Per Pino Spagnulo / Col fuoco in mano a scolpire lo spazio della notte

3 Febbraio 2017

In questo luogo, antro e caverna, quasi tempio,

(che c’è anche per la luce di Clara, grandissima donna),

si addensa un cammino di forza e potenza

dentro quella strana arte che è la scultura:

 

a lei, una volta, era delegato di incarnare gli dei

nell’argilla, nel legno, nella pietra, nel ferro:

o di creare immagini capaci di tenere in vita

i re, le regine, gli amanti, al tempo dei miti:

ma oggi, tempo senza miti, chi è la scultura?

 

Dice Pino:

 

“Quando mi domandano: fai l’artista?

No, rispondo, faccio lo scultore, è diverso.

Fare scultura sembra un mestiere idiota, oggi. 

Se vuoi farla devi trovare una buona ragione. 

La mia ragione è dare una nuova vitalità alla scultura.”

 

Caro Pino,

in questa tua officina della scultura

della scultura nuovamente viva

in cerca della ragione di se stessa

ascoltiamo i nomi che le hai dato:

 

La foresta d'acciaio (monumento ai caduti di Nassiriya), 2008, acciaio forgiato (19 pezzi), misure ambientali, Parco Schuster, Roma.

 

porta

respiro

cerchio

volo di un piccione viaggiatore

cubo in cubo

gioco

libro

muro

ferro spezzato 

manimani sole nero

carro di fuoco

turris

triangolo

scogliere

la grande ruota

orizzontale-verticale

prigione

testa (autoritratto) 

guerriero

l’ombra di Napoli

pozzo dei desideri

triangolo rotto

linea

rose

rapporto

elmo

tancredi

falce e martello (per Angela Davis)

ascesa diagonale

la grande montagna nera

amadigi

nero

black panther

la grande bandiera

piano spezzato

dafne

ali di fuoco

questa parola pronunciata sfiora davvicino la morte

pala

voce

labbra

passione

autoritratto

la grande ruota

rosa dei venti

il blu del cielo e del mare

croce

altare

la geometria distrutta

paesaggi

panorama scheletrico del mondo

il resto del tempo è sempre lo stesso silenzio di morte

antigone

le armi di Achille

minotauro

disco

archeologia

Londonderry

ritratto della follia

lavoro elementare

l’albero degli impiccati

tondo (autoritratto)

omaggio a Brancusi

quadrato profondo e fuga dalla morte

diagonale-verticale

il ritratto della fierezza

le porte di Bagdad

Baalbeck

campo sospeso

ritratto della mia diletta

erotico

i volti del dio Pan

la foresta d’acciaio

nerofumo

mortanatura

albero

le mie rose le tue rose

colpito a morte

sole rosso sole nero

vecchio uomo cieco che guarda il mare

cantico

infinito

 

Rosa dei venti, 2008, acciaio forgiato, cm 180 x 180 x 150.

 

ho incontrato Pino Spagnulo intorno al 1960 – tramite Claudio Olivieri – 

nello studio antro che aveva insieme a Nanni Valentini – 

ai tempi del legno (“col legno ho affrontato la prima volta il problema dello spazio”)

e dei lavori con l’argilla e il tornio –

 

c’era povertà, freddo: 

un giorno d’inverno Pino ha tirato fuori le friselle, le ha bagnate sotto il rubinetto – 

ha versato olio e origano – le mangiavo per la prima volta – 

eravamo Olivieri, Valentini, Schiavocampo, io:

mi colpì come Pino teneva in mano le friselle: 

ma guarda, ho pensato, in mano sua sono subito sculture, come le bagna, le spezza:

 

cosa c’era allora alle spalle di un giovane che a tutti i costi voleva fare lo scultore?

Fontana, Brancusi, Arturo Martini?

 

Martini, il più grande scultore italiano del 900, 

dopo la catastrofe del fascismo (era stato fascista) 

aveva scritto un testo radicale, 

Scultura lingua morta:

dove dice che non era più possibile fare statue, sculture: 

ecco il lascito di Martini, 1945:

 

“Il Tempio non è la Fede, la statua non può essere l’essenza della scultura. Oggi gli scultori non sono dei creatori, bensì dei semplici fedeli che non sanno ritrovare una speranza e non sanno pregare se non dinanzi a una immagine o a una chiesa.” (Il trucco di Mich., pag. 67)

 

“Se a qualche giovane immacolato balenerà la speranza di una rinascita , lascio, suggeriti in solitudine dalla scultura, questi comandamenti.

 

Fa che io serva solo a me stessa.

Fa di me un arco dello spirito.

Fa che io non sia più rupe, ma acqua e cielo.

Fa che io non sia piramide, ma clessidra per essere capovolta.

Fa che io non sia un oggetto, ma un’estensione.

Fa che io non sia un confronto, ma un’unità.

Fa che io non sia un’immagine, così non mi esalteranno.

Fa che io non sia una pietra miliare dell’uomo, ma della mia natura.

Fa che io non sia un vistosa virtù, ma un oscuro grembo.

Fa che io non sia un peso, ma una bilancia.

Fa che io non serva come una moneta per comodità pratiche.

Fa che io non resti nelle tre dimensioni, dove si nasconde la morte.

Fa che io non sia prigioniera di uno stile, ma una disinvolta sostanza.

Fa che io sia l’insondabile architettura per raggiungere l’universale.”

 

Proprio da qui mi sembra abbia voluto partire, 

ri-partire Spagnulo – 

radicalmente: verso la scultura ancora possibile: 

chissà quanto discutendone con Nanni Valentini, 

fra terra, acqua, aria e fuoco

 

partire da dentro la materia – dalla sostanza della scultura,

dal legno che esplora lo spazio,

dal peso dell’argilla e da quello, immane, del ferro –

dalle spaccature – spezzature – piegature – saldature – 

cavando segnali dalla materia

e dal pensiero della materia, dal suo concetto:

 

fare segni:

verso dove?

verso dove fanno segni le stelle, e le galassie, bruciando?

 

Sole rosso, 2013, terracotta ingubbiata, cm 183 x 175 x 25.

 

Dice Pino:

 

“a me interessava la memoria della scultura”:

 

Quale memoria?

 

“ c’era mio padre che aveva la bottega e quella è stata una base fantastica che ti dà l’idea di questo lavoro, per cominciare; un’attività che ha un senso cosmico, per cominciare…” 

 

“il mito è mio padre che tirava su questi vasi di quattro quintali, e vedevo queste mani che strizzavano l’argilla…”

 

E ancora:

 

“la forza mi viene da questa memoria di vedere un grande forno che respira come un grande animale, quel senso del respiro, del fuoco, e questa immagine del fuoco mi è sempre rimasta nel sangue…”

 

la fiamma, il dio che guida la mano dei fabbri, ha scritto Bruno Corà:

 

terra

legno

ferro

acciaio 

cemento

ossido di ferro 

manganese

vetro

bronzo

sabbia vulcanica

fuoco

 

cuocere

tagliare col fuoco

spezzare

 

con crudeltà, spietatamente:

 

Dice Pino:

 

“amo cambiare la realtà:

la realtà si fa mentre la si pensa

e non la si dice:”

 

E ancora:

 

“la scultura non è un lavoro 

è una maledizione 

è assurda pesa si rompe trasportarla in giro è così faticoso

 

Paesaggi, 1974-2012, cemento, vetro, ferro, ossido di ferro, cm 300 x 300.

 

solo uomini disumani sadici masochisti titani possono farla

 

adoro la gente che ha mani candide e affusolate come meravigliosi strumenti musicali le mie sono grandi come mattoni

 

una lotta per la sopravvivenza

l’argilla si accascia

il ferro è troppo rigido

la pietra puzza di morte

 

vedo sempre teste appese agli alberi

 

il saraceno come il fulmine cala la sua scimitarra sul cristiano nel punto dove la testa si attacca al corpo la testa rotola nella polvere il saraceno prende la sua lancia infilza la testa e ritorna al suo campo col trionfante trofeo”

 

Ma cosa hai scritto, Pino:

sei matto?

E insisti, dici ancora:

“la mano si abbatte sulla creta molle 

tutti i vicini scappano via imbrattati 

ancora un cristiano di meno” 

 

“imbottirsi di odio e abbracciare il proprio nemico e saltare insieme a lui”

(note per la mostra For those trees are Elysium, 1986)

 

Caro Pino, 

eri matto quando scrivevi questo, nel 1986?

Matto sì, ma vero, te stesso, vero come la creta molle, come un blocco di ferro.

Come il fuoco.

Allora provo a interpretarti così:

che la violenza che ci abita, che abita l’uomo, 

tu la scaricavi nelle azioni del fare sculture:

tutta la violenza che abbiamo: e te ne liberavi.

 

Poi ancora hai detto:

 

“quando taglio un cerchio penso a Sade”:

 

Allora ti domando: per te il fuoco è amante assassino, tagliateste sadico? 

So che rispondi sì, ma aggiungi che è anche un dio che affonda carezze erotiche in sculture frutto di eros, e d’amore – l’ha ben scritto Tommaso Trini:

un lavorìo d’amore là nella fabbrica del fuoco, la fucina:

 

“Per me lo spazio del lavoro è la fabbrica, un luogo di idee, 

dove il fuoco e la fiamma producono le idee di come trattare, fare il lavoro”:

un luogo dove si forma il cantico della materia.

 

E la teoria?

la teoria viene dopo: prima c’è la materia:

c’è la lotta, antica, arcaica e moderna, con la materia:

con fatica, forza, potenza, violenza oscura:

 

 

forza e potenza, kratos kai bia: 

così comincia il Prometeo di Eschilo, 

gran teatro di Efesto il fabbro incatenatore

e del rubatore della fiamma fiore della luce,

scultore con la creta del primo uomo,

affascinato dal fuoco e dagli dei,

così umano, così punito:

 

scolpire col fuoco, tagliare, penetrare nel ferro,

aprire fessure, fecondare il ferro,

con l’amore del fuoco illuminare il corpo del ferro,

con la fiamma/mente del dio fuoco:

fuoco veggente, fuoco tagliatore, verso dove?

 

Dice Pino:

 

“spesso l’opera più interessante è l’ultima: 

nella maturità l’artista assume un coraggio che nella sua giovinezza non ha:

un artista campa fin che ha concluso: non c’è mai un artista che è incompiuto”

 

è proprio così, caro Pino:

c’è un dialogo, un duello,

sempre in atto, sempre perduto:

ogni uomo nasce e vive

per compiere il combattimento,

concluderlo e vincere perdendo:

il contributo d’ognuno alla vita

è l’inesorabile combattimento:

 

Pino ha scritto, come sapete,

poco prima di prendere assenza,

non voglio morire:

 

NON VOGLIO MORIRE.

 

Pino, c’è dio?

 

“non sono credente, ma penso che c’è un dio nell’uomo – 

ma nell’uomo – 

nel suo spirito – 

ed è quello che porta ad immaginare la bellezza…

se non ci fosse questo senso religioso, 

che ti pone in rapporto coi miti, 

con la tua origine nel mito…”

 

Nel mito.

Nel corpo complesso, paterno, oscuro, luminoso, tremendo 

del mito.

 

Molti anni fa, nel 1971,

chiesi a Pino di farmi la scena per lo spettacolo 

Scontri generali: per la Biennale di Venezia:

tutto si svolgeva su un ring, che a un certo punto, 

dato che tutto diventava catastrofe, la catastrofe degli scontri generali della sinistra, 

si trasformava in zattera, 

barca su cui navigare nel mare degli oggetti (i rottami) della nostra civiltà:

 

Pino progettò un capolavoro, 

un ring astratto 

che gli attori smontavano e trasformavano in zattera barca:

una barca per arrivare remando all’isola di utopia,

utopia che poi, vista da vicino, era solo macerie, disastro:

 

ma i naviganti riprendevano a vogare, 

verso un qualche luogo di speranza, con speranza:

 

mi pare di vederlo Pino sulla sua, e nostra, zattera,

col fuoco in mano

a scolpire lo spazio della notte:

 

buon viaggio dunque scultore, amico:

insieme a noi.

 

Orazione detta per Pino Spagnulo, 29 giugno 2016, nello studio di Gaggiano.

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