Ancora sul Nobel A Dylan / La vocazione metamorfica della letteratura

24 Ottobre 2016

A me l’assegnazione del Nobel per la letteratura a Bob Dylan sembra una buona notizia. La ragione è quella che molti (fra cui Francesco De Gregori) hanno indicato subito: al di là della persona del premiato, il riconoscimento va a un intero settore della produzione culturale. Questo, almeno, all’ingrosso; conviene aggiungere qualche precisazione.

In primo luogo, considero fuorviante l’affermazione che anche le canzoni d’autore sono (o possono essere) «poesia». A meno che non si voglia riesumare un’idea di poesia di stampo crociano, qui non è questione di valore, ma di identità. Che la maggior parte dei testi delle canzoni abbia un valore poetico scarso importa poco: questo vale anche per i romanzi e le raccolte liriche. Il punto è che le canzoni rappresentano un uso poetico del linguaggio. Anzi, per dirla in termini più schietti: dell’uso poetico del linguaggio, oggi come oggi le canzoni rappresentano una parte assai cospicua. Senza inoltrarsi in questioni teoriche, valga qualche sintomo: i versi di canzoni che vengono ripresi come titoli di libri, che vengono trascritti sui diari e sugli zainetti degli adolescenti, che fungono da didascalie nelle firme elettroniche e nelle comunicazioni in rete… Del resto, a tutti noi capita, se non di cantare a voce spiegata, almeno di canticchiare a mezza voce, nelle circostanze più varie. Ebbene, questa è la radice della poesia: figurazioni di parole che si ripetono, sempre uguali, in un rapporto assolutamente libero e impregiudicato con il contesto in cui vengono profferite.

 

Intendiamoci. Dicendo che la poesia esemplifica un uso poetico del linguaggio non si vuole enunciare se non una possibilità; non è detto che si verifichi sempre. Se si ascolta una canzone straniera senza intenderne le parole, è chiaro che non ci troviamo affatto di fronte a un uso poetico del linguaggio. Idem se di una canzone si ricorda la melodia, ma non il testo. La canzone è una forma mista, la musica conta di norma più delle parole, e la memoria può trattenere l’una senza le altre; se di una poesia si dimenticano le parole, invece, non resta più nulla. Insomma, non c’è dubbio che la canzone occupi una zona di confine del dominio letterario. I confini sono importanti; ma sono, appunto, confini. Va bene il Nobel a Bob Dylan nel 2016; sarebbe invece bizzarro se nel 2017 venisse premiato Bruce Springsteen, nel 2018 Paul McCartney, nel 2019 Leonard Cohen – e non solo perché a quel punto sarebbe lecito chiedersi perché non Paolo Conte? o Chico Buarque?

 

In altre parole, il premio a Dylan è una buona notizia perché avvalora un’idea di letteratura estesa, multiforme, pervasiva, spuria, che a me sembra molto più fertile e interessante di una nozione esclusiva e ristretta, per sua natura incline all’aulico. Io, personalmente, ne diffido: è come ridurre il mondo delle bevande alcoliche ai distillati gran riserva. La grande forza della letteratura sta nella sua capacità di espansione, nella sua vocazione metamorfica. Se fosse esistito il Nobel in epoche passate, non avrebbe dovuto suscitare scandalo un premio a Lorenzo Da Ponte, o a Francesco Maria Piave, o a Jacopo Ferretti (dopodiché se il premio fosse andato a Jacopo Ferretti e non al suo amico Giuseppe Gioacchino Belli non sarebbero mancate le polemiche). Per la verità, l’Accademia di Stoccolma non ha mai proposto un’idea troppo sublimata e auratica di letteratura. Nel 1902 (seconda edizione!) venne premiato Theodor Mommsen, uno storico. Nel 1927 Henri Bergson. Nel 1950 Bertrand Russell. E nel 1997 Dario Fo, cioè un uomo di teatro che faceva della vocalità (oltre che della presenza scenica) uno dei suoi punti di forza, ben al di là della tenuta dei testi. 

 

 

Ma sull’operato dell’Accademia occorre intendersi. È chiaro, è ovvio che l’elenco dei vincitori del Nobel per la letteratura non offre un’immagine attendibile dei valori della letteratura mondiale. Non nell’insieme, e non nel dettaglio. Non nell’insieme: troppi occidentali, troppi anglosassoni, troppi francesi, troppi scandinavi. Sta di fatto però che l’idea di un premio mondiale è fiorita a Stoccolma, non altrove; una prospettiva eurocentrica era, e in parte è ancora, inevitabile. E inglese e francese sono le lingue occidentali di maggiore spicco, se si sommano prestigio culturale, diffusione internazionale, peso politico. Mancano troppi grandi all’appello, questo sì. A partire dal 1901 l’Accademia ha avuto un decennio di tempo per coronare Tolstoj, e non l’ha fatto (le altre scelte, Kipling a parte, sono al confronto quasi imbarazzanti). Nel 1921 ha premiato Anatole France, anziché Proust. Nel 1932 John Galsworthy, e c’era Virginia Woolf. Nel 1938 Pearl Buck, non Scott Fitzgerald. Oggi molti dicono: perché Dylan e non Philip Roth o Don DeLillo? Vero, ma di Nobel mancati ce ne sono tanti: Nabokov, Borges, Marguerite Yourcenar, e Calvino, e Primo Levi… Tanto basta per svalutare il premio?

 

A mio avviso no. In primo luogo perché un premio all’anno non permette di onorare tutti quelli che, su scala planetaria, lo meriterebbero. In secondo luogo perché trovo sbagliato considerare il Nobel come una scala di valori assoluti. La cosa importante è che, anno per anno, ci siano ragioni valide. Può anche entrare in gioco la politica (c’è da stupirsi?): nel 1915 aveva senso premiare Romain Rolland, uno fra i pochissimi intellettuali contrari alla guerra, anche se già allora Thomas Mann lo batteva di molte lunghezze (del resto Mann sarà laureato nel 1929), così come aveva senso premiare nel 1939 il finlandese Frans Eemil Sillanpää, o Aleksandr Solženicyn nel 1970. Poi ci sono i premi-sineddoche. Finalmente un latinoamericano, Gabriela Mistral nel 1945; finalmente un asiatico, Kawabata nel 1968 (solo parziale era stata l’eccezione di Tagore, 1913); finalmente un africano, Wole Soyinka nel 1986. E ci sono i premi che valorizzano letterature «minori» o aree culturali periferiche (Derek Walcott, 1992); e potremmo continuare. 

 

Concludo. Nell’anno di grazia 2016 un premio a Bob Dylan, cioè alla canzone d’autore, non solo ci sta benissimo, ma non è nemmeno più una provocazione: semmai, al contrario, può perfino apparire come un tardivo Oscar alla carriera. A posteriori, qualcuno potrà dolersi che il Nobel sia stato assegnato a Jean-Paul Sartre (che lo rifiutò) e non a Georges Brassens (che, forse, l’avrebbe accettato): e chissà se l’uomo di Duluth si prenderà il disturbo di prender l’aereo per Stoccolma. Ma non è troppo tardi per ricordare che nel vasto, variegato, poroso dominio della letteratura ci sono anche i componimenti in versi destinati alla musica; e che, quando si ascolta una canzone, è bene prestare attenzione al testo. Da questo punto di vista, se anche il Nobel a Dylan significherà poco per lui, potrà significare parecchio per noi: cioè per le centinaia di milioni di persone che ogni giorno ascoltano canzoni (non solo le sue), e che in questo modo esercitano la propria sensibilità per le parole, per il loro peso e il loro ritmo, e questo con la poesia c’entra, eccome. Che se ne accorgano oppure no. 

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