Se n'è andato quasi senza salutare / Glenn Branca

18 Maggio 2018

Quando i Velvet Underground pubblicano White Light White Heat, nel gennaio del 1968, Glenn Branca ha diciannove anni (ne compirà venti il 6 ottobre). Abita a Boston. È particolarmente interessato al teatro. Anzi, lo pratica proprio. Tanto che ha fondato una compagnia, The Bastard Theater, con il quale tenta di mettere in scena dei “music-drama”. Sono lavori davvero sperimentali, sorta di performances in cui la musica ha un ruolo determinante. All'epoca, Branca non ha nessuna intenzione di intraprendere la carriera di musicista. Certo, come molti teenagers ha strimpellato una chitarra. Di certo è un collezionista di vinili. Così, magari ricorda quel momento che spezza esattamente in due I Heard Her Call My Name: sono due secondi, forse i più importanti nella storia del rock.

 

 

Siamo al minuto due e 13 secondi. Dopo che Lou Reed ha finito di sputare la frase “And Then My Mind Split Open” c'è un micro istante di vuoto, seguito da un violento attacco di chitarra in feedback: uno squittìo acuto, verticale, pieno. Selvaggio. Ciò che segue è uno degli assoli più dissoluti, dissonanti, della storia della musica rock. Come se Coltrane avesse lasciato il sax per una Gretsch collegata ad un amplificatore Vox. Ma non è tanto l'assolo, quanto il suono a risultare inaudito. I livelli sono tutti sul rosso. Ecco, mi piace pensare che quel disco facesse parte della sua collezione; e che, in maniera latente, quel suono potente, quei due secondi siano rimasti a ronzare da qualche parte, dentro la sua testa. Latente, perché in quel periodo i suoi interessi restano principalmente legati al teatro. C'è il Bastard Theater, fondato con John Rehberger e poi il Dubious Music Ensemble, con cui lavora ad alcune pièces. Eppure, sembra quasi che il teatro sia in fondo una specie di “copertura”. Insomma, qualcosa da mettere in bella vista, su cui lavorare, ma per lasciarsi distrarre da ciò che probabilmente lo ossessiona sul serio: la musica.

 

 

Questa specie di copertura cade quando si trasferisce a New York nei primi anni '70. Lavora ancora a drammi musicali, cerca di fondare una nuova compagnia teatrale. Vive nella zona di Lower Manhattan. A quell'epoca non è infestata da turisti e la gentrificazione è ancora di là a venire. Soho non è forse un quartiere malandato come la Bowery o il Lower East Side, che pullulano per lo più di alcolizzati, delinquenti comuni, tossici. Se volete avere un'idea di quelle zone di New York verso la metà degli anni settanta potete vedere il magnifico film che Chantal Akerman vi ha girato all'epoca, News From Home. Una parte riprende queste zone fatiscenti. Faute de mieux, potete cercare i film di Scott e Beth B., le prime cose di Jarmusch (Permanent Vacation). O di Nick Zedd.

 

Il Lower East Side è una zona abbandonata. È lì che si coagula un vero gruppo di artisti, musicisti, cineasti. Nel libro di Marc Masters, No Wave, avete una testimonianza diretta della vita in quella zona: Lydia Lunch ricorda i palazzi abbandonati, incendiati, la mancanza di illuminazione e di qualsiasi negozio. Mark Cunningham, chitarrista dei Mars, ricorda la risibile cifra degli affitti. Rys Chatham, un altro illustre compositore per chitarre (collaborerà con Branca), ricorda che per 125 dollari poteva disporre di un loft di 110 metri quadrati. Circola un grande senso di libertà. Vivere non costa nulla. Ed è qui che, mentre dipinge il suo loft di nero, Glenn Branca crolla. Durante le prove di una pièce intitolata “Instrumental for Six Guitars” si ritrova improvvisamente in lacrime per l'emozione, tanto da dover interrompere la prova. Comprende di aver castrato se stesso per così tanti anni. «Aspettavo quel momento – ricorda. E non potevo più fermarmi, far finta di nulla. Dovevo dar retta a ciò che provavo. Era questo ciò che davvero volevo». Le pareti sono lì. Nere. È un attimo ma Glenn Branca la decisione l'ha già presa. Metterà in piedi una rock band. Impossibile non seguire quell'impulso. Il punk rock è lì lì per arrivare. E il Lower East Side è il posto perfetto dove trovarsi. Tutto è interconnesso. Artisti, musicisti, filmmakers: lo scambio è continuo. Il sentire comune. Come ricorda egli stesso: «Volevo fare arte, ed era così cool farla in un club rock. Non potete nemmeno immaginare quanto fosse eccitante per quella gente. C'erano tutti questi artisti visivi che erano cresciuti ascoltando rock, giunti a New York per fare arte, pittura, scultura. E gli è capitato di ascoltare queste band con la loro identica sensibilità, e l'unica cosa che hanno pensato è immaginarsi su quel palco, mentre suonano quella fottuta musica». 

 

 

Nel 1976 Glenn Branca fonda i Theoretical Girls insieme a Jeffrey Lohn e a Warton Thiers. Il nome lo propone Jeff Wall. I Theoretical Girls segnano il terreno che verrà battuto da innumerevoli altre formazioni. Fanno musica spigolosa, aggressiva, basata su ripetizioni, scarti armonici. La struttura è ancora legata alla forma canzone, ma è musica violenta, con gli amplificatori che fumano e le chitarre che sibilano, tanto che finiscono col somigliare a reattori di jet in decollo. I Theoretical Girls fanno da apri pista ad altri gruppi che nel 1978 ritroveremo su un album divenuto leggendario, prodotto da Brian Eno, intitolato No Wave: i Teenage Jesus and the Jerks di Lydia Lunch, i DNA di Arto Lindsay, i Mars di Mark Cunningham e i Contorsions di James Chance. Quel lavoro è la fotografia di un'epoca. Ma nel 1978 Glenn Branca è il più selvaggio di tutti. Viene filmato da John Rehberger, suo sodale nel Bastard Theater, in una performance intitolata Solo. Si svolge in un club? No, nel loft di Jeffrey Lohn. I pochi minuti disponibili su youtube rendono l'idea. È come se Jackson Pollock avesse preso in mano una chitarra elettrica e l'avesse fatta finita con pittura e tele. Tutta l'energia del punk esplode in una serie di atteggiamenti corporei. La chitarra è tutt'uno con i gesti di chi la suona e la maltratta. Le corde subiscono ogni serie di agguati. L'amplificazione è tale che il semplice sfiorare un capotasto crea turbini, grugniti, vibrazioni. Ne esce una tavolozza di suoni primitivi, aggressivi, sparati ad un volume assurdo. Sì, un Pollock extraterrestre, che preferisce l'anfetamina all'alcool.

 

 

Nel 1979 è il turno degli Static. Fanno in tempo ad incidere un sette pollici. La struttura è ancora legata alla forma canzone. Il “do it yourself” del punk influenza molte di queste scelte. Ma lentamente si fa strada qualcosa di nuovo. Con il successivo The Ascension, il primo lavoro firmato a suo nome, tocchiamo uno dei suoi vertici. Cambi dinamici, riff ripetuti, accordi potenti. Nell'album, tra i chitarristi troviamo Ned Sublette e Lee Ranaldo. Con questo lavoro e il successivo, Lesson No. 1, Glenn Branca inizia seriamente a pensare la struttura dei brani in termini di “composizione”. La Monte Young, Terry Riley: metriche minimaliste, sfigurate però da improvvise dissonanze, crescendo, ritardando, scarti armonici. La formazione classica da combo rock inizia qui a lavorare per strati sonori, sovrapposizioni, contrappunti tonali. Tutto questo apre la strada alle serie di “Sinfonie” che costelleranno la sua carriera compositiva. Nella prima “Symphony” suonano tra gli altri Lee Ranaldo e Thurston Moore, che introietteranno l'esperienza con Branca e daranno vita ai Sonic Youth (che Branca fa incidere per la sua etichetta, la Neutral Records Imprint). Nella Symphony No. 1 fa la sua apparizione una “octave guitar”: le due corde più basse sono accordate su una nota bassa in MI. Quelle nel mezzo di un'ottava più alta. Le due in alto di un'altra ottava più alta. Le chitarre vengono approntate con corde di acciaio. Ne esce un suono più brillante. Lo spettro sonico diventa più arioso, le armonie più ricche. Nelle composizioni il numero di chitarre aumenta. Alto Baritono Soprano: ogni chitarra sperimenta posizioni di accordatura, piazzate su determinate note. Ed è tutto un maneggiare corde, diverse tensioni, accordature aperte. Ed è tutto un allentare, annodare, modificare, schiacciare tasti, tentare serie armoniche bislacche. Ne esce una specie di sistema, non lineare. Le composizioni si vorrebbero matematiche, ma la tensione delle corde produce a volte risultati imponderabili a causa della loro vibrazione. Sì, è proprio una questione di vibrazione. La serie armonica è legata alla vibrazione di una corda. E sono almeno 256 i modi in cui questa vibra. Tutti nello stesso istante. «Questi modi, che vibrano tutti all'unisono, si interpenetrano in modo tale da creare il suono che ascoltiamo – ricorda Branca.

 

 

È questa miriade di suoni, che squillano nel medesimo tempo, ciò che noi percepiamo come un singolo suono; ma noi non udiamo in realtà un singolo suono, piuttosto una risonanza che è il risultato di suoni molteplici, l'interpretazione di una vibrazione non lineare. Roba fichissima». Insomma, un po' come vedere uno dei Black Paintings di Ad Reinhardt a distanza ravvicinata. Dal nero monocromo emergono per un attimo sfumature, tinte inattese. Ma bisogna fare attenzione, avere il coraggio di spalancare le orecchie. O gli occhi.

Intervistato da John Howell su PAJ: A Journal of Performance and Art, LIVE performance art magazine, nel 1982, gli viene chiesto se è in grado di leggere uno spartito. La risposta è no. La madre gli ha fatto prendere lezioni di chitarra classica, da bambino. Ma ha smesso subito. Per un anno poi non l'ha più toccata, la chitarra. Tutto ciò che sa di scuola era per Branca una scocciatura. Il punk l'ha salvato da tutto questo. La furia del punk. Il muro di suono. Deve essere proprio questa attitudine ad aver terrorizzato John Cage, nel 1982. A Chicago, Cage assiste a una sua performance. È il giorno del suo compleanno. Il brano che viene eseguito si intitola Indeterminate Activity of Resultant Masses. Davanti a questo invasato che dirige una schiera di chitarristi, più batteria, la sua reazione è di spavento e aggressione. Non sa se stare seduto o alzarsi. Trema. E dichiara: «Mi sono sentito turbato... Mi sono trovato in una disposizione d'animo tale da associare quella musica al male e al potere. Non voglio quel tipo di potere nella mia vita. Se si fosse trattato di politica avrebbe ricordato il fascismo». Non si trova qui, in quel senso di aggressione, tutta la distanza tra due generazioni differenti? Non è proprio la furia e l'aggressione punk lo spartiacque che li divide? La stessa cosa accade l'anno dopo in Olanda. Glenn Branca esegue la sua Symphony No. 4 annichilendo la platea. Che però sembra comprendere e apprezzare. Sicuramente più dei membri dell'orchestra che sale sul palco dopo di lui. Questi, prima di iniziare a suonare Wagner, si alzano in piedi e dichiarano di essere rimasti sconcertati, irritati da quanto avevano appena ascoltato. Punk.

 

 

Il numero delle “Sinfonie” negli anni è aumentato. La numero 13 (Hallucination City) si muove per fantastiche ondate soniche. Si tratta di una partitura per 100 chitarre. La prima si è tenuta a New York nel 2001. La numero 16 ha per titolo Orgasm. Un’altra composizione per 100 chitarre. Anche le “Ascensioni” si sono moltiplicate. Per gemmazione, variazione. In mezzo a tutto questo, Branca ha fatto in tempo a lavorare con Peter Greenaway sulle musiche de Il ventre dell'architetto (1987) e ha messo in piedi altri mille progetti: ha composto lavori sinfonici per strumentazione classica e vocale. Il suo amore per la musica è totale. Il suo lavoro ha ispirato numerose band: dai già ricordati Sonic Youth, fino agli Swans di Michael Gira, senza dimenticare gli Helmet di Page Hamilton. 

Se n'è andato pochi giorni fa a 69 anni, per un cancro alla gola.

 

L'ho visto dal vivo a Bologna, nel 2014, in un piccolo locale, dove suonano spesso gruppi punk: il Freakout, sotto il ponte di via Stalingrado. L'atteggiamento punk l'ha sempre contraddistinto. E questo in termini di carriera si paga. Ha significato non scendere mai a compromessi; mantenendo la propria indipendenza. È salito sul palco. Solo. Appesantito, con la giacca nera, i capelli ormai bianchi, tirati indietro. Forse già malato. Ha fatto uscire qualsiasi tipo di suono dal suo strumento, senza dire una parola. Come un vecchio cowboy laconico. Come Jackson Pollock. Per un artista le parole sono di troppo. L'arte si deve sentire o vedere. Poi se n'è andato, quasi senza salutare. 

Resta uno dei momenti più belli della mia vita. 

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