni. 

Qui il libro cambia tono e ritmo. L’autore narra di aver visitato tanti presepi alla ricerca dell’essenza del presepio stesso – questa espressione è mia. A Pisa, a Firenze, a Parigi, alle Cinque Terre, a Bressanone. Racconta di presepi magnifici, anche se le sue descrizioni sono sempre un po’ malinconiche. Rientra a casa e conclude: il vero presepio è quello che si fa per conto proprio, nella propria abitazione. 

Queste considerazioni gli danno l’occasione di dire cosa è il presepio. Siamo nel campo dei significati, non delle origini e neppure delle spiegazioni. Il presepio è il ciclo del tempo; ha una natura fiabesca; implica degli spettatori che non sono dei creatori. Bettini è innamorato dei personaggi del presepio, quelli introdotti successivamente. Sono pagine molto belle, sognanti. Lo studioso ha lasciato qui il passo allo scrittore, al sognatore del presepio. 

 

Il presepio contiene più temporalità: il tempo narrativo, il tempo mitico e il nostro tempo. In realtà questi tempi si fondono insieme e solo lo studioso, l’esegeta della “cosa” presepio riesce a vederli e distinguerli. Tutto sta nella temporalità che si vive. Quella sacra è stata fondamentale per secoli. E oggi? Per arrivare alla conclusione, che in realtà è lì, a pochi passi da lui, Bettini deve rivestire i panni dello studioso e raccontarci un’altra storia, quella dei Sigillaria, le feste del dio Saturno a Roma. Non starò a raccontare anche questo passaggio. Rimando al libro e vi assicuro che ne vale la pena. C’è ancora un altro passaggio, quello che riguarda i Lari, i protettori della casa. Sono storie di statuine, di piccole sculture di terracotta, presenze del passato. C’entrano con Gesù, spiega l’autore. Sono presenze dell’assente, gande tema religioso, sia pagano che cristiano.

 

Corro alla fine, là dove c’è la risposta ai tanti perché di questo viaggio nella storia e nell’antropologia del presepio. De te fabula narratur. Perché mi occupo del presepio?, si chiede l’autore. Perché ho un patto di fedeltà nei confronti di me stesso. Non quello con la religione in cui sono stato allevato, il Cristianesimo – Bettini ha scritto vari libri per manifestare la “superiorità” del politeismo sul monoteismo. La fedeltà a se stessi è quella all’infanzia, alla propria infanzia. Il presepio, non è solo l’infanzia della Divinità, che ha dominato la nostra storia occidentale per due millenni, ma proprio l’infanzia di Maurizio Bettini, e il presepio è il ritorno al proprio Io bambino. Riguarda quel tempo, che non è passato, ma continua ancora, ogni volta che si fa il presepio. Un tempo mitico, si dovrebbe dire, perché anche questa temporalità fuori dal tempo, per quanto diversamente dal passato, oggi la pratichiamo ancora, in tutto ciò che è sospensione del tempo feriale dominante, nel tempo della festa, nelle mitologie del contemporaneo e ancora, per nostra fortuna, come ci fa capire Bettini, nel presepio. Non sarà molto, tuttavia non è neppure poco.

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