Valeria Luiselli. Carte false

1 Aprile 2014

In uno dei suoi componimenti in prosa, César Vallejo, tra i più grandi poeti di lingua spagnola, paragona la casa ad una tomba, perché entrambe, secondo l’autore peruviano morto a Parigi alla vigilia dell’entrata della Francia nel secondo conflitto mondiale, vivrebbero esclusivamente degli uomini, non tanto i loro passi,  “i baci, le scuse, i crimini”, il bene e il male, quanto la loro presenza, che s’attacca alle pareti d’entrambe come un gerundio ben assestato, rendendole irresistibilmente simili. Valeria Luiselli pare conoscere l’analogia, perché apre il suo libro Carte False (La Nuova Frontiera, traduzione dallo spagnolo messicano di Elisa Tramontin) con il racconto dell’incontro con Iosif Brodskij, la cui ricerca per le stradine del cimitero di San Michele a Venezia ricorda il procedere di chi, non conoscendo il numero civico della persona cui vuol far visita, sforza gli occhi sulla placca dei citofoni, trasalendo segretamente ogni volta che vede la prima lettera del cognome che sta cercando.

Luiselli sa che il viaggio da Città del Messico alla laguna più celebre del mondo non andrà a vuoto, non solo perché è sicura di trovare il poeta russo – considerato che “una persona ha soltanto due residenze permanenti: la casa dell’infanzia e la tomba” (p. 13) –, ma anche perché non dubita d’avere buone probabilità di non rimanere delusa dall’incontro con un morto. Se, per caso, dovesse capitare il contrario, non avrebbe l’imbarazzo di dissimulare il proprio disappunto, perché, comunque, nessuno s’offenderebbe, nonostante la religione ci abbia convinti ad essere educati con i defunti.

 

 

Da Venezia a Venezia, dunque, attraversando l’oceano Atlantico. Perché lo zibaldone dell’autrice messicana termina circolarmente, dalla tomba di Brodskij, insieme a quelle di Ezra Pound, Luchino Visconti e Igor’ Stravinskij, alla sua, non ancora costruita ma già idea di patria per chi, “senza crisi d’identità e ancora passivamente atea” (p. 114), vorrebbe trascorrere il resto dell’eternità su un’isola che, vista dall’aereo, “potrebbe sembrare un enorme libro rilegato” (p. 13).

 

In mezzo, tra il braccio di mare e la muraglia che dividono l’isola dalla terraferma, Luiselli delinea una personale geografia con cui dà forma letteraria alle porzioni di mondo che esplora con la grazia di una ciclista abituata a farsi strada con disinvoltura garbata ma ferma. Le dieci sezioni di cui si compone il libro sono suddivise in unità narrative che seguono l’incedere lirico dell’epitaffio, incedere che è però alieno da ogni retorica o enfasi, il cui scopo è onorare tanto la capacità di conversare con i morti illustri quanto lo spirito di osservazione.

Dalla cartoteca di Città del Messico, dove il leitmotiv degli eroi e delle tombe si manifesta nei pesanti bauli-sarcofagi di mogano in cui sono conservate le mappe risalenti all’epoca del Porfiriato, a Madrid, sul Manzanares, dove “gli sfiatatoi emettono un gemito come di balena e un vapore fetido che si adagia sul Paseo de los Melancónicos come una bellissima coperta asfissiante” (p. 53). Da Ramón del Valle-Inclán a Julio Cortázar, da Marguerite Duras a Rubén Darío, da Stevenson a Roberto Arlt, con le tasche gonfie di appunti e di bigliettini di qualche ristorante o bar da ricordare per raccogliere i pezzi di una rappresentazione topografica “su scala dell’immaginazione umana” (p. 33).

 



Così, in una delle ultime sezioni del libro, il girovagare diventa marcatamente libresco: s’impara, insieme all’autrice, a muoversi come gli sradicati che, stando sulla soglia, cercano di tradurre innanzitutto se stessi, come Beckett. E se, “imparare a parlare è rendersi conto, poco a poco, che non possiamo dire niente su niente” (p. 65), la mente, tuttavia, non può che essere raminga, “trascinando i piedi come un mendicante in cerca di parole che ancora non sono state divorate fino al midollo” (p. 68, Luiselli cita George Steiner).
In fin dei conti, per dirla con Herman Melville, i luoghi veri non sono mai segnati sulle carte ma, senza guide turistiche né cartine, è probabile (non certo) che con il mestiere dello scrivere, così come con la lettura, ci si possa arrivare comunque, anche in groppa ad una bicicletta scassata.

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