Una riflessione sull’ultimo film / Allen: il cliché è un atto politico

19 Dicembre 2019

Come in quel vecchio film con Jane Fonda e Rod Taylor – Una domenica a New York (1963) – la gita in città viene funestata dalla pioggia. E proprio come in quel vecchio film, sarà l’acquazzone a rendere la giornata speciale, permettendo alla città di prendere il sopravvento. Sarà solo grazie a un tale inconveniente che New York potrà, infatti, rivelare alla coppia di giovani studenti che a essa fiduciosi si rivolgono il suo lato nascosto, aprendogli le sue case, i suoi interni, oltre la facciata. 

Tante volte il nostro Woody ha raccontato New York, i suoi nevrotici e logorroici personaggi ma il modo in cui procede in questo film è molto diverso dal solito. Intanto, per un basilare problema di punto di vista: la New York di Un giorno di pioggia a New York, al contrario di quella di Manhattan e degli altri film ambientati nella grande mela da Allen, è raccontata da soggetti che la guardano e la desiderano dall’esterno. 

 

"Una domenica a New York”, 1963.


“Manhattan”, 1979.

 

“Un giorno di pioggia a New York”, 2019.


Si può, quindi, cominciare col notare come questo film possa essere possa essere più proficuamente inquadrato in continuità con l’ultima produzione del regista, interessata a passare in rassegna le grandi capitali occidentali dal punto di vista turistico, affrontandole a partire dal loro ruolo nell’immaginario, dal loro stereotipo, che è innanzitutto cinematografico, legato alla commedia romantica, alla vecchia Hollywood, a un certo modo di guardare il mondo, tanto indulgente e innamorato quanto, in fin dei conti, fuori dal tempo. Non è un caso che film come Vicky, Christina, Barcelona, Midnight in Paris, To Rome With Love, abbiano fatto arrabbiare molti critici e spettatori, indispettiti dal fatto che in essi vengano evocati gli stereotipi urbani più triti senza che venga fatto un qualsivoglia riferimento alle complessità di cui le città da essi rappresentate sono portatrici al giorno d’oggi. 

 

Così, evitando ogni riferimento al suo rocambolesco presente di capitale dell’indipendentismo, Barcellona, per Allen, rimane la Barcellona dei latin lover, con tanto di corredo di sordide storie di sesso fra corride e flamenco, Parigi resta inesorabilmente ancorata agli anni 30, senza che il suo racconto venga minimamente sfiorato dalle inquietudini contemporanee collegate al suo ruolo di capitale multietnica e multireligiosa, Roma continua imperterrita a offrirsi come l’eterna città pasticciona (e allo stesso tempo generosa e accomodante) della Dolce Vita a dispetto delle iper-contemporanee buche sull’asfalto delle sue strade che, oggi, avrebbero forse impedito a Gregory Peck e Audrey Hepburn di scorrazzare spensierati per la città durante le loro passeggiate in motoretta. È come se, rimanendo pervicacemente attaccato a queste rappresentazioni da cinema di altri tempi, Allen ne volesse ribadire la bontà di fronte a un mondo che va a scatafascio. Per Allen, lo sappiamo (Hannah e le sue sorelle) è il cinema che salva la vita. In queste pellicole, è proprio il cinema che candidamente mette gli abitanti delle città in essi dipinte di fronte all’immagine di se stessi, chiedendogli di non ripudiare il loro carattere, nonostante tutto. Ribadire lo stereotipo diventa allora un atto politico, da parte di un intellettuale conservatore che, non accontentandosi della vita reale, consapevolmente sceglie di rivolgere lo sguardo altrove; appare come la lucida determinazione di un sagace provocatore, che indica il cliché dell’immagine turistica di fronte all’invadenza del presente e delle sue brutture.  

 

 

Per la prima volta, mi pare, un tale trattamento viene riservato a New York, che, come si diceva in apertura, viene rappresentata come luogo da raggiungere, oggetto di un desiderio tutto immaginario, costruito da atmosfere, personaggi e situazioni finzionali. In particolare, nel film si incontrano e scontrano due punti di vista, uno da insider, Gatsby cittadino newyorkese in esilio in un college periferico per figli di papà, e uno da outsider, quello provinciale e naif della sua fidanzata Ashleigh, ricca ereditiera proveniente da una famiglia di banchieri dell’Arizona. Essi sono portatori di due immagini urbane diverse. Da una parte, c’è quella di Ashleigh che vede New York come orizzonte di realizzazione, come la proverbiale “City that doesn’t sleep”, luogo delle opportunità che la chiama a una vertiginosa corsa per cogliere le mille occasioni che essa generosamente le mette davanti. Questa New York, per l’arrivista rampolla dell’Arizona somiglia al suo stereotipo, “pulsa dei motivi di George Gershwin”, si rappresenta attraverso la sfacciataggine e la sbruffoneria dei suoi personaggi, così affascinanti per lei quanto prevedibili e patetici per il suo fidanzato (e, una volta tanto, anche per gli spettatori). 

 

C’è, poi, però, un’altra New York, anelata (e fortunosamente ritrovata, causa maltempo) da Gatsby. Egli, come il suo gemello letterario concepito da Francis Scott Fitzgerald, vive nel lusso ma passa attraverso gli sfarzi della mondanità senza davvero sentirsi parte di essi. La sua New York è, infatti, piccola. È un posto in cui tutti si conoscono, in cui è ancora possibile sentirsi parte di uno specialissimo circle of friends, accomunato dal privilegio di poter attraversare le strade di Manhattan individuando fra i passanti compagni di scuola e conoscenti, di poter, a dispetto degli strombazzamenti che attirano i provinciali di tutto il mondo, stare al bar senza che accada nulla di speciale, semplicemente guardando la pioggia scorrere sulle vetrine. Ed è, quindi, attraverso il suo personaggio che si compie un doppio movimento. Da una parte, si restituisce vita alla città, strappandone il racconto alla gentrificazione portata dei suoi mille anonimi e momentanei passanti. Per spiegare il carattere della sua città, Allen si incaponisce a dipingerla dal punto di vista di un newyorkese normale, il che significa dal punto di vista di uno che ci abbia vissuto davvero. Ecco perché, intorno a lui, fa progressivamente scaturire un mondo di affetti intimi, una rete di relazioni di vicinato, insomma una città reale. D’altra parte, secondo movimento, però, si appresta a questo obiettivo, ricoprendo tutto di malinconia, una malinconia che somiglia tanto al filo di voce con cui lo stesso Gatsby, a un certo punto, canta Everything happens to me, come l’avrebbe cantata Chet Baker, ovvero con il suo stesso mood intimista, il suo stesso fragile senso di inadeguatezza, lontano mille miglia dalle orchestre trionfanti dello swing alla Frank Sinatra. 

 

Ed è allora grazie a questo sguardo obliquo che il mito di New York incarnato dallo sguardo sbalordito di Ashleigh scompare, scompare Manhattan e la sua epopea per far spazio alla vita reale di chi (come Woody Allen stesso nella sua di vita reale) a Manhattan si ostina a viverci, utilizzandola giorno per giorno come luogo fisico in cui intessere rapporti umani fuori da ogni eroismo, come luogo a partire da cui apprestarsi a tutte le quotidiane banalità che in qualsiasi città si possono svolgere. 

 

 

È proprio questa rete sociale, della città, che manca a Gatsby, costretto com’è a vivere nel vuoto pneumatico del college di provincia, in cui tutto è rappresentazione, non-luogo, vuota parvenza di città. A lui è il tessuto della “sua” città, monossido di carbonio incluso, che manca molto. Ma, d’altra parte, egli non si sente all’altezza di essa. Non trova la forza di ribellarsi alla parte in commedia che gli è stata assegnata dalla famiglia, preferisce rifugiarsi nella posa romantica del gambler tormentato, pur di non mettersi alla prova come cittadino. A convincerlo a buttarsi sarà, come ci saremmo augurati, una donna. Un’altra newyorkese, la sorellina della sua ex fidanzata, ormai cresciuta e diventata una bellissima ragazza, destinata a riconoscersi come sua anima gemella. Solo lei riuscirà a rassicurarlo di come in una città speciale come New York ci possa essere posto anche per tipi come lui, invitandolo a mettersi in gioco senza per questo rinunciare alla sua sensibilità strapazzata. È lei a invitarlo a non abdicare allo sciatto realismo su cui si sarebbe volentieri adagiato, dato che “la vita reale è per chi non sa fare di meglio”. Ecco allora il senso della città tanto ricercato da Allen, reso accessibile grazie al cliché della commedia romantica d’antan: un luogo in cui si possa ancora vivere, un punto d’appoggio da cui si possano ancora immaginare storie minime, nonostante “New York”, il suo stereotipo e la sua invadenza. Una volta realizzato ciò, abbandonare Ashleigh si prospetta a Gatsby come l’unica possibilità per rimanere se stesso, sensibile e romantico giocatore d’azzardo, e, allo stesso tempo, ritrovare la sua città normale. 

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