Pallide e destinate a morir nubili / Primule

31 Marzo 2019

Tenerezza di una proda trapunta di primule. Tra l’erba non ancora rinnovata salutano ridarelle il bel tempo in arrivo. È vero, non esiste un unico fiore araldo della primavera, tuttavia il nome con cui Linneo le classificò le accredita di un prestigio maggiore tra le corolle presaghe di cieli azzurri, di sgeli e brezze frizzantine.

Il genere accoglie alcune centinaia di specie, per lo più abitatrici delle zone fredde e temperate dell’emisfero boreale. Molte hanno la loro fascia d’elezione in Oriente: tra Cina e Giappone vegeta allo stato spontaneo la metà delle circa cinquecento specie conosciute, di queste numerose hanno scelto le alture himalayane. In Italia due sono quelle più diffuse: la Primula vulgaris, comune in tutto il territorio nazionale isole comprese, e la Primula veris, che non si spinge oltre le regioni del centro. Erbacee perenni con rizoma orizzontale e foglie basali reticolate riunite in rosetta, prediligono terreni umidi a mezz’ombra e pendii al ciglio dei boschi. Tanto è cara e popolare la prima che non vale la pena soffermarsi sui brevi peduncoli pelosetti portanti ciascuno calici a imbuto e cinque petali cuoriformi intinti di quel giallo definito per antonomasia giallo primula. Un pastello che sa di nuovo, pasquale a tal punto d’accordarsi con il vaporoso spiumìo dei pulcini appena usciti dal guscio. Piuttosto, occorre ricordare il verso di Shakespeare nel The Winter’s Tale (atto IV, scena IV): «pale primroses / that die unmarried, ere they can behold / bright Phoebus in his strength» (le primule / pallide e destinate a morir nubili / prima d’aver potuto sostenere / lo sfolgorante vigore di Febo). Il bardo si riferiva all’intempestiva precocità delle primule di campo che fioriscono quando gli insetti impollinatori non sono ancora tutti all’opera, condannandosi in maggioranza a una vita sterile. 

 

 

Specie protetta, la Primula veris emana un profumo suadente e allunga scapi eretti a reggere ombrelle pendule di calici gamosepali rigonfi avvolgenti il tubo corollino che sortisce in un giro pentalobato giallo squillante. Interessato al particolare dimorfismo dello stilo (eterostilia), Darwin ne studiò la morfologia: nella stessa popolazione si hanno individui dallo stilo lungo che si affaccia alle fauci e individui dallo stilo breve che s’arresta a metà del tubo corollino, cosa che rende pressoché impossibile l’impollinazione autogama, mentre favorisce quella entomofila di api e farfalle geneticamente più redditizia.  

Un cenno merita pure la Primula auricola, anch’essa nel registro delle specie tutelate: assente nelle regioni del nord ovest e del sud (ad eccezione della Campania), oltre che nelle isole, è però reperibile nei vivai che offrono ibridi assai apprezzabili per le combinazioni cromatiche e per il profumo dei ricchi corimbi florali. È detta anche “orecchia d’orso” per via delle foglie tonde e carnose, o “sanicola” perché, come tutte le sue sorelle, ha proprietà medicamentose note da secoli.  L’infuso di fiori di primula pare infatti essere rimedio contro l’emicrania e l’insonnia, il decotto di rizoma libera i bronchi e le vie respiratorie, inoltre fiori e foglie novelle sono edibili, ottimi freschi in insalate, lessati in minestroni, ed essiccati per aromatizzare tisane. E c’è chi, come con le violette, ne fa dolci canditi. 

 

 

In aerali dai microclimi favorevoli possiamo osservarne altre di rare: prosperano in alcune regioni dell’arco alpino le ombrelle violette della Primula glutinosa e quelle rosate della Primula farinosa; la lillipuziana Primula allionii è invece esclusiva delle rocce piemontesi e, notevole per bellezza, è la dorata Primula Palinuri endemica dell’habitat costiero campano-calabro.

La letteratura non si esime dal celebrare la festa primaverile delle primule. Ecco quelle della poetessa più antologizzata dagli abbecedari novecenteschi e mandata a mente da generazioni di scolari, la lodigiana Ada Negri:


Sbocciano al tenue sole
di marzo ed al tepor de' primi venti,
folte, a mazzi, più larghe e più ridenti
de le viole.
Pei campi e su le rive,
a piè de' tronchi, ovunque, aprono a bere
aria e luce anelando di piacere, le bocche vive.
E son tutti esultanza
per esse i colli; ed io le colgo a piene
mani, mentre mi cantan per le vene
sangue e speranza.

 

 

A chi storca il naso a tanta immediata versificazione offro come rovescio della medaglia quest’altra luminosa e più ambigua poesia di Pier Paolo Pasolini. Viene dritta dritta dal suo Friuli, “paese di temporali primule”, e s’intitola Soreli (Sole): 

 

In miès dai ciamps serèns

i troiùs a si incròsin.

Ulì tal soreli pens

      al pàusa un zòvin.

 

Pojàt a un morarùt

ju pai ciamps di Versuta

tai so lavris al strens

   na primuluta.

 

A cola ju la sera,

na oscuritàt tranquila.

Doma chel flòur tal silensi

    al disfavila.

 

[Sole. In mezzo ai campi sereni si incrociano i sentieri. Là, nel sole intenso, se ne sta un giovane. Appoggiato a un piccolo gelso, giù pei campi di Versuta, egli stringe tra le labbra una primoletta. Cade ormai la sera, una oscurità tranquilla. Solo, nel silenzio, brilla quel fiore.]

 

 

Ma come tralasciare Le primule incluse dal poeta furlano nella silloge L’usignolo della chiesa cattolica, con il loro carico di innocenti turbamenti, di fanciullezza prima e prime impudicizie?

 

Dove trovo la forza di ascoltarmi?

Questo enigma pei ragazzi e gli onesti,

questo fido al caldo delle sue vesti,

questa vittima dei suoi sogni insani,

può ancora in sé trovare le freschezze

delle rive di primule, le inezie

affascinanti che il vergine assillano?

Lo può, lo può! Il cuore messo a nudo

mai non cesserà d’essere cuore:

Tu, Dio, come l’allodola mi sai

che de joi muove sas alas contra ’l rai!

 

Io turbo il pudore delle primule

troppo semplici nella luce rozza 

di marzo, se di campane e pioggia

squilla il vivo, laborioso giorno.

Non possono arrossire o infuriarsi

o, se lo fanno, è con occhi arsi

d’amore e di nuove seduzioni.

Mi assomigliano. La loro vergogna

è la mia impudicizia, il loro sogno

ha candide innocenze come il mio.

In esse il mio pudore offeso spio.

 

 

Quand’ero perso nel loro bagliore

ero, mi volevo, un buono, un santo.

E ancora mi assale quell’antico

entusiasmo di vergine, nel dare

senza compenso ad esse ogni energia.

Voglio il loro sorriso, simpatia

vitale, e per averlo, morirei.

Sono così innocenti che io chiedo

al cielo che gioire esse mi vedano

di purezza, o, in una luce mitica,

per salvarle, dare la mia vita.

 

Indi sorrido nel deserto tutto

esplorato del mio cuore: bontà,

dolcezza… Ma c’è forse chi non sa

il suono impuro di queste parole?

Deserto nel deserto è la mia mite

condotta. Le mie pietà gioite

sono moti della mia indifferenza.

La coscienza – né tenebra né luce –

alle disperazioni mi conduce

che ebbi adolescente: il vuoto puro

dell’esistenza senza futuro.

 

Non invecchio. La mia pelle di primula,

la mia voce di brezza dolce d’umido,

i miei occhi modesti, non consumo.

Dentro il mio cuore c’è un resto eterno

di fanciullezza (e non è il mistero

del Mondo che pur rischia d’esser vero?)

Cibo delle primule e del mio cuore,

fa ogni cielo diverso, ogni alito

d’aria il primo, ogni battito d’ali

annuncio di creazione. È troppo libero

il cuore! In me lo credo, e altrove vive.

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