Sta consumando il pasto seduto per terra, lo sguardo chino sul piatto, il filone di pane appoggiato di fianco su un ripiano di legno. La foto scattata da Odoardo Fontanella è degli anni Cinquanta e ritrae il pranzo di mezzogiorno di un operaio, o più facilmente un muratore (la tuta è sporca di bianco, forse calcina). Con questa immagine si apre il libro che illustra una recente mostra, Pausa pranzo. Cibo e lavoro nelle fabbriche, tenutasi a Sesto San Giovanni e organizzata da ISEC, l’istituto per lo studio della storia contemporanea. In una serie di scatti provenienti da vari archivi aziendali è raccontata la storia delle mense italiane. Ci sono immagini della mensa operaia della Breda tra gli anni Venti e Trenta, la prima azienda ad aver realizzato un servizio del genere, ma anche istantanee dei tavoli su cui i lavoratori consumano il loro pasto a Dalmine negli anni Quaranta: spezzatino, pane e bottiglia di vino. L’istituzione del refettorio – questo il nome iniziale di origine monastica, indica il luogo in cui ci si “ristora” – è piuttosto recente. Sono i primi decenni del Novecento quando l’aumento dei ritmi lavorativi, subito dopo la Prima guerra mondiale che ha portato alla “mobilitazione totale” dell’industria, produce la riduzione progressiva della sosta del pranzo a mezzogiorno. Si razionalizzano le consuetudini alimentari d’origine contadina che comprendevano soste più lunghe a seconda delle stagioni o del lavoro all’aperto. Il sistema americano sperimentato nelle fabbriche della Ford viene esportato nella Vecchia Europa; i ritmi tayloristici impongono un lunch breve e semplificato rispetto alla alimentazione contadina fondata sulle minestre e le verdure. In Italia per ancora un paio di decenni, o forse più, l’operaio delle grandi fabbriche sarà l’erede degli usi della società tradizionale, dove le pause per nutrirsi e il riposo dopo il pasto erano consueti e necessari. Nel regime alimentare americano domina invece una robusta colazione mattutina che supplisce al pasto di mezzodì più rapido e meno impegnativo. Ma prima di arrivare alle mense, documentate nel piccolo catalogo da straordinarie foto d’epoca, c’è la gamella, di memoria militare o, come si chiama in Lombardia, la schiscêtta: contenitore metallico dove il cibo preparato a casa dalle donne è “schiacciato”. In un’altra foto si vedono gli operai di un’azienda di Treviso in lotta per ottenere la mensa, che nel 1977 mangiano su un tavolo all’aperto con gamelle, bottiglioni di vino, Coca-Cola e tovaglie. Il pane è l’alimento più presente, sino al giro di boa degli anni Ottanta, in una continuità alimentare che Piero Camporesi ha descritto in La terra e la luna (Garzanti). Secondo lo studioso romagnolo lo stesso self service deriverebbe dalla fabbrica, e dalla invenzione delle mense aziendali, almeno in Italia. Nascono allora i cibi precotti figli della struttura industriale: riscaldati, refrigerati o surgelati. Appaiono negli anni Settanta le vaschette di plastica e alluminio, confezioni di polistirolo, contro cui si scaglia Camporesi, che portano alla scomparsa del paese del pane e del vino, l’Italia divisa tra polenta e spaghetti, a favore invece di una cucina della “leggerezza” che ha nelle mozzarelle confezionate nella plastica il suo tripudio. La maggior parte delle immagini di questa mostra, a cura di Giorgio Bigatti e Sara Zanisi, riguardano il periodo precedente, quando ancora l’Italia è il “paese della fame”, per dirla con lo studioso romagnolo, uscito da una guerra disastrosa e deciso a guadagnare rapidamente il progresso delle altre nazioni europee. La grande trasformazione alle porte è documentata nell’immagine del refettorio Fiat a Mirafiori e dallo stabilimento Pirelli-Bicocca, con l’interno della modernissima mensa progettata da Giulio Minoletti nel 1957, purtroppo demolita per far posto a una nuova struttura postmoderna, la stecca di Vittorio Gregotti, entro cui si muove oggi la popolazione studentesca della Università, erede non solo virtuale di quei ritmi di vita e di alimentazione: l’epoca del panino. Un altro scatto ritrae la mensa degli impiegati, sempre al Lingotto, nel 1927, con tovaglie, posate, piatti, saliere e oliere, sopra tavoli lunghissimi e ben allineati che coprono l’intera superficie del capannone. La divisione tra colletti bianchi e colletti blu, tra impiegati e operai, è netta. Andrà smarrendosi man mano che si entra negli anni Ottanta del XX secolo, quando i processi di deindustrializzazione modificheranno anche le mense operaie con l’introduzione dei coupon che verranno spesi in tavole calde, tavole fredde, piccoli ristoranti e bar nei pressi dell’azienda. L’Italia si fonda sul terziario avanzato e il popolo delle mezze maniche domina nelle fabbriche sopravissute. Sarà allora la volta di un nuovo elettrodomestico che modellerà di sé i pasti dei lavoratori scampati alla delocalizzazione e alle trasformazioni tecnologiche degli anni Novanta e Duemila: il forno a microonde. Inventato alla fine degli anni Quaranta negli Stati Uniti verrà introdotto in Italia tardi, e il passaggio dal pasto comune al pasto solitario davanti al microonde segnerà di sé la nuova epoca. L’età del nascente narcisismo di massa descritto da Christopher Lasch è definita da questo nuovo strumento. Ciascuno è solo davanti al forno microonde, ed è subito sera.
