Viveiros De Castro con Karen Barad / Amazzonia e cosmologia queer

20 Gennaio 2021

Che cosa hanno in comune la meccanica quantistica, l’antropologia dei popoli amerindi, il femminismo e gli studi di genere? Apparentemente nulla. Si tratta di ambiti disciplinari molto lontani tra loro come terre separate dalla deriva dei continenti. Eppure da qualche anno si avverte una scossa che tutti li attraversa simultaneamente. Un movimento tellurico che non sarebbe azzardato definire come una comune tendenza epistemologica o come un nuovo paradigma ontologico, in grado di generare sussulti sismici gemelli nonostante le lunghe distanze. Lo potremmo chiamare un paradigma queer, ma solo perché l’aggettivo suona più inclusivo e semanticamente ricco rispetto ad altre connotazioni, meno accattivanti, che potrebbero ugualmente definirne l’orizzonte: immanente, neomaterialista, metamorfico, post-umano.  

 

È ciò che emerge se si leggono in concomitanza due testi assai diversi provenienti da oltreoceano e pubblicati di recente in Italia, riconducibili l’uno al campo degli science studies, l’altro a quello dell’antropologia: Performativià della natura. Quanto e queer di Karen Barad (edizioni ETS) e Prospettivismo cosmologico in Amazzonia e altrove di Eduardo Viveiros De Castro (Quodlibet). Il primo è già di per sé un testo alquanto multiforme che raccoglie una serie di articoli scritti tra il 2003 e il 2012 dalla filosofa e femminista americana, nonché fisica teorica specializzata in meccanica quantistica: i saggi attraversano ecletticamente scienze naturali, scienze umane e letteratura con l’intento di ridiscutere profondamente le nozioni di cambiamento, agency, causalità, tempo e spazio. Il secondo – di cui ha già parlato Pietro Barbetta su Doppiozero – è la trascrizione di quattro lezioni tenute a Cambridge nel 1998 dall’antropologo brasiliano, autore del fortunato Metafisiche cannibali: si tratta proprio delle lezioni con cui Viveiros de Castro, muovendo dal prospettivismo amerindio, ha impresso una svolta all’antropologia contemporanea, ridiscutendo il ruolo e la funzione dell’etnografo e mettendo in questione la tradizionale prospettiva multiculturalista (molte culture, molti punti di vista, una sola realtà), rovesciata in un sorprendente «multinaturalismo» (molte nature, un solo punto di vista, quello che definisce la posizione di soggetto).

 

Senza titolo, Dalla serie Epidermidi, Stampa su carta cotone da scansione a contatto, dimensioni 160 cm x 127 cm, 2014, courtesy dell'artista, Giovanni Ferrario.


Aprendo il primo libro incappiamo in un mondo dove, nel ruolo di soggetto, troviamo fulmini, dinoflagellati, neurorecettori delle pastinache e altre «creaturine queer» – come le chiama l’autrice – la cui identità e i cui confini non si possono spiegare alla luce di un’ontologia classica. Aprendo il secondo veniamo catapultati nella cosmologia amazzonica dove, nel ruolo di soggetto, troviamo dèi, spiriti, piante e animali, come i giaguari che – secondo un esempio divenuto celebre – vedono se stessi come noi ci vediamo, hanno abitazioni, si sposano e s’inebriano bevendo birra di manioca. Il punto di incontro tra i due sarebbe dunque una nozione anti-umanistica di soggettività o una qualche forma di prospettivismo ontologico radicale? Non solo.

Se di primo acchito l’accostamento può suonare bizzarro, ovvero queer, a una lettura più approfondita si avvertono tra i due volumi risonanze ed echi inaspettati, tanto da suggerire una singolare aria di famiglia. Mondi distanti, quelli di Barad e Viveiros De Castro, ma accomunati da una sorta di entanglement sotterraneo che produce smottamenti omologhi e lascia emergere qua e là configurazioni geologiche affini. Proviamo a cartografarne alcune.

 

Ogni ontologia è politica. Sia per l’antropologo sia per la filosofa descrivere la realtà significa prendere posizione: ogni mappa del mondo è un modo di orientarsi in esso indirizzandovi la propria azione. Antropologia e filosofia dovrebbero perciò rinunciare a ogni discorso ontologico in nome di un relativismo epistemico? No, esattamente il contrario: se da una parte Viveiros De Castro rivendica il portato ontologico del prospettivismo amazzonico, tanto da essere considerato il fautore di un ontological turn in antropologia, e se, d’altra parte, Karen Barad rivendica il proprio materialismo, tanto da essere considerata una dei protagonisti del New Materialism in filosofia, è proprio perché l’ontologia, come ogni discorso sulla materia, è sempre una questione politica. Lo è sempre stato e lo sarà sempre.

Si tratta dunque di una rivendicazione ontologica di segno opposto a quella avanzata in altri ambiti disciplinari sulla scorta di un naturalismo ingenuo. Ad esempio in ambito economico, dove il paradigma neoliberale pretende che le proprie analisi siano considerate neutrali, puramente descrittive e non prescrittive, escludendo ogni riferimento alla dimensione politica, della quale vorrebbe anzi fare a meno. Si prenda il pensiero economico di Gary Becker, punta di diamante del neoliberismo: nella sua prospettiva ontologica il conflitto politico è eluso (e proprio così, verrebbe da dire, sottilmente domato). Ben diverso l’approccio di Viveiros e Barad. Se il primo parla di «multinaturalismo», a indicare una pluralità ontologica conflittuale e immediatamente politica (la stessa metafisica amerindia è una sfida etico-politica al nostro modo di pensare), la seconda parla di un’«etico-onto-epistemologia», in cui tutte le discipline sono necessariamente intrecciate, a indicare l’impossibilità di una posizione neutra. Dire com’è fatta la realtà, descrivere la natura e parlare della materia sono tutti espliciti strumenti di lotta politica, armi di un conflitto a cui né l’antropologo brasiliano né la filosofa americana intendono sottrarsi.

 

Ogni cosa è una performance. Il soggetto è un ruolo, secondo un leitmotiv foucaultiano messo a frutto da Judith Butler nei suoi studi di genere: non esistono caratteristiche soggettive autonome e indipendenti (gay ed etero, maschi e femmine, sé ed Altro), ogni identità è il risultato di un processo di soggettivazione, l’effetto di una prassi reiterata nel tempo. Karen Barad riprende quest’idea, estendendola al di là dell’umano e facendola esplodere in tutte le direzioni. Non esistono entità discrete separate le une dalle altre (siano esse umane, animali, vegetali, o le semplici particelle di cui parla la fisica) che poi interagirebbero tra loro. Prima vi è l’interazione e solo poi vi sono le cose. Ce lo dimostra la meccanica quantistica. Sia nella lettura che oggi ne dà il fisico Carlo Rovelli nel recente Helgoland (Adelphi), sia nell’interpretazione «ortodossa» sostenuta a suo tempo da Niels Bohr, che Barad rilancia su grande scala, unendo micro e macrocosmo entro un unico tessuto in perenne divenire. Ogni particella, ogni essere nell’universo è il risultato di questa incessante tessitura, il frutto precario di un’«intra-attività» performativa.

 

Ma chi è l’autore di tale performance? Ovvero, chi agisce in questo cosmo deantropocentrizzato? Spinoza direbbe: la sostanza quale unica causa reale. L’autrice di Performatività della natura la chiama «materia», delineando con questo termine una geografia peculiare, molto distante dalle aride valli del materialismo tradizionale, più vicina a certe vette spinoziane, seguendo sentieri già solcati da Donna Haraway. L’agency è ovunque, negli umani, negli animali, nelle piante, nelle macchine. È immanente e diffusa. Da qui il nome di «agential realism», con cui Barad ama definire il proprio approccio teorico (gli americani, come sappiamo, hanno un debole per le etichette).

 

Senza titolo, Dalla serie Sfocature, Stampa su carta cotone da scansione a contatto, dimensioni variabili, 2020, courtesy dell'artista Giovanni Ferrario.


D’altronde, chi è l’autore di un’opera d’arte? Nel recente La sintesi spontanea. Complessità e vitalità dell’immagine d’arte (Corraini Edizioni), l’artista ed estetologo Giovanni Ferrario parla dell’opera come di un organismo che è parte di un ecosistema, al pari di un alveare o di una pianta. Ne è un esempio paradigmatico la pittura aborigena su roccia, risalente a quarantamila anni fa e giunta sino a noi grazie a batteri e funghi, una sorta di biofilm composto da microrganismi pigmentati che nel corso dei millenni si è sovrapposto e sostituito alla pittura originaria. L’opera è una parte della natura, scrive Ferrario, «il momentaneo risultato di un progetto integrato nell’ambiente che l’accoglie». Ma l’autore di tale progetto non è l’artista più di quanto ne siano le circostanze storiche o naturali da cui emerge. L’opera, direbbe Barad, è un effetto della performatività della materia.

Un approccio non dissimile si registra ultimamente nei media studies, dove la distinzione tra medium e messaggio, sintassi e semantica, performer e senso della performance sfuma a favore di un unico tessuto che è al tempo stesso reale, simbolico e immaginario (come scrive Pietro Bianchi su Doppiozero, a proposito del cinema: oggi tanto lo sguardo quanto le immagini sono ovunque, indistinguibili dalla realtà). Difficile dire dove stia lo sguardo e dove l’immagine, dove collocare il soggetto e dove l’oggetto, la rappresentazione e il rappresentato, essendo questi il precipitato di un flusso in divenire o – come direbbe la filosofa americana – configurazioni momentanee della materia nella sua incessante azione performativa.

 

Se in Barad la nozione di performance assume un ruolo cruciale nel contestare il paradigma della rappresentazione, in Viveiros De Castro troviamo, nella stessa funzione, il concetto di metamorfosi. Anch’esso indica una sorta di virtualità immanente a partire dalla quale si delineano concreti punti di s/oggettivazione. Nelle lezioni tenute a Cambridge l’antropologo illustra come nel prospettivismo amerindio soggetto e oggetto, cacciatore e preda, siano ruoli, ossia posizioni prospettiche in cui ciascun essere (uomo, animale o spirito) può venirsi a trovare. Solo gli sciamani hanno la possibilità di accedere a quella dimensione virtuale che permette loro di mutare posizione. Essi non si travestono da animali al fine di rappresentarli (come direbbe e penserebbe un occidentale). Quando indossa maschere o pelli animali lo sciamano non concepisce il proprio atto come una rappresentazione, ma come una vera e propria metamorfosi. Si tratta di performare il pesce o l’uccello, trasformarsi in essi, assumerne l’identità, occuparne il ruolo. Vi è anche qui, come in Barad, un divenire potenziale che precede le sue coagulazioni prospettiche, una queerness originaria di cui le identità definite sono un precipitato e di cui gli sciamani sono i trasvolatori. 

 

Nel mondo amerindio, come nel cosmo di Barad, non vi è metalinguaggio: non c’è modo di collocarsi al di sopra delle prospettive, o delle «intra-azioni», non c’è occhio divino capace di vedere le cose da fuori né vi è un punto di vista privilegiato. Dunque non vi sono gerarchie, solo trasformazioni orizzontali, un democratico tradursi di ogni cosa in un’altra entro un infinito spazio topologico. Ogni sguardo sul mondo ne è una piega. Di nuovo, ogni ontologia è politica. E quella di Barad e Viveiros De Castro è senza dubbio un’ontologia queer: instabile, inquieta, metamorfica. Anche l’antropologo brasiliano si appella alla fisica quantistica nelle ultime righe con cui congeda il suo Prospettivismo cosmologico. Quasi a indicare un paradigma che entrambi gli autori ritengono ormai comune a diverse discipline, al di là degli steccati tra scienze umane e naturali. Qualcosa come una «scienza nomade» – per ricorrere a una fortunata espressione di Deleuze e Guattari – si profila all’orizzonte.

 

Tutte le immagini sono di Giovanni Ferrario

 

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