Il Dizionarietto del signor Barosso, fruzzicatore

18 Settembre 2022

Il dizionario è non solo uno strumento di conoscenza indispensabile, che informa, spiega, educa, ma anche una macchina dei sogni che, di parola in parola, finisce per confondersi con il potere dell’immaginazione (Roland Barthes, Cos’è uno scandalo. Scritti inediti 1933-1980. Testi su se stesso, l’arte, la scrittura e la società, a cura di Filippo D’Angelo, L’orma, Roma 2021).

Un grande estimatore del vocabolario è stato Edmondo De Amicis. Per lui il vocabolario è «un libro da leggersi per disteso, come una storia, o un trattato, o un romanzo; e da tenersi sul tavolino da notte; e da portarsi, a fascicoli, nelle passeggiate in campagna». Il vocabolario, scrive ancora De Amicis, è un libro incantevole, fantastico, che eccita i sensi e accende faville nella testa, cinquanta sue pagine suscitano una folla d’immagini più fitta, più varia, più turbinosa di quella delle Mille e una notte. Nel vocabolario, libro ameno, utile e morale, vi sono «le parole moribonde, le vittoriose, le storpiate, le trasfigurate, le invulnerabili, le uccise, le sotterrate, le fracide, le risorte». «Se fossi Ministro della istruzione pubblica – sentenzia minaccioso De Amicis – metterei nel programma d’insegnamento per le scuole del Regno, colla più profonda convinzione di far cosa utile all’Italia, la lettura obbligatoria di tutto il Vocabolario della lingua, con spogli, commenti ed esame alla fine di ogni anno» (Edmondo De Amicis, La lettura del vocabolario, in Id., Pagine sparse, Tipografia Editrice Lombarda, Milano 1874, pp. 135-147; anche, con il titolo Vocabolario, in Mario Scognamiglio, a cura di, Apologia del vocabolario e altri scritti di bibliofilia, «Almanacco del bibliofilo», anno IX, N. 9, Edizioni Rovello, Milano gennaio 1999, pp. 39-52).

C’è poi chi, come Manganelli, sostiene si possa leggere un dizionario «come un romanzo», e ciò in virtù del fatto che vagabondare fra le pagine dei dizionari, fascinosi e seducenti dormitori di parole, dove le parole stanno appese come vipistrelli e si staccano e cominciano a svolazzare quando uno le chiama a voce, è cosa gradevole, che procura piacere, un’occupazione «dilettosa», appunto come leggere un (buon) romanzo (Giorgio Manganelli, Tutto il Gotha dei fantasmi, in Id., Il rumore sottile della prosa, a cura di Paola Italia, Adelphi, Milano 1994, pp. 173-176).

E proprio a Manganelli si deve una recensione, Ci sveglieremo al «gallicino», uscita sul «Corriere della Sera» il 12 giugno 1977, al Dizionarietto illustrato della lingua italiana lussuosa di Giampaolo Barosso, con le illustrazioni di Romano Farina e Angelo Sgarzerla, stampato in origine da Rizzoli nel 1977 e riedito da Elliot nel 2022 con postfazione di Antonio Castronuovo.

Le parole contenute nel Dizionarietto del signor Barosso (così lo chiama il Manga riconoscendo al Nostro l’appartenenza totale al genere «confezione regalo») sono autentiche ma con definizioni rimaneggiate o inventate, parole desuete, astruse, provenienti, come spiega lo stesso Barosso nella «Licenza» finale al libro, in primo luogo dal Nòvo Dizionàrio Universale della Lingua Italiana (1909) di Policarpo Petrocchi e dal Vocabolario della Lingua Italiana (1937-38, VI ed.) di Nicola Zingarelli, e da altri volumi ancora.

Ecco un assaggio di queste parole, tanto per entrare nello spirito del Dizionarietto:

BIBLIÒTAFO s. Maniaco che tiene i propri libri gelosamente nascosti.

INFALOTICHIRE v. Fantasticare, diventando di cattivo umore.

PALPALPIGASTRO s. Difficile pronunzia. Zampa di gallo e piè di palpalpigastro, frase che si dice proponendo per gioco una difficoltà di pronunzia.

SCARDUCCIARSI v. Sottrarsi all’influenza del Carducci.

TAPINOSI s. Figura retorica che consiste nell’usare parole dimesse.

ZUZZERELLONE s. L’ultima parola del vocabolario. Non è detto zuzzerellone, non è detta l’ultima parola.

Goloso di nonsense, con un senso infallibile del superfluo che è l’anima del lusso (così lo dipinge il Manga che lo sospetta «intenditore di tordi»), Barosso ha escogitato «una elaborata burla», un «furbesco imbroglio», il che lo accomuna, in un certo qual modo, all’operazione altrettanto beffarda messa in opera da Tommaso Landolfi (uno degli autori, insieme a Italo Svevo, amato da Barosso) nel racconto La passeggiata (1966), che inizia così:

La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima... Sono un murcido, veh, son perfino un po’ gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l’effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina.

E continua sullo stesso registro, con frasi costruite «a base di sostantivi e verbi, incomprensibili, come uno di quegli esperimenti di finta significazione d’un lessico inventato, tipo il Lewis Carroll del Jabberwocky» (Italo Calvino), quasi fosse un italiano immaginario.

Recensendo il libro di Landolfi che contiene quel racconto, «un sopracciò della critica letteraria rotocalcica», a proposito di alcuni termini indecifrabili, enigmatici, scrisse che erano parole inventate, mentre erano tutte vere, astruse certo, abbandonate ormai da tempo, ma tutte rigorosamente vere e rintracciabili in un vocabolario della lingua italiana. Proprio una bella trebaziata (da Gaio Trebazio Testa, giurista e politico romano satireggiato da Orazio; il termine indica prose e poesie impreziosite da vocaboli peregrini che i più sono portati a credere inventati).

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Come tutti meravigliosamente veri sono pure i lemmi registrati da Il libro delle parole altrimenti smarrite (2011) di Sabrina D’Alessandro – arcinegghientissimo, risbaldènte, scutrettolante, tanto per fare qualche esempio – che fa degnamente il paio con il Dizionarietto del Barosso.

Come si conviene ai dizionari canonici, anche il Dizionarietto riporta all’interno di alcune voci degli esempi d’uso e citazioni:

BRASCHINO s. Ragazzo che fa piccoli servizi. Pronto? Ho lasciato l’elzevirotto al portinaro: potete mandare un braschino a ritirarlo? (Gior. Manganelli).

ZIRO ZIRO s. Ziru ziru. Zunzuro. Suono che si produce strisciando sopra l’orlo di un bicchiere. M. pensava ai bei giorni in cui ancora avrebbe strisciato nudo sull’orlo di un bicchiere, ricordava con nostalgia lo ziro ziro che ancora avrebbe prodotto (S. Beckett).

Altre voci sono dedicate a macchine immaginarie:

FANTÒSCOPO s. Macchina con la quale si vedono i fantasmi.

LAMPOSCOPIO s. Strumento ottico per vedere i lampi.

LOGÒMETRO s. Strumento per misurare le parole [mi ricorda Da: «La melotecnica esposta al popolo» (1942) di Tommaso Landolfi, dove la «melotecnica» è lo studio dettagliato su peso, consistenza, colore e altre particolarità fisiche delle note emesse da una gola umana].

ONNIÒMETRO s. Strumento misuratore d’ogni cosa.

TEOMETRISTA s. Misuratore di Dio e dell’opera Sua [come non pensare al testo Della superficie di Dio di Alfred Jarry].

Altre voci ancora sono giochi di parole o freddure:

EPANADIPLOSI s. Ripetizione in fine di frase o periodo della parola o delle parole con cui cominciano. Questa è un’epanadiplosi, questa è.

EQUILIBRIO s. Usato soprattutto al plurale, equilibri, termine tecnico degli equilibristi.

INTENDANZA s. Persona amata. Intendanza di Fidenza, persona amata, fidanzata che sta a Fidenza.

LALLÌ av. Giù di là. O là o lì.

NICCHINACCHI s. Persona piena di gnigni.

PRATICAMENTE av. Voce che, praticamente, non significa un bel niente.

I modi scherniti, precisa Barosso, appartengono in massima parte al linguaggio politico, e molti a quello della sinistra, due esempi per tutti:

POLITICO ag. Dicesi di tutto, in quanto tutto è politica […].

POLLICITAZIONE s. Promessa unilaterale, dichiarazione senza volontà d’obbligarsi […].

A conclusione del Dizionarietto, Barosso, in linea con quanto detto dai sopracitati De Amicis e Barthes sul valore dei dizionari, avanza un consiglio, non nuovo ma sempre buono: «non trascurare la lettura dei dizionari […]: se ne ricavano davvero, e non per scherzo, istruzione e diletto».

Ma chi è Giampaolo Barosso?

Figura poliedrica e bizzarra nel panorama culturale italiano, Barosso nasce a Torino l’8 giugno 1937; trasferitosi a Genova, partecipa da giovane con Gino Paoli e Luigi Tenco alla formazione di un piccolo complesso I Diavoli del Rock & Roll; dipinge; collabora con la rivista «Ana Eccetera» fondata da Martino Oberto dove pubblica il primo racconto, Un incidente analogo (1960), e altri scritti, fra cui Notizia circa un nuovo progetto di lingua ausiliaria artificiale internazionale (1969). Nel 1964 si trasferisce a Milano dove frequenta il Centro di Cibernetica e Attività Linguistiche dell’Università di Milano, diretto da Silvio Ceccato, con cui ha un lungo sodalizio; traduce testi scientifici; scrive soggetti per «Topolino» e collabora con il «Corriere dei Piccoli». Nel 1969 pubblica Principi generali di linguistica operativa. Dopo un breve soggiorno a Roma, nel 1975 si ritira in un casolare a Montecampano, una frazione del comune di Amelia in Umbria, dove si dedica alla campagna (ecco perché Manganelli lo ritiene «intenditore di tordi»; l’autore di Hilarotragoedia s’immagina che Barosso frequenti una «tal gargotta di Amelia dove si gustano palombacci e tordi»); allo stesso tempo crea un proprio sito web in cui pubblica storie e storielle di vita quotidiana, ma anche fantastiche, riflessioni di carattere sociale, culturale, linguistico, letterario, filosofico, una sorta di personale Zibaldone, un mosaico di testi che fanno pensare, così scrive Barosso, ai Saggi di Montaigne. Le cronache riportano che nel 2008 vince con il fratello Abramo il Premio Papersera, riconoscimento assegnato annualmente all’autore o agli autori Disney distintisi nel corso della propria carriera fumettistica. Si spegne a Montecampano il 27 febbraio 2014.

Nel Dizionarietto, c’è una voce che sembra scritta ad hoc per riassumere in modo efficace la figura del suo autore:

FRUZZICATORE s. Persona che ricerca e ricerca, senza trovare nulla. Fruzzicatore del CNF, ricercatore del Consiglio Nazionale delle Fruzziche.

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