Deyan Sudjic. Architettura e potere

28 Ottobre 2011

Si fronteggiano a breve distanza, meno di un chilometro in linea d’aria. Il primo ha la forma di due grandi parentesi contrapposte nella parte convessa, una più alta e una più bassa; il secondo è invece una sorta di nastro di vetro che si srotola partendo da una cuspide posta più in alto. Si tratta delle nuove torri milanesi. In quella edificata su progetto di Henry Cobb ha sede la Regione Lombardia, nell’altra, opera di Cesar Pelli, si trasferirà tra poco UniCredit, la più grande banca italiana.

 

La torre di Henry Cobb, Milano.                                                          La torre di Cesar Pelli, Milano.

 

Come ha notato Silvia Micheli in un testo dell’atlante di architettura contemporanea MMX Architettura Zona Critica (a cura di M. Biraghi, G. Lo Ricco, S. Micheli, Zandonai, pp. 297, € 26), le nuove architetture evidenziano i due poteri della capitale morale: il gruppo dirigente della politica contrapposto all’anima finanziaria e commerciale della città.

Ha dunque ragione Deyan Sudjic, critico dell’“Observer” e direttore del Design Museum di Londra, quando scrive all’inizio del suo volume Architettura e potere (Laterza, pp. 363, € 20) che l’architettura ha che fare col potere dato che questo impegna grandi risorse nei piani edilizi, perché costruire è l’attività precipua dei potenti. L’attenzione verso l’architettura è cresciuta notevolmente nell’opinione pubblica, segno di un interesse che fa dei progettisti i leader culturali del XXI secolo.

 

Sudjic ricostruisce nel suo libro – opera ben scritta, agile, intensa, ricca d’informazioni, sino al limite del gossip – le vicende degli architetti del XX secolo, da Speer a Piacentini, da Miralles a Meier; s’inoltra nelle vicende del costruire decretato dai regimi totalitari, ma anche e soprattutto delle democrazie occidentali. Se, come dimostra il progettista di Hitler, Albert Speer, ma anche Boris Iofan, il costruttore di Stalin, un architetto può materializzare l’aspetto esteriore del fascismo, dello stalinismo o del saddismo, prima ancora che i regimi esistano concretamente, ovvero trasformare una minacciosa possibilità in una terribile realtà, è però anche vero che coloro che svolgono questo mestiere hanno inevitabilmente a che fare col potere, con coloro che possiedono i mezzi e le ricchezze necessarie per edificare i loro sogni di mattoni e cemento.

 

Grosse Halle, progetto di Albert Speer per la Welthauptstadt Germania.

 

Sudjic mostra la doppia faccia dell’architettura scrivendo una dichiarazione d’amore per l’arte di costruire, e insieme compiendo una spietata analisi dei legami tra questa e i potenti del mondo. Quando Speer si lamentava con Hitler per le difficoltà che gli frapponeva il ministro delle finanze nazista nella progettazione della Berlino del Terzo Reich, il Führer replicava che questi non si rendeva conto di quale fonte di entrate avrebbero costituito per lo Stato nei seguenti cinquant’anni quegli edifici, alla pari dei castelli di Ludovico di Baviera, considerato pazzo, e invece visitati da migliaia di persone. Hitler, commenta Sudjic, “rivendicava per sé l’invenzione dell’effetto Bilbao”.

 

Ci sono nel libro capitoli straordinari, come quello dedicato alle biblioteche erette dagli ex presidenti americani, da Reagan a Bush, da Carter a Clinton; e poi ancora il ritratto al vetriolo di Jacques Attali che trasforma un edificio qualsiasi in una banca europea spendendo milioni per ottenere il risultato di colpire clienti e visitatori. Ci sono descrizioni di opere di Renzo Piano come di Norman Foster, ma senza dubbio il caso più eclatante è quello di Rem Koolhaas con le pagine dedicate alle nuove architetture dei cinesi, i futuri padroni del mondo. L’architetto olandese, grande esperto del caos, si è giocato tutto lavorando per i suoi committenti governativi nella costruzione della China Television. L’autore mette a confronto Koolhaas con Zhang Kaiji, il progettista del Museo della Rivoluzione, finito a riflettere durante la Rivoluzione culturale, per dieci lunghi anni, sul suo lavoro di architetto mentre spazzava pavimenti. L’architettura, conclude, serve a definire un regime, ma non sono quasi mai gli architetti a formularne il significato.

 

China Central Television, Pechino.                                               Museo della Rivoluzione Cinese, Pechino.

 

La necessità di costruire nasce da un bisogno primario: realizzare un rifugio nel senso fisico del termine; tuttavia con lo sviluppo delle civiltà umane essa è diventata il tentativo di affermare una visione del mondo, sia quando si tratta di una singola casa sia di palazzi o grattacieli. Fra un sindaco che invita un architetto a progettare un edificio, o un nuovo complesso abitativo, esiste un rapporto differente tra quello che s’instaura tra lo stesso architetto e gli inquilini che vi dovranno abitare. Difficile trovare un dittatore, da Mussolini a Kim Il Sung, che una volta raggiunto il potere non si sia impegnato in una serie di costruzioni. E la cosa riguarda anche i grandi capitalisti americani, come mostra la storia di Nelson Rockefeller.

 

Nel caso dei grandi architetti del XX secolo come Le Corbusier e Mies van der Rohe, e le Archistar attuali (Frank Gehry, Rem Koolhaas, Renzo Piano), non si tratta di liberi creatori: il loro lavoro dipende sempre dal grado di coinvolgimento nel contesto politico. L’architettura in definitiva ha sempre a che fare con le medesime cose: potere, gloria, spettacolo, memoria, identità. E mentre gli architetti pensano di usare i potenti e i ricchi per restare nella storia come immortali, la loro attività, alla fine, viene definita non dal loro linguaggio architettonico, bensì dal desiderio dei ricchi e dei potenti di dare una forma al mondo usando la loro arte.

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