Ross McElwee

5 Dicembre 2013

In occasione della retrospettiva che FilmMaker dedica quest'anno a Ross McElwee, pubblichiamo un estratto da News from Home. Il cinema di Ross McElwee a cura di Luca Mosso, Daniela Persico e Alessandro Stellino (Agenzia X, 2013)

 

Segnaliamo l'incontro/brunch dalle 10.45, sabato 7 dicembre con Gianfranco Rosi e Ross McElwee a Milano in Via Sarpi

 


 

Quando Robert Kramer nel 1975 girò Milestones, uno dei più incredibili e sottovalutati film degli anni Settanta, fu in grado di mostrare, nella sua forma più efficace e appropriata, uno dei momenti più importanti della storia americana degli ultimi decenni. La generazione degli anni Sessanta, protagonista di un decennio di lotte che cambiò in profondità gli stili di vita culturali e le forme di rappresentazione ideologica di quel paese, si trovò per la prima volta in una situazione di impasse. I rapporti di forza sociali ed economici erano di fatto immutati, il movimento dei diritti civili non era riuscito nemmeno a scalfire le macroscopiche disuguaglianze che contraddistinguevano (e continuano a farlo ancora oggi) i ghetti afroamericani, così come i conflitti sindacali assistevano ad un progressivo arretramento che poi portò alla devastante svolta reaganiana degli anni Ottanta. Gli anni Settanta, pur con tutte le ricchezze che quel decennio espresse, erano dunque gli anni del riflusso: quelli in cui una generazione politicizzata iniziò a disgregarsi, a vivere la possibilità del cambiamento come un illusione e a ricominciare a mettere al centro l’individuo. Milestones è in questo senso un’incredibile narrazione del ripiegamento nel privato di quegli anni, ma anche forse della presa di coscienza di quanto siano complessi i rapporti di forza politici, sociali e persino individuali e personali. E che per cambiarli sarebbe stato necessario inventarsi una strada diversa.

 

 

Il cinema di Ross McElwee potrebbe essere visto come il contro-campo o la continuazione di quel processo di transizione politico e personale. Anche figurativamente, in Milestones i vari protagonisti della vicenda viaggiano tutti in direzioni diverse: è come se dalla comunità politica fosse iniziato un lento processo di allontanamento. Nel cinema di Ross McElwee questo percorso di separazione – di sostituzione della grammatica del collettivo con il lessico e l’immaginario del privato – è ormai compiuto. La dimensione della politica è senz’altro presente, ma rimane sullo sfondo, non riesce a interagire se non a distanza con quella personale e individuale. […]

 

L’opera di McElwee che porta questa riflessione alle conseguenze più estreme è Sherman’s March. Il film dovrebbe svilupparsi lungo tre direttrici: un racconto di un evento storico, la Campagna di Savannah, che venne condotta nel 1864 dal generale dell'Unione William Sherman, durante la guerra di secessione americana e che devastò grande parte della Georgia e della Carolina; una riflessione sull’incombente rischio di una guerra nucleare con i sovietici (con annessa la preoccupazione per la costruzione di rifugi anti-atomici); e la ricerca da parte di Ross di una “brava ragazza del Sud” con la quale sposarsi a seguito dell’insistente richiesta dei suoi famigliari.

 

 

Già da subito è chiaro che la figura di Sherman e la questione della guerra nucleare saranno un semplice pretesto finalizzato a produrre una serie di vere e proprie associazioni libere che riguardano Ross McElwee, il suo rapporto con la sessualità e le donne, e il suo rapporto con il cinema. McElwee segue il consiglio della sorella che gli suggerisce di sfruttare il rapporto immediato che è in grado di instaurare con la gente per via della macchina da presa (“tutti ne sono affascinati. È un argomento di conversazione. Pensano che tu sia della televisione”) per attrarre su di sé l’attenzione delle donne e per risolvere la sua vita sentimentale appena messa in crisi dalla rottura del rapporto con l’ex-fidanzata. La macchina da presa, portata in giro dal solo McElwee con una bizzarra one-man crew, diventerà allora in questo film una vera e propria propagine corporea: vedremo il regista avere discussioni estremamente private con le diverse donne che incontrerà, lo vedremo denudarsi emotivamente di fronte allo spettatore. Ogni aspetto della sua vita, persino le confessioni notturne, verranno rese visibili alla macchina da presa. L’idea di usare questo espediente a proprio vantaggio secondo il suggerimento della sorella è tuttavia sempre sull’orlo di rovesciarsi nel suo opposto: l’uso strumentale della vita a fini cinematografici. McElwee ammetterà eloquentemente verso la fine del film che “sembra che stia filmando la mia vita solo per avere una vita da filmare”. Non si capisce quindi se Ross a un certo punto voglia davvero avere un rapporto con una donna o se non stia semplicemente tentando di usare le proprie relazioni sentimentali come pretesto per avere un rapporto con il suo vero oggetto di godimento, che è il cinema.

 

In questo senso i momenti più disturbanti sono proprio quelli dove la conversazione tra McElwee e il suo interlocutore si sposta naturalmente sul registro intimo, quasi sensuale: come quando si vedono alcune delle protagoniste abbracciare Ross accanto alla macchina da presa, o come quando in una discussione particolarmente intima e toccante si vede persino il braccio dello stesso McElwee uscire da dietro la macchina da presa per entrare nel campo visivo e accarezzare sulla guancia una delle donne con cui sta parlando. Il personaggio che a questo riguardo verbalizza esplicitamente questa ambiguità è proprio Charleen, la ex-maestra di McElwee che lo accuserà apertamente di usare l’ostacolo della macchina da presa per non avere rapporti con le donne.

 

L’economia libidica che è in gioco nell’utilizzo della macchina da presa ci mostra implicitamente come l’atto di guardare venga caricato da McElwee di una dimensione propriamente pulsionale: filmare è in sé un atto di godimento.  Non è possibile smettere di farlo, nemmeno quando l’intimità della relazione con una donna consiglierebbe di spegnere la macchina e cominciare a “vivere per davvero”, come consiglia Charleen.

 

 

Tuttavia l’idea di Charleen risiede su un’ingenuità: ritiene che un soggetto preferisca vivere senza mediazioni; che esso faccia meglio a gettarsi nel pieno della vita, invece che utilizzare uno schermo e magari godere di esso. La psicoanalisi ci insegna invece che propria la dimensione pulsionale è soggetta a una logica paradossale: non trae piacere dal raggiungimento del fine più vantaggioso, ma mette in atto un “attaccamento appassionato” ad un elemento nocivo, anti-vitale e irriducibile alla strumentalità. L’idea di soggetto che emerge dalla pratica di McElwee non è quella di colui che vuole ricercare l’immediatezza positiva della vita (come una certa ideologia del Sud come luogo dell’autenticità vorrebbe invece far credere), ma semmai quella dell’attaccamento ad un elemento singolare e nocivo, come quello che spinge al fumo.

 

Questa riflessione diventa esplicita in un passaggio molto significativo di Bright Leaves:

 

A volte provo un grande piacere a filmare, soprattutto al Sud, che non mi importa cosa riprendo. Anche riprendere una stanza di motel può essere un’esperienza quasi ipnotica. Non voglio stabilire per forza un’analogia ma, se ci penso, per me filmare non è diverso che fumare una sigaretta. Quando guarda attraverso il mirino, il tempo sembra fermarsi. Raggiungo una sorta di momento senza tempo. Giocherello con il tempo di posa, le profondità, i mirini […] Quando sono in viaggio per le mie riprese a volte immagino mio figlio tra qualche anno, quando io non ci sarò più, che guarda ciò che io ho filmato. Posso quasi sentirlo che mi guarda da qualche punto lontano nel futuro attraverso queste immagini e riflessioni, attraverso i film che gli ho lasciato. […] Come al solito filmo senza alcuna ragione particolare. È solo una scena, un momento di vita quotidiana.

 

La quotidianità di McElwee è tutto il contrario di un ritorno alla semplicità dopo che l’asprezza della politica aveva consegnato all’impossibilità la realizzazione di un cambiamento. Il ritorno al privato è deprivato completamente di ogni prospettiva consolatoria. Il fatto di filmare in modo così inquieto e ossessivo i dettagli più piccoli della propria vita quotidiana, fino al punto di compromettere il tessuto più profondo delle proprie relazioni familiari non può che consegnarci una riflessione di grande problematicità sul registro del soggetto.

 

La vita che viene consegnata in ogni suo minimo dettaglio alla registrazione della macchina da presa non può che essere una vita deviata da questa presenza nociva, ossessiva e tuttavia profondamente singolare resa possibile dallo sguardo meccanico della macchina da presa. Questo fatto ribalta anche il tema un po’ trito della registrazione filmica come resistenza contro la caducità della vita e in definitiva come antidoto nei confronti della morte. La prospettiva della psicoanalisi è destinata infatti a rovesciare la questione: la presenza pulsionale della macchina da presa di McElwee fin nei dettagli più intimi della propria vita indica piuttosto l’emergere di una dimensione contraria alla vitalità che consegna anche i rapporti familiari e della propria vita sentimentale a una distruttività che è al cuore dell’antropologia psicoanalitica. Oltre la disillusione delle sconfitte politiche degli anni Settanta troviamo in McElwee non una fuga dalla politica, ma semmai una riflessione di primaria importanza sulla dimensione non pacificata e profondamente traumatica del ripiegamento soggettivo. Una politica all’altezza dei tempi non può che partire da questi presupposti per mettere in discussione l’ideologia consolatoria del privato e per pensare a una nuova prospettiva di trasformazione.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO