Conversazione con Regina José Galindo / Resistere dal corpo

10 Novembre 2019

Orme di sangue aprono ferite e risvegliano memorie, drammatiche tracce rosse sui toni grigi di strade e marciapiedi. La mattina del 23 luglio 2003, Regina José Galindo, vestita con un abito da sera nero, mette in scena ¿Quién puede borrar las huellas? (Chi può cancellare le impronte?), una performance dove attraversa a piedi nudi Ciudad de Guatemala, fermandosi di tanto in tanto per immergerli in un catino bianco che contiene sangue umano e lasciare orme insanguinate, come atto di denuncia contro la ricandidatura appena validata del generale Efraín Ríos Montt, ex dittatore sanguinario ed esponente del Fronte Repubblicano Guatemalteco, alla presidenza del Guatemala. Dalla Corte Costituzionale del Palazzo Nazionale avanza tra le persone con lo sguardo chino, fisso sulla bacinella. Le impronte sono da leggere come tracce ancora fresche di un dramma avvenuto durante la repressione degli anni Ottanta, per dare di nuovo memoria e voce ai fantasmi delle vittime della guerra civile. L’artista intende la sua performance come un atto di psicomagia, un’azione in grado di scuotere l'immobilità patologica che ci tiene prigionieri. Ritorna nei luoghi che hanno visto il dramma della storia e, attraverso il suo corpo, “ripete” azioni, come fossero rituali in grado di coniugare lo spazio del proprio corpo con quello del tempo sociale, entro una sorta di teatro della ripetizione, dove però la replica non coincide mai con il ritorno del medesimo atto, ma rende il passato come un qualcosa che può ancora realizzarsi con un altro esito.

 

Regina José Galindo (1974) è conosciuta dal pubblico italiano per avere vinto il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 2005 con l’opera Himenoplastia, una performance sul tema della verginità come imposizione istituzionale, presentando in video un intervento di ricostruzione del proprio imene. L’artista opera con gestualità aggressiva sui propri limiti fisici e psicologici: utilizza il proprio corpo per denunciare la violenza contro le donne, dove la nuda vita viene messa in campo come fosse il teatro di un conflitto permanente. 

L’opera di Galindo non è meramente politica, non è finalizzata alla sola presentazione di un discorso in generale, non è una operazione di denuncia, ma non è nemmeno solo qualcosa dal carattere poetico, e neanche atto che sottolinea la sofferenza e la forte carica emotiva, nemmeno solo simbolo della resistenza personale e ritratto collettivo di una società civile priva di tutele e di certezze. I suoi interventi artistici non servono solo a denunciare ciò che l’istituzione politica mantiene ancora celato, nemmeno solo a porsi come dichiarazioni di giustizia indipendenti dall’autorità dello stato. Le performance psicomagiche attingono alla tradizione delle pratiche sciamaniche di guarigione e ai rituali religiosi; accedono al potere evocativo delle forze sacrali rimaste in sospensione nel tempo storico e nel non tempo universale; trasformano il luogo geografico in uno spazio performativo, dove affiorano fantasmi, spiriti della terra, presenze invisibili, e dove viene data voce all’ indicibile. 

 

 


Quando il corpo nudo di Galindo sta ritto e immobile nella performance Tierra (2013), in verticale come un’antenna atta a captare le forze ctonie della terra e le energie del cielo, mentre una scavatrice scava tutto attorno alla sua porzione di terreno, l’atto rende visibile il potere della resistenza umana. Ma al contempo viene reso visibile che, in uno stato di soprusi, la terra non ha più l’aura della terra-madre, ma è stata trasformata in terra-tomba, teatro delle decomposizioni. Galindo si è chiesta: “Come uccidevano le persone durante gli anni di guerra civile?”. Con la performance risponde alla sua maniera, diretta e indiretta al contempo, ricostruendo come un macchinario scavava la fossa e come un camion portava lì i prigionieri, i quali venivano prima infilzati con una baionetta o fucilati e poi gettati nella fossa. 

E successivamente le questioni e le problematiche legate alla terra hanno preso altre derive e ulteriori declinazioni. L’era del globalismo si era presentata con i suoi slogan di smantellamento di barriere politiche ed economiche. Mentre il crollo dell’autorità feudale era stato pagato con l’espropriazione di terre e commons ai contadini, creando una massa di lavoratori “liberi” di lavorare in cambio di uno stipendio, la globalizzazione ha creato nuove recinzioni contro la conquista proletaria di maggior potere.

Guerre, carestie, pestilenze e svalutazioni monetarie ogni giorno sradicano milioni di persone dalle loro terre, dai loro lavori, dalle loro case; ricercare una giustizia contro tutto questo necessita una visione politica e anche azioni coraggiose contro il potere.

 

Il lavoro di Galindo è una forma di atto di resistenza e di reazione a crimini, che spesso inducono a un mutismo irrazionale, nello spazio metaforico dell’arte. La sua opera ha spesso come protagonista il corpo minuto dell’artista, teatro di un conflitto permanente, che esemplifica i drammi generati dal capitalismo e da tutte le relazioni di potere che affliggono la società contemporanea. La disobbedienza civile, la protesta femminista e antimperialista nella sua opera si traducono in immagini universali di rottura e di antagonismo concreto, controbilanciando una certa feticizzazione che il capitale ha fatto storicamente di atti di resistenza, anche alla luce della ricostruzione anticomunista dell’Europa.

Galindo ricerca la poetica della violenza con un’arte che è politica, perché in linea con la coscienza politica dell’artista e in cui l’uso della performance determina per l’artista un coinvolgimento totale, in una metafora costante della interconnessione tra arte, vita e morte. Scava nelle rovine della storia, per mettere in luce il dimenticato e indagare in maniera universale le implicazioni etiche dell’ingiustizia sociale, delle discriminazioni di sesso e razza e degli altri abusi causati dalle relazioni inique, dominate dal potere nella società di oggi. A che tipo di immagini danno spazio i nostri occhi? In che modo ospitiamo in essi fotografie, video e performance di soprusi? Ci sono idee e storie che lottano per trovare un proprio spazio di ascolto contro forme di conferma di un piano civilizzatore. Un piano che ha due facce, una delle quali è quasi sempre in ombra. Abbiamo incontrato, in occasione della sua conferenza al MACRO, l’artista guatemalteca per porle alcune domande lasciate aperte nelle sue opere:

 

 

 

Ci potrebbe parlare delle sue azioni e performance più recenti?

 

I miei ultimi lavori affrontano il tema della migrazione. Ho realizzato un progetto molto aspro con le famiglie di minori morti mentre erano rinchiusi nelle carceri di immigrati esistenti negli Stati Uniti, dove si trovavano dopo essere stati separati dalle loro famiglie attraversando illegalmente gli Stati Uniti.  Realizzerò un altro progetto, ancora sul tema della migrazione, a dicembre, a Roma e Madrid.  Mi sembra che sia una questione che tocchi tutti i paesi, tutti i continenti.

 

Quali sono le difficoltà più fastidiose che incontra ogni volta che denuncia con il suo lavoro problematiche sociali, violenze fisiche o violazioni dei diritti umani?

Il disagio prodotto dalla comprensione che il mio lavoro non è altro che un piccolo granello di sabbia nella lotta di un immenso mare di problemi e situazioni avverse. Anche se sei consapevole della portata e dei limiti dei processi dell'arte, è sempre un po' deludente non essere in grado di fare di più. Ma per fare ciò avremmo dovuto scegliere una professione differente.

 

Il suo corpo è inteso anche come strumento di metafora nella sua opera e la chiave di lettura di un lavoro intersezionale in cui femminismo, antirazzismo e politica si intersecano e contaminano? Come mantiene la tensione emotiva nei suoi lavori (penso a Nadie atraviesa la region sin ensuciarse)?

Il mio lavoro è direttamente collegato al mio contesto, alla mia storia, al mio luogo di origine. Il mio corpo, che è il mio materiale di lavoro in molte delle mie opere, risponde a quel contesto. Il mio corpo è quindi il contenitore di tale molteplicità: sono una donna, latino-americana, guatemalteca.  

Ho sempre creduto che l'empatia generi tensione. Se un'opera riesce a risvegliare l'empatia nel pubblico, il pubblico ha verso di essa un atteggiamento che va oltre la contemplazione passiva. Compenetrando, comprendendo o cercando di farlo, sperimentando, provando, sentendo – anche se questo sentimento è puro disagio – si genera tensione. E la tensione ci fa sentire vivi, attivi e svegli.

 

 

La libertà era considerata dai pensatori illuminati come il più alto e universale valore politico. Tale metafora, “man’s natural state and inalienable right”, ha messo radici proprio al tempo della pratica economica della schiavitù, ossia la schiavizzazione dei non-europei come forza lavoro nelle colonie. Mi vengono in mente i temi provocatori presenti nel film Il fantasma della libertà, di Buñuel. Qual è la definizione di libertà in Guatemala? Qual è la sua definizione di libertà?

In una realtà perversa come quella in cui viviamo oggi, in cui il mondo e l'umanità vivono secondo un sistema economico, tutto, compresa la libertà, è permeato dal denaro. È difficile parlare di libertà in un paese colonizzato, sfruttato, saccheggiato, annullato.  Un paese pieno di risorse e di bisogni, in cui tutte le risorse sono riservate per l’esterno. La libertà della grande maggioranza è definita dalla fame. Nessuno può pensare alla libertà mentre la pancia brontola. Per me la libertà è la possibilità di vivere una vita dignitosa e piena di opportunità. Nel mio paese pochissime persone hanno opportunità. La stragrande maggioranza sopravvive soltanto.

 

Molte sue opere sono o evocano visioni di tortura e di umiliazione (penso a Perra, 2005, a Waterboarding, 2007, a Estrias, 2009, a Hermana, 2010). Assumendo il ruolo della vittima, in talune sue opere ricrea un campo di visione non dissimile da quello di torture esemplari, subite nei secoli scorsi da eretici e streghe. Che cosa cela in sé il dolore? Cosa ha mosso nella sua vita e nella ricerca artistica?

Non mi interessa il dolore come meccanismo di ricerca.  In alcuni progetti, il dolore ha dovuto essere parte del processo, perché tale processo in qualche lavoro ha portato a qualcosa. Era necessario sentire dolore mentre facevo l'imenoplastica o la cagna, era inevitabile. Ma il dolore non era la cosa importante. L'importante era parlare di ciò di cui si doveva parlare. Di corpi di donne che nella vita sono stati torturati, violati, uccisi, e mostrare alcuni dei metodi utilizzati dagli autori di tali atti. Tanto meno mi considero una vittima. Mi sembra che questa sia la prima lettura del mio lavoro, quella che si ferma alla apparenza delle cose.  Io faccio il lavoro sporco, cioè sono oggetto e soggetto delle mie idee.  Nel caso di opere come Confesión, non mi metto nella posizione di vittima. Io in realtà svolgo il ruolo di "autore intellettuale". Ho l'idea, assumo l'oppressore, do l'ordine di azione, pago.  Ma nell'arte succede come nella vita, è difficile per noi vedere un pochino più in là.  Non vediamo e parliamo quasi mai dell'autore intellettuale, che ha davvero il potere. 

 

 

A proposito del controllo delle nascite come forma di controllo alla povertà, in un’ottica razzista e quindi concentrata in particolare nell’impedimento di nuove nascite in paesi sottosviluppati, penso a Rita Segato quando scrive che nella lunga storia patriarcale di uguali (alleati o competitori) e disuguali (dominatori e dominati), le relazioni di genere sono la cellula elementare di tutta la violenza. Lei è d’accordo?

In Guatemala è avvenuto un genocidio. E tra le grandi atrocità che l'esercito ha commesso c'è stata quella di abusare sessualmente di migliaia di donne maya.  L'esercito raggiungeva le comunità indigene, separava le donne dagli uomini, separava le donne incinte dalle altre e procedeva a farle violentare da gruppi composti tra dieci e venti soldati. Volevano farle abortire, ma volevano anche impedire loro di essere in grado di generare nuova vita in futuro.  Per questo le hanno violentate: per generare in loro grandi infezioni che non potevano curare in seguito. Il patriarcato non ha funzionato come sistema di vita.  E la violenza e il potere sono alla base del patriarcato.

 

La ricchezza accumulata attraverso la schiavitù ha determinato diversi tipi di contro-risposta morale. Franz Hals in Family Group in a Landscape (1645-48), conservato al Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, rappresenta una famiglia olandese in “stile picnic”, all’aria aperta, insieme a un ragazzino di colore, un soggetto pittorico raro nella Haarlem del tempo di Franz Hals. Nel passato, nell’arte occidentale, personaggi di colore sono sempre stati considerati figure di contorno. Immagino che sia stato molto difficile fare emergere la sua opera e dare a essa visibilità, anche in questi anni. Quale è stata la matrice della sua forza e della sua azione volitiva?

È difficile essere un'artista guatemalteca? Certo. C’è un maggior grado di difficoltà a partire dalle periferie. Immaginate di arrivare da un posto dove non c'è posta, per non parlare dei sedici morti al giorno o delle ventidue donne stuprate al giorno. Ma ciò che non ti uccide ti rende forte. E quel che serve è disciplina.  

Il fatto di avere una galleria in Italia che mi ha sostenuto fin dall'inizio, naturalmente, è stato fondamentale.

 

 

La povertà, causata dalle politiche del debito, radicate in espropriazioni del diritto della terra (come quelle avvenute a opera dell’esercito guatemalteco sin dagli anni ’70 ai danni soprattutto di contadini e indigeni) o in politiche di guerra che hanno reso certi territori inaccessibili, è la principale causa di flussi migratori verso paesi “avanzati”. Potrebbe parlarci dell’elemento della terra nel suo lavoro (penso a Piedra, 2013 o a Tierra, 2013)?

Tutte le guerre sono realizzate per ragioni economiche. La terra è uno dei valori più grandi. Quindi le guerre e la terra sono intimamente legate. La terribile guerra che è avvenuta in Guatemala è stata realizzata per le stesse cause. Con l'argomento di una guerra contro il comunismo, gli Stati Uniti sono intervenuti dando il via libera all'assassinio dello stato guatemalteco, affinché attraverso l'esercito potessero fare ciò che volevano. Il risultato è stato che migliaia e migliaia di indigeni sono stati assassinati, espulsi dalle loro terre. Terre che poi sono state convertita in un primo momento in fattorie, e più tardi sono state utilizzate per estrarre minerali, produrre energia idroelettrica o costruire campi di palma e simili. Per le comunità Maya, la terra è vita.  È dove lasciamo sepolto l'ombelico. È l'origine e la vita. Io non sono maya, sono meticcia, ma sento anche un immenso attaccamento alla terra su cui cammino.

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