Giorgio Boatti intervista Massimo Montanari

28 Marzo 2011

 “L'uomo è ciò che mangia”: l'affermazione del filosofo tedesco Ludwig Feuerbach conosce da quasi due secoli un grande successo. Massimo Montanari - professore medievalista all'università di Bologna ma, anche, il più autorevole storico dell'alimentazione del nostro Paese, autore di opere di solido spessore e di vasto successo, come La fame e l'abbondanza che, con la prefazione di Jacques Le Goff, è stata tradotta in tutta Europa - sottolinea però un fatto. La frase di Feuerbach è piaciuta così tanto da far scordare una cosa non irrilevante: “Mann ist, was er isst”, nella sua versione originale, contiene una doppia suggestione. In tedesco “ist”, con una sola s, vuol dire “è”. “Isst”, invece, con due esse, significa “mangia”. Questo se lo si legge. Nel parlato però, per la pronuncia pressoché identica di “ist” e di “isst”, “l'uomo è ciò che mangia” pare potersi trasformare. Scambiarsi. Diventa “L'uomo mangia ciò che è”. Ovvero, spiega un divertito Montanari - nella sua casa di Imola imbottita di libri - il Feurbach materialista, quello a cui attinge poi il Marx giovane, proclama la supremazia della concretezza come unica realtà. Però ci strizza l'occhio. Ci dice che quello che ci arriva sul piatto contiene non solo cibo ma le idee, i pensieri, la cultura dell'uomo.
Questo nesso complicato e affascinante è ormai da decenni al centro del lavoro di Montanari. Storico dell'alimentazione, ma pur sempre medievalista che ha mosso i primi passi alla scuola di un rigoroso Girolamo Arnaldi (“mi ha insegnato il corpo a corpo con i testi..”) ed è cresciuto poi accanto ad un maestro più inquieto e spiazzante, quel Vito Fumagalli, storico delle campagne, che affascinava i lettori con libri dalla scrittura cristallina e dai titoli accattivanti (Quando il cielo si oscura, Paesaggi della paura) ma, parlando di foreste e maiali, di alberi e contadini, sconcertava non poco un certo mondo accademico.

Un mondo accademico forse che apprezzava l'histoire totale nei testi di Febvre e Bloch ma non era abituato a praticarla e a farla crescere nei giardini di casa propria.

Sì. In buona misura era così. Perché negli orizzonti italiani di quegli anni far entrare sul palcoscenico dell'Alto Medioevo non solo, come peraltro ha fatto spesso Fumagalli, le Matilde di Canossa e i papi, gli abati e i guerrieri, ma anche i contadini senza nome, la vita delle foreste, addirittura i maiali e il cibo quotidiano, era qualcosa di anomalo e nuovo. Come allora era piuttosto inusuale la tesi - Per una storia dell'alimentazione contadina nell'Alto Medioevo - con cui mi sono laureato con lui. Fumagalli per me è stato non solo un amico, un maestro di analisi storica ma, anche, un esempio di scrittura. Lui pretendeva che ogni argomento approdasse alla pagina non tanto in modo semplice - termine che implica forse il rischio di una frettolosa semplificazione - ma chiaro, aderendo alla concretezza del reale. In questo la sua lezione si sovrapponeva a quella di mio padre Leopoldo, in un certo senso il mio primo maestro di scrittura. Più di scrittura che di lettura. Era insegnante, autore di testi di storia per le scuole medie, adottati per anni e anni. In casa respiravo l'aria di questo scrivere libri, a volte vi era coinvolta mia madre Lora, anche lei insegnante. Libri di storia, capaci di soffermarsi - in questo mio padre mi ha influenzato - su dettagli concreti della vita materiale. L'abitare. Il viaggiare. L'alimentarsi. Con l'ossessione di farsi capire dai ragazzi.

E invece il suo rapporto con la lettura...

Non ricordo mie particolari passioni infantili per qualche testo. Si, forse più l'incantamento per certi personaggi - ad esempio Gian Burrasca e quando l'ho scoperto la felicità di chiudermi nella mia stanza a leggere il Giornalino di Gian Burrasca, dimentico di tutto il resto. Ma francamente non ho mai avuto una specifica dedizione alla lettura della narrativa. E ancora oggi al primo posto metto la passione per la saggistica.

Poi, all'università di Bologna?

L'incontro con Fumagalli. Ma non dimentichiamo che collega di stanza del mio maestro era in quegli anni Carlo Ginzburg che lavorava a libri come I benandanti. O Il formaggio e i vermi dove la storia culturale e le vicende concrete della civiltà materiale dei più umili trovavano un originalissimo incrocio. Influenzando non poco il mio procedere.

Era anche la Bologna in cui insegnava Camporesi che allora stava lavorando a libri come “Il paese della fame” e “Pane selvaggio”...

Certo. Anche se non ho mai avuto un rapporto diretto con Camporesi che svolgeva, rispetto al tema del cibo, un approccio originale ma da storico della letteratura. Dunque diverso da quello di noi storici. Però sono stato molto colpito, e influenzato, dalla sua magistrale introduzione alla magnifica edizione einaudiana de La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi. In un certo senso quell'edizione del 1970 sdoganava temi, quali appunto quelli dell'alimentazione, sino ad allora poco considerati.

Mentre fuori d'Italia cresceva una diversa sensibilità?

Soprattutto da parte della storiografia francese dei Duby e dei Le Goff. Ho incontrato per la prima volta Jacques Le Goff ad un convegno a Spoleto e da lì è nata un'amicizia preziosa. Devo a lui l'idea che mi ha portato a realizzare per Laterza La fame e l'abbondanza e da allora il nostro dialogo è continuato.

Sull'alimentazione è come se a poco a poco si fosse saldata un'alleanza italo-francese dove vi è poco posto per gli storici anglosassoni, o mi sbaglio?

Sicuramente vi sono approcci diversi. Non a caso un significativo Master internazionale di storia dell'alimentazione è quello che si impernia su Bologna, Barcellona e Parigi. Qui un prezioso punto di riferimento per me è stato uno studioso del gusto come Jean-Louis Flandrin, dell'École des Hautes Études. Attorno alla storia dell'alimentazione non si sono ampliati solo i confini, abbattendo i recinti nazionali, ma si sono intrecciate anche le interdisciplinarietà tra storici, antropologi, studiosi della cultura di massa, sociologi. Questi influssi hanno mutato la prospettiva con cui mi rapporto al tema del cibo e dell'alimentazione che nel frattempo non sono più argomenti per pochi eletti. E questo lo vedo dalle reazioni dei lettori non solo ai miei libri ma anche ai miei interventi su giornali o canali tv, come il “Gambero Rosso”. Vi è una maggiore consapevolezza culturale che consente ad un pubblico ampio di accettare tesi un tempo difficili da sostenere. Ad esempio quella che avanzo nel saggio L'identità italiana in cucina: che non è mai esistito da noi un modello unitario, nazionale, di cucina. E non esistono in realtà neppure le cucine regionali quanto uno “stile culinario italiano” che procede per reti di città, fatto di passaggi, contaminazioni, frontiere.

Frontiere quali ad esempio?

La “frontiera della pecora”, ovvero dell'apprezzamento ed impiego degli ovini, che storicamente è tipica dell'Appennino e non si spinge oltre Bologna. Da lì passa anche il confine culinario interno tra Emilia e Romagna. Una suddivisione che nasce in epoca longobarda quando l'Emilia è occupata dai barbari e carnivori che vengono dal Nord mentre la Romagna, che viene battezzata così perché è la “Romania”, l'ultimo ridotto della nuova Roma che è Bisanzio e fa capo a Ravenna, è collocata sotto il confine della pecora.

Di conseguenza?

I tortellini emiliani hanno il ripieno di carne, trionfo del maiale, della civiltà della carne apportata dai longobardi, mentre in Romagna vigono i cappelletti, ripieni di formaggio, frutto della civiltà della pecora fornitrice di latte e formaggio ancora prima che di carne...

Però, stando alle classifiche dei bestseller, la cucina, quella che si fa spazio in trasmissioni tv di grande successo, si impone. È un buon segno?

Certo. Almeno rispetto a quando ho cominciato ad occuparmi di alimentazione e della sua storia. Però ho molte riserve sulle modalità con cui si realizza questo “sdoganamento”, visto che si veicola sulla popolarità delle star che attraverso la tv cavalcano l'argomento sapendone proprio poco. Penso inoltre che queste ricette in realtà transitino assai di rado dal libro di successo ai fornelli. A chi sta in cucina danno pochi spunti efficaci, di spessore.

Ma lei ha un libro di ricette preferito?

Sì, anche se non è un vero e proprio libro di ricette, dal momento che non ne compare neppure una. Però Oltre il fornello di Gualtiero Marchesi, pubblicato quasi vent'anni fa e riedito dalla Bur, è un aureo libretto sui fondamenti della nostra cucina. Marchesi, a differenza dei divi tv, non detta ricette più o meno vere di un piatto più o meno conosciuto. Spiega invece le tecniche di base per conservare tenera la carne, per rendere croccante il risotto, per non far perdere sapore alle verdure... Dopo di che ognuno faccia quel che vuole. La cucina è libertà.



Nota di Vittorio Emiliani all’intervista a Massimo Montanari
Nella bellissima intervista rilasciata a Giorgio Boatti dal prof. Massimo Montanari (che mi ha anche ricordato un indimenticabile amico, compagno di una legislatura alla Camera, lo storico Vito Fumagalli) c'è una piccola ma evidente contraddizione. Egli infatti afferma che la "frontiera della pecora" divide la Romagna bizantina dall'Emilia longobarda, e ciò è sostanzialmente vero, portando come esempio il ripieno dei cappelletti che in Romagna sono senza carne, “ripieni di formaggio”. Vero anche questo, ma non per tutta la Romagna. Lo stesso Pellegrino Artusi - che Montanari, nell'edizione introdotta magistralmente da Piero Camporesi, cita come momento di svolta nella storiografia dell'alimentazione - propone una ricetta in cui, oltre al formaggio, è previsto il petto di cappone o il maiale magro arrosto. E così, o addirittura con entrambe le carni, viene confezionato il “compenso” dei cappelletti nell'area forlivese (Artusi, com'è noto, era di Forlimpopoli). Insomma, ci troviamo di fronte alle Romagne piuttosto che ad una sola Romagna.
Un sincero saluto, Vittorio Emiliani

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