Il corpo dell’antropocene / Appunti di Neoecologia

12 Maggio 2020

Che la nostra azione abbia modificato l’ambiente è chiaro a tutti, ma la forma che gli abbiamo dato, influenza noi e i nostri corpi? Pare proprio di sì e non solo, determina anche i comportamenti. Ci sono studi che dimostrano che l’inquinamento dell’aria è strettamente correlato al crimine, tanto che si sono sviluppati modelli di previsione di omicidi e furti a partire dalla qualità dell’aria di una città.

 

Come ha cambiato l’Antropocene il nostro corpo è quello che si è chiesto Vybarr Cregan-Reid, docente di Environmental Humanities alla University of Kent at Canterbury, nel suo Il corpo dell’Antropocene, uscito per Codice Edizioni nel febbraio 2020. Le sequenze di DNA che programmano il nostro corpo sono simili a un testo teatrale, seguono un copione, ma il risultato dipende dal contesto ambientale in cui le istruzioni vengono eseguite. Per circa 2 milioni di anni il tipo di lavoro svolto dal nostro corpo è rimasto pressoché lo stesso, poi qualcosa è cambiato e Cregan-Reid propone quattro grandi punti di svolta da quando la nostra specie è comparsa.

Il primo e più importante, è il passaggio dallo stile di vita mobile a quello sedentario avvenuto con l’agricoltura circa 12.000 anni fa, lo chiama corpo versione 2.0.

Il secondo coincide con il trasferimento dalla campagna alla città, corpo cittadino, versione 2.1. 

Il terzo punto di svolta avviene con l’affermarsi del sistema industriale. Con il passaggio dal lavoro esclusivamente manuale a quello meccanico, nella prima metà del diciannovesimo secolo la varietà di movimenti compiuti diminuì in modo significativo. Il corpo industriale è la versione 3.0.

Quarto e, per ora, ultimo punto di svolta, la versione 4.0, ha nel palazzo di uffici il suo simbolo più evidente, è quello che Cregan-Reid chiama il corpo umano antropocenico. 

 

Il nostro corpo si è evoluto nel Pleistocene, tra 2 e 3 milioni di anni fa, e ha attraversato diverse fasi per diventare quello che è oggi. Il corpo dell’uomo dell’Antropocene è cambiato non come risultato dell’evoluzione, ma in risposta all’ambiente da noi stessi creato. Per la maggior parte della nostra storia siamo stati cacciatori-raccoglitori, per centinaia di millenni ci siamo specializzati in attività molteplici come riconoscere le piante commestibili da quelle velenose, abbiamo individuato e seguito animali selvatici, usato strategie di caccia, costruito e impiegato utensili vari e ripari, conciato la carne una volta catturata la preda, acceso e mantenuto il fuoco, cucito, protetto i piccoli, cucinato e molte altre cose. A un corpo, il nostro, evoluto e adattato per soddisfare quelle necessità in quell’ambiente, il vivere moderno si addice quanto saltare in un buco nel ghiaccio. L’ambiente urbano, che ci sembra normale a livello conscio, dal nostro corpo viene letto come un deserto privo di risorse, non lo riconosce e continua a desiderare di stare all’aperto e muoversi come ha sempre fatto.

 

Stare a sedere

 

Veniamo subito al nocciolo duro della questione: la sedentarietà. Nel mondo industrializzato la maggior parte del lavoro viene svolto in una precisa posizione: il corpo piegato in modo da formare due angoli retti, seduto su una sedia, leggermente ingobbito, con le spalle curve e i muscoli del collo tesi a sostenere il cranio, probabilmente esattamente la posizione in cui vi trovate ora. Nel cosiddetto tempo libero non va molto diversamente dopo l’invenzione di cinema, televisione, videogiochi e l’arrivo della rete. Oggi, mentre le nostre dita percorrono diversi chilometri al giorno tra schermi di smartphone e tastiere di computer, i piedi ne percorrono poco più di uno in un mese. Stiamo seduti circa 70/100 ore a settimana, questo vuol dire che in dieci anni, cinque li passiamo a sedere. Nessuno di noi può stare seduto per otto ore al giorno e poi sperare che una mezz’oretta di yoga o di jogging possano cancellare la costante rigidezza marmorea che ci imponiamo. 

 

Simbolo indiscusso del corpo umano antropocenico è la sedia. Si calcola che ci siano almeno sette sedie a testa, che fa 52,5 miliardi di sedie nel mondo. Eppure si tratta di un oggetto relativamente recente, probabilmente nato come modo per rialzare il capo del gruppo al di sopra degli altri che sedevano in terra, divenuto poi trono, attributo identificativo dei sovrani. Le sedie come le conosciamo cominciarono a diffondersi in Europa solo nei primi secoli dopo Cristo, non ci sono sedie nella Bibbia come mancano nell’Iliade e nell’Odissea, dove i proci sedevano su panche, dobbiamo aspettare più di un migliaio d’anni, quando Shakespeare nel Re Lear ne parla tre volte. Duecento anni più tardi, a metà Ottocento, l’epidemia di sedie è in pieno svolgimento: nel romanzo di Dickens Casa desolata, vengono menzionate 187 volte. Per molti secoli non ci siamo serviti di sedie, stare seduti è qualcosa che abbiamo dovuto imparare a fare e forse il contributo maggiore alla sedentarietà pressoché completa in cui ci troviamo oggi deriva da come è strutturata la nostra educazione. Nel diciannovesimo secolo si diffusero le “scuole diurne”, erano luoghi in cui i bambini seguivano le lezioni di giorno tornando poi a casa a dormire, è come se fossero state inventate non per educare, ma per insegnare a stare seduti, fermi e obbedienti. Nell’arco di una generazione le nuove abitudini si consolidarono. Grazie alla scuola, intorno ai sedici anni il corpo antropocenico ha imparato a stare fermo, col corpo e con la mente.

 

Forse dovremmo cominciare a pensare che stare seduti sia una malattia. La sitting disease, la “malattia dello stare seduti”, è un killer silenzioso. I tessuti molli si adattano, i flessori dell’anca si accorciano, ogni 2 ore che passiamo seduti si riduce il flusso sanguigno, si abbassa il livello di zucchero nel sangue e aumenta il rischio di sviluppare diabete, obesità, disturbi cardiaci, invecchiamento precoce. Un’altra delle conseguenze dello stare a sedere è il mal di schiena, aumentato a dismisura da quando il lavoro d’ufficio è diventato la norma. C’è una soluzione molto semplice a quanto detto sinora: camminare. È un gesto che ci collega immediatamente al nostro tempo profondo e oltre, fino ad arrivare alle specie che vivevano nelle praterie milioni di anni fa. Spostarsi a piedi e coprire distanze paragonabili a quelle percorse dai nostri antenati è il primo fattore chiave per prenderci cura del nostro corpo antropocenico. I primi esseri umani percorrevano tra 8 e 14 chilometri al giorno. Buona camminata.

 

Piedi

 

Ventisei ossa, trentatré articolazioni, ognuna con sei possibili movimenti diversi, venti muscoli, quattro strati di muscoli sovrapposti dell’arco plantare, una struttura sviluppatasi per essere un raccordo mobile, una leva rigida che dà la spinta, una base di sostegno come una molla, 200.000 recettori sottocutanei, lo stesso numero di recettori degli occhi. Si direbbe che, a livello di importanza per la sopravvivenza, piedi e occhi siano per lo meno sullo stesso piano, eppure ci siamo abituati a tenerli costantemente chiusi, potremmo dire che le scarpe sono per i piedi ciò che una benda è per gli occhi. Considerate nell’arco della nostra storia, le scarpe sono un’invenzione recente. Alcuni ritengono che già mezzo milione di anni fa i nostri antenati usassero pelli per avvolgere i piedi durante i periodi freddi, ma le prime calzature rigide comparvero circa 40.000 anni fa, ed erano simili a sandali e mocassini. I sandali più antichi di cui abbiamo notizia risalgono a 10.000 anni fa e sono suole sottili legate alla caviglia con una corda, a 5.500 anni fa risale una calzatura simile ai mocassini. Il piede calzato non è sottoposto allo stesso livello di stress del piede nudo e, di conseguenza, il piede antropocenico si assottiglia. I problemi ai piedi derivano dal fatto che si sono evoluti per stare nudi. Scarpe minimali sono state usate per migliaia di anni, ma alcune scarpe moderne possono interferire con le funzioni naturali dei piedi. Certo oggi risulta strano pensare di camminare a piedi nudi, eppure i cuscinetti della pianta del piede sono appositamente progettati per conformarsi alle superfici più dure. La pelle coriacea che si sviluppa in quella zona è una risposta adattativa capace di migliorare l’attrito e la pressione, lo strato più spesso di cheratina serve a proteggere gli strati sottostanti ed è morto e il fatto che la cheratina sia la stessa sostanza che forma i peli e le corna rappresenta un ulteriore collegamento con gli arti di un antenato comune più antico. Camminare su un terreno roccioso e frastagliato in pratica ci permetterebbe di sviluppare gli zoccoli di una capra delle nevi. 

 

Glutei

 

Secondo Cregan-Reid in una classifica che tiene conto dell’importanza ai fini della sopravvivenza, ai muscoli delle natiche spettano i primi posti e la sensibilità e la capacità tecnologica dei piedi li seguirebbero di poco. Gran parte della forza propulsiva della corsa deriva dai glutei, sono questi grossi muscoli a svolgere il vero lavoro, senza, cadremmo in avanti a quattro zampe. Sentendo queste motivazioni viene in mente da una parte, l’idea di Desmond Morris secondo cui il seno femminile si sia sviluppato per assomigliare il più possibile ai glutei e dall’altra la considerazione popolare, che li mette in relazione alla fortuna.  

 

Ossa e denti

 

I resti fossili dimostrano che nel Paleolitico il corpo lavorava duramente. Confrontando la densità delle ossa delle specie che si dedicavano alla caccia e alla raccolta con quelle che si dedicavano all’agricoltura, si è scoperto che è bruscamente diminuita da quando abbiamo cominciato a coltivare e ha continuato a farlo, i primi agricoltori avevano comunque ossa molto più forti di quelle dei moderni atleti olimpici perché con lo stile di vita antropocenico sono diventate sempre più sottili e porose. Il corpo antropocenico ha in quel passaggio il proprio vero inizio, quando iniziammo a coltivare i nostri corpi si restrinsero, l’altezza diminuì di una media di 15 cm e la nuova dieta a base di carboidrati ebbe un forte impatto anche sulla salute dei denti, sulla loro disposizione, il numero complessivo e la composizione dei batteri presenti nella bocca, che si sono trovati benissimo con la nuova dieta proliferando a danno dei nostri denti. Prima dell’inizio dell’agricoltura non accade spesso di osservare denti ammassati, storti o con carie, la cui frequenza precedente andava dall’uno al 4%. Si può dire che i problemi dentali comparvero insieme alla sedentarietà. 

 

 

Esercizio fisico

 

 “Storicamente la misura in cui una comunità viene incoraggiata a esercitarsi è indice dei livelli di disuguaglianza tra la gente che lavora. La nascita e la stessa esistenza dell’esercizio fisico costituiscono un barometro culturale su cui si legge che qualcosa è andato storto nell’ecologia del lavoro. (…) Con l’ampliarsi delle conurbazioni aumentarono i trasporti, il lavoro sedentario e quel simbolo onnipresente del malessere urbano: l’esercizio fisico.” Alla luce di queste considerazioni di Cregan-Reid andrebbe letto il fatto che il lavoro è cambiato così tanto che per rendere la vita più sana dobbiamo aggiungere alla routine il gioco o il lavoro extra sotto forma di esercizio fisico. Per i cacciatori-raccoglitori lavoro e gioco erano praticamente indistinguibili e l’esercizio fisico era un’idea inconcepibile perché inutile. L’esercizio comparve soltanto nelle società in cui c’era una profonda differenza nel carico di lavoro. Il caso più vicino a noi è l’antica Grecia, dove quelli che potevano permettersi di non lavorare inventarono un luogo nuovo, chiamato ginnasio (dal greco gymnós, “nudo”), uno spazio aperto in cui gli uomini potevano spogliarsi e sfidarsi in competizioni organizzate. Oggi l’incitazione a fare più esercizio è un segno del fatto che siamo fuori registro con la nostra vita, se i nostri impegni sono tali da impedirci di fare mezz’ora di attività fisica al giorno, vuol dire che c’è davvero qualcosa che non va nelle nostre priorità. 

 

Vista

 

La miopia cronica è sempre stata rara fino al diciannovesimo secolo, ma nel ventunesimo si esprime in numeri simili a quelli di un’epidemia. Tra i cacciatori-raccoglitori e nelle popolazioni che praticano agricoltura di sussistenza il tasso di miopia è inferiore al 3%. Alla fine del diciannovesimo secolo portare gli occhiali era un segno distintivo dei ricchi, simbolo di privilegi e di un’educazione superiore che portava a leggere, mentre all’estremità opposta della scala sociale c’erano i figli della classe lavoratrice stipati nelle scuole verso la fine del secolo, per i quali la miopia, proprio come la statura ridotta, divenne un segno di povertà. Cosa avevano in comune i poveri e i lettori benestanti? L’idea più diffusa, che è tutt’ora quella più popolare, era che la miopia dipendesse dal “lavoro a distanza molto ravvicinata”. Ma si è scoperto che il motivo era che entrambi i gruppi trascorrevano troppo tempo in ambienti chiusi, proprio come facciamo noi quotidianamente e questo, fra le altre cose, impedisce di ricevere la luce del sole. È qui il nocciolo, l’esposizione alla luce solare, un’altra delle cose che caratterizza il corpo antropocenico abituato a stare negli interni. Stare al chiuso inibisce il rilascio della dopamina, un neurotrasmettitore essenziale per lo sviluppo degli occhi che viene attivato dall’esposizione alla luce solare. Secondo Cregan-Reid è probabile che l’esposizione alla luce solare possa diventare una delle più importanti medicine preventive per i bambini, che dovrebbero essere esposti alla luce solare almeno 3 ore al giorno perché i loro occhi si sviluppino in modo sano. 

 

Cibo

 

Muoversi, stare all’aperto e mangiare sano. Queste sembrano essere alcune indicazioni per mantenere in buona salute il corpo antropocenico, ma c’è un problema. Mangiare sano non è così semplice nell’Antropocene. Negli anni settanta del Novecento le multinazionali si sono appropriate del giro d’affari della produzione alimentare e oggi nella maggioranza del mondo industrializzato il cibo è industriale quanto tutte le cose che usiamo. Il risultato è una sovrabbondanza di cibi economici e zeppi di calorie. I cibi sono sempre più modificati e lavorati per aumentarne la desiderabilità, la comodità e la conservabilità. I primi esseri umani probabilmente consumavano più o meno l’equivalente di dieci cucchiai di zucchero in un anno, oggi è possibile che la stessa quantità venga assunta in un giorno. Ma il vero problema sta da un’altra parte: da decenni i ricercatori si sono accorti che il nostro cibo sta diventando meno nutriente, un filone di pane del diciottesimo secolo era molto più ricco di sostanze nutritive rispetto a un qualunque filone di pane odierno. L’abbondanza di anidride carbonica riduce in modo sistematico la qualità delle piante dal punto di vista nutritivo, le attività umane tipiche dell’Antropocene alterano il ciclo non soltanto del carbonio, ma anche dell’azoto, del fosforo e dello zolfo, elementi fondamentali per tutte le forme di vita. In sostanza abbiamo piante coltivate e selvatiche che crescono di più, ma contengono meno elementi nutritivi, si sono ridotte le concentrazioni di proteine e minerali per lasciare spazio a zuccheri e amidi ed è un effetto che sta aumentando di anno in anno. Cregan-Reid fa l’esempio della “carota antropocenica”: i suoi cromosomi rimangono invariati, ma il modo in cui il DNA della carota agisce in questo nuovo ambiente ha cambiato la sua struttura, esattamente la stessa stessa cosa che accade ai nostri corpi. Per la carne non va meglio, gli animali allevati industrialmente con una dieta a base di mais hanno una carne fino a dieci volte più ricca di grassi saturi rispetto a quelli nutriti al pascolo. L’ambiente in cui cresce il nostro cibo ha un ruolo rilevante nell’aumento di molte patologie, a partire dall’obesità. 

 

Qualche anno prima dell’uscita del libro di Cregan-Reid, pubblicato in Inghilterra nel 2018, era comparso La storia del corpo umano, di Daniel Lieberman, uscito nel 2013 e portato in Italia sempre da Codice edizioni l’anno successivo. Lieberman è un paleoantropologo e insegna scienze biologiche all'Università di Harvard. Contenuti e senso dei due libri sono sostanzialmente simili, forse Lieberman ha un atteggiamento più accademico e fornisce maggiori dettagli e informazioni, la differenza la fa l’irruzione nell’immaginario collettivo dell’idea di Antropocene che nel 2013 era evidentemente ancora limitata. Lieberman non ne fa cenno mentre Cregan-Reid lo mette al centro della sua analisi, confermando che l’Antropocene, al di là delle sue varie interpretazioni e significati, è sostanzialmente un metodo di lettura del presente, e un metodo molto efficace. 

 

Lieberman parte dalla domanda: a cosa si sono adattati gli esseri umani? Ogni adattamento ha un costo, ogni volta che facciamo qualcosa, c’è qualcos’altro che non possiamo fare. I vari adattamenti del nostro corpo sono stati selezionati per aiutare i nostri antenati a sopravvivere e riprodursi in un numero immenso di incarnazioni diverse, non solo come cacciatori-raccoglitori, ma prima come pesci, scimmie, scimmie antropomorfe, australopitechi e più recentemente come agricoltori. Gli adattamenti spiegano il modo in cui il nostro corpo funziona, considerare la sua lunga storia evolutiva ci permette di capire perché ci ammaliamo quando i nostri comportamenti seguono modi per cui non ci siamo adattati abbastanza, tenendo presente che la selezione naturale non ha agito per farci godere di buona salute, ma per farci avere il maggior numero di discendenti. Uno dei comportamenti che più abbiamo modificato è il dormire. Quando eravamo cacciatori-raccoglitori in media ci svegliavamo all’alba, tra le 6.30 e le 7.00, dormivamo un’oretta o due a metà giornata e tornavamo a dormire verso le 21.00. Il tipo di sonno e l’ambiente in cui si dormiva era molto differente dalle stanze prive di stimoli a cui siamo abituati, per millenni il nostro sonno è stato accompagnato da suoni vari, dal crepitio del fuoco ai rumori degli altri del gruppo e degli animali in lontananza, che dal punto di vista evolutivo sono normali e rassicurano le parti inconsce del cervello. Oggi per la prima volta e in particolare dall’inizio del Novecento con l’arrivo dell’energia elettrica, veniamo stimolati a restare svegli ben oltre l’orario in cui sarebbe normale per il nostro corpo andare a riposare e gli ambienti privi di stimoli in cui ci siamo abituati a dormire sono molto strani dal punto di vista del nostro corpo. 

 

Entrambi gli autori si preoccupano di insistere sul fatto che la nostra biologia non è preparata a una vita in ambienti densamente popolati, non siamo abbastanza adattati al fatto di essere troppo pigri, troppo nutriti, troppo comodi, troppo puliti. Nonostante i progressi nella medicina e nell’igiene, troppi si ammalano di malattie un tempo rare o sconosciute, spesso disabilità croniche non infettive, prodotte dal nostro stesso stile di vita. “Tutto deve muoversi” è un principio che sta alla base del benessere del nostro corpo. Il cervello è lì perché ci muoviamo, tutto il corpo è congegnato per favorire il movimento in tutti i modi possibili. Per milioni di anni ci siamo mossi nelle foreste e nelle pianure, per migliaia di anni abbiamo camminato e coltivato la terra. Oggi il lavoro d’ufficio sta generando patologie e morbilità con una velocità mai vista prima e che non era possibile neppure immaginare. Così oggi usiamo i piedi forse meno di quanto abbiamo mai fatto nella storia della nostra specie e come se non bastasse, diamo pure loro supporto in quelle poche occasioni in cui li usiamo. Gran parte di ciò che accade al corpo umano antropocenico dipende dalla perdita di una certa gamma di movimenti. Ormai è chiaro che quando eravamo cacciatori-raccoglitori eravamo molto più robusti e in forma della stragrande maggioranza degli esseri umani antropocenici. Siamo in pieno mismatch evolutivo, nel tempo la selezione naturale adatta il corpo alle condizioni dell’ambiente (matching), quando l’ambiente cambia, il corpo deve adattarsi o avrà dei problemi, ma lo fa molto molto lentamente. Abbiamo un corpo paleolitico in un mondo antropocenico. 

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