Polo del ‘900 / Ritorno nel Fiat-Nam

24 Aprile 2022

Questa è una storia vera, è capitata al padre di una mia amica. Operaio a Mirafiori nei primi anni Settanta, fu vittima di un orribile incidente sul lavoro a causa della scarsa manutenzione dei macchinari. Mentre è in ospedale ustionato in gran parte del corpo con pochissime speranze di sopravvivere, alcuni funzionari della FIAT avvicinano la moglie e le propongono un patto: se non denuncia che l’incidente è avvenuto dentro lo stabilimento, ma fuori, per cause fortuite, si impegnano ad assumerla come impiegata, assicurandole così i mezzi di sussistenza per sé e per le figlie. Il marito muore, la vedova accetta il patto. Va a lavorare in FIAT e riesce a crescere le figlie dignitosamente. Per farlo utilizza quel “sistema FIAT” che ha condizionato Torino per decenni, mescolando la spietatezza delle pratiche appena descritte con un approccio welfaristico che viene descritto perfettamente in Oltre il lavoro, vero e proprio classico del cinema aziendale, realizzato proprio in quegli anni, nel 1972. È una produzione di CineFIAT, l’equivalente della Commissione Stampa e Propaganda del PCI di allora. E in qualche modo Oltre il lavoro è il contraltare di Trevico-Torino, viaggio nel Fiat-Nam, il film di Ettore Scola che uscì giusto un anno dopo.

 

 

CineFIAT non produceva solo filmati pubblicitari, ma sfornava documentari didattici e testimonianze di vario tipo sull’attività dell’azienda. Questo film, per esempio, sembra fatto ad uso interno, indirizzato agli stessi dipendenti, per metterli al corrente di tutte le attività e di tutte le opportunità che la FIAT offriva “oltre il lavoro”. In 24 minuti il filmato mette in fila una quantità rabelaisiana di settori di intervento. Si parte dal campo ricreativo-sportivo: pallanuoto, bocce, canottaggio, tennis, piscine, atletica, lotta greco-romana (!), pallacanestro, tuffi e pesistica. Si passa poi a tematiche più sociali: il credito per l’acquisto di un’auto (naturalmente FIAT), l’assistenza sociale, la salute, gli asili e le scuole materne, i collegi, le colonie. E naturalmente le case popolari, costruite “con impegno sempre crescente”. Sono gli stessi palazzoni di Mirafiori e delle Vallette che si vedono ogni tanto incombere nei “totali” che documentano gli impianti sportivi. C’è poi la scuola allievi, per i figli degli operai destinati a essere i nuovi dipendenti. E il “Natale FIAT”, immancabile festa in cui – apparentemente – i bambini delle famiglie operaie tornano a casa ricolmi di doni. Il film si premura di dirci che tutto questo è esposto mensilmente anche in “L’Illustrato FIAT”, periodico distribuito a domicilio, di cui vediamo la redazione all’alacre opera. 

 

La pervasività dell’approccio dell’azienda nei confronti dei dipendenti non si arresta nemmeno quando cessa il rapporto di lavoro. Entriamo nel mondo degli “anziani FIAT”, che possono disporre di raduni periodici, di una casa di riposo (inevitabilmente intitolata a Giovanni Agnelli) e di un albergo per vacanze in Riviera. Infine, ecco le attività più latamente culturali: una biblioteca (di cui però, curiosamente, l’unico volume inquadrato è un manuale che si chiama Uomini e pesci), spettacoli folkloristici dedicati alle comunità regionali, concerti di musica classica; e ancora: gimkane, alpinismo, pesca subacquea, scacchi, filatelia, micologia e corsi di fotografia. In questo catalogo del migliore dei mondi possibili tutto è pulito e nitido. Dalla fabbrica alla casa di riposo si respira un’aria di ordine e ragionevolezza, in cui tutto è come dovrebbe essere.

 

Con effetti talvolta stranianti: la geometria inquietante della mensa degli anziani, per esempio, ricorda l’ordine funzionale della catena di montaggio – anche se l’elemento più surreale della scena è una cameriera in guanti bianchi che sembra uscita direttamente da casa Agnelli. Il tutto è narrato con l’ausilio di una musichetta easy pop accattivante e onnipervasiva. In questo universo in cui ciascuno è protetto e accudito, purché – implicitamente – abbia collaborato in modo leale, le immagini si caricano talvolta di un involontario tono depressivo. Come nel caso di un “anziano FIAT”, solo in mezzo agli altri, con in mano una busta di plastica contenente un pesce rosso vinto probabilmente in qualche baraccone del raduno che riunisce 5.000 suoi ex colleghi, come enfaticamente ci dice lo speaker. È un’immagine di bislacca solitudine che potrebbe venir fuori da un libro di Berengo Gardin.

 

Al di là delle valutazioni storiche e sociologiche sul “sistema FIAT”, quello che oggi ti resta addosso guardando questo film è un sentimento ambiguo. Da una parte, non si può non lamentare, al netto del paternalismo degli Agnelli, la perdita di un complesso di garanzie sociali che oggi, nell’epoca della deregulation liberista e del lavoro parcellizzato, sembrano fantascienza. Dall’altra, è inquietante il chiaro tentativo dell’azienda di impadronirsi di ogni momento della vita dei dipendenti con un abile ricatto sociale: nel momento in cui ti sfrutto, genero in te un complesso di colpa-riconoscenza non dissimile da quello che si prova nei confronti di genitori oppressivi. E dev’essere questo alla radice di ciò che successe in città nel gennaio 2003, alla morte di Gianni Agnelli.

 

La salma venne esposta alla Pinacoteca del Lingotto, e già questo era un fatto dai molti simbolismi: si trattava di una fabbrica FIAT dismessa trasformata in centro commerciale e insieme galleria d’arte, una mutazione piena di implicazioni. Quello che nessuno si aspettava fu l’enorme fila di persone, di normalissimi cittadini, tra cui molti ex-dipendenti, che sfidarono ore di freddo in piedi lungo la ex-pista di collaudo per portargli l’ultimo saluto. Tra questi tanti erano stati suoi “nemici”, gente che l’aveva combattuto dentro e fuori la fabbrica: più o meno consapevoli di stare celebrando, insieme a quello del loro avversario, il loro proprio funerale storico. (Tutto questo è raccontato in un bellissimo film di Gianfranco Barberi, Requiem, purtroppo irrintracciabile in rete). Tra quelle persone in fila, anche la mamma della mia amica. A cui non ebbi il coraggio di chiedere perché fosse andata; ma forse non ce n’era bisogno.

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