Un bizzarro funerale

28 Maggio 2016

“Zechenah Jolanda Aschenazi Valabrega”, ripeteva il Rabbino. La cantilena ebraica lo vincolava a chiamare più volte per nome e cognome, da nubile e maritata, la zia che veniva sepolta. Ma, prima di invocare, con raccapriccio, il nome proprio, s’interrompeva e alzava il mento per rivolgere la barba rosso-iraconda a me, proprio a me, come se fossi io il colpevole: Yoh-lan-dah suona infatti assai male in ebraico. Lui non era in grado di connettere quella cacofonia alla… Figlia del Corsaro Nero, figuriamoci poi alla principessa degli esotici Savoia, la nostra indimenticabile casa regnante alla quale mio nonno, uomo del Risorgimento, era stato fedele, ma era morto nel 1934, prima che diventasse così famigerata.

Il Rabbino comunque, dopo aver qualificato la zia “zechenah”, cioè vecchia – e su questo aveva ragione perché se n’era andata a novantadue anni e la morte in vecchiaia costituisce un merito per il giudaismo, un grande merito, tipo “valoroso caduto per la Patria” – mi si rivolgeva con un ringhio. E io allargavo le braccia sconsolato: “No, il nonno un secondo nome ebraico non lo diede a nessuno dei suoi dieci bambini, non era ancora in uso all’epoca del sogno dell’assimilazione”. 

 

Nel mattino assolato e caldo, nella mesta e dolce tarda primavera della mia Torino del 2000, il Rabbino si era messo addosso un pesante soprabito a scacchi da detective inglese, alla Sherlock Holmes.

Il corteo funebre era composto dai figli della zia, dai vecchi nipoti e dai figli dei nipoti, quasi vecchi anche loro. Una piccola folla, sì, perché dieci erano stati i figli del nonno cent’anni prima. Una quarantina di nomi dunque, a occhio e croce, stretti attorno alla piccolissima bara.

L’ira che il Rabbino non si preoccupava di contenere dipendeva però anche dal corteo funebre: alcuni erano ebrei – quasi certamente – ma la maggior parte no di certo. Quello, in sostanza, era un branco misto e assai poco affidabile: lo capiva, se ne rammaricava e sospettava.

Le papaline che quasi tutti calcavano sui crani calvi o canuti però lo confondevano, e per questo gli mancava il coraggio di andare in giro a chiedere a ognuno: “Scusi, lei per caso sarebbe ebreo?” perfino a quelli che, senza papalina, portavano sul capo un fazzoletto da naso con i nodini agli angoli. Noi israeliti dobbiamo essere nelle funzioni almeno dieci maschi, adulti e in regola con la circoncisione. Almeno dieci per recitare il kaddish, l’indispensabile preghiera dei defunti, quella protesta contro la morte che forse garantisce il passaporto per la rinascita alla fine dei tempi. 

Il suo dramma era doppio. Il primo problema era Isacchino, il suo infido assistente. Quello lì, lo sanno tutti che più che un rabbino era un prete perché malato fin dall’infanzia di carità mezzo cristiana. Quel “prete”, pensava il Rabbino, nella sua frenesia circoncideva virtualmente sul campo i maschi presenti purché a capo coperto, e anzi, forse, qualche papalina l’aveva distribuita proprio lui, di soppiatto. Kippah, non papalina. 

 

Però il Rabbino torto del tutto non aveva. Uno tra i più giovani, un pronipote, era vestito con un body nero attillato che non nascondeva muscoli da Mister America, mentre la kippah si appoggiava oscillante ai capelli a ciuffo, irti in cima al cranio rasato a formare una cresta biondobrunastra. Era anche un po’ trafitto da “piercing” idolatrici, solo alle orecchie però, da quel che si vedeva, perforate appunto da sei orecchini su ambedue i padiglioni, più un grappolo a catenina che pendeva dai lobi. Perfino Isacchino nutriva qualche dubbio sull’ebraicità di quel vecchio ragazzo. Seri dubbi, ma voleva che comunque venisse recitato il kaddish; ci teneva proprio, disposto, al limite, a chiudere un occhio anche di fronte al punk coi piercing. Invece il Rabbino Capo titubava, sospettava malafede, e ne contava comunque nove al massimo, di maschi validi presenti. 

 

Nove più uno, Ugo, che sarebbe stato il decimo, se solo avesse potuto azzardarsi a metter piede dentro il cimitero. Ma non poteva. Era anzi sufficiente che uno di noi dicesse: “C’è anche Ugo che fa dieci” perché il Rabbino interrompesse le preghiere, per gridare: “No, lui no! Lui non può entrare! Fuori di qui!”. E si guardava attorno, con gli occhiacci ittiti, temendo di vederselo lì, accanto al feretro, alla fossa appena scavata con la terra accumulata vicino al bordo. Ugo, poverino, se ne stava invece cheto e disciplinato fuori dal recinto, sogguardando dal cancello con faccia mansueta, un po’ annoiato e anche, come sempre, vergognoso della sua esclusione. 

Vergognoso, no, non avrebbe proprio dovuto esserlo Ugo, perché il suo cognome, in ebraico, è quello della casta superiore e immacolata, i Cohen, che esercitava cerimonie sacrificali e lustrali fino al 70 e. v., fino al giorno dell’incendio dell’alto Tempio di Gerusalemme. Avendo quella tribù un po’ braminica, se mi si passa il termine, presieduto a compiti rituali sacri – interrotti solo per causa di forza maggiore negli ultimi 1900 e passa anni di dopoguerra judaica – nessuno dei Cohanim può avvicinarsi mai, dico mai, alla terribile impurità della morte… Ho inviato questo racconto a numerosi Saggi per non incorrere in errori.

 

Ho ricevuto questa preziosa e-mail da rav Frank Johan Drawings dell’Università ebraica di Dillingham, Alaska (USA): Non è vero che i Cohanim non possono “avvicinarsi mai, dico, mai” ai morti. Possono farlo (e quindi andare al cimitero) per il funerale dei parenti stretti (primo grado). E possono farlo anche nel caso del cosiddetto “met mitzvà”, ossia un defunto che non abbia nessuno che se ne occupi: in questo caso, anche il Cohen ha il dovere di occuparsi della sua sepoltura, pure se il morto è a lui del tutto estraneo. Il rispetto per l’estinto ha infatti la prevalenza”. Si vedrà che della zia Jolanda, da un certo punto in poi, non si occupava più nessuno. E allora, nel nostro caso, Ugo sarebbe, o no, potuto entrare al cimitero, dico io nel mio piccolo? 

 

 

 

L’altro triplice corno del dramma, peggiore di Isacchino, era una sorta di cerimonia privata che il Rabbino vedeva ma non comprendeva e perciò se ne allarmava. S’era formata una coda ordinata di persone che si rivolgevano una a una a Sergino, il figlio minore della zia, per farsi raccontare che cosa era avvenuto nelle ultime ore, brevi, dell’agonia. Sembra che la vecchietta fosse finita catturata da un bellissimo sogno, dovuto al vacillare della vita, ma bellissimo sul serio ugualmente, una specie di sogno che lei aveva rivissuto col figlio mentre lui la stava vegliando. E lui ne faceva adesso, lì al cimitero, puntuale, commossa e stupita relazione a noi in fila per ricevere questa strana “comunione”.

Era cominciato male quel deliquio, stava raccontando Sergio. Dapprima la zia era stata angosciata a lungo dal pianto sconsolato di chissà quale bambino fantasma, poi aveva visto irrompere gli agenti d’ordinanza della morte, le SS e la Gestapo, e aveva sussurrato al figlio, tirandolo a sé per il bavero: “Scappa, scappa, sono di là nel salotto, sono tornati”. Ma poi per fortuna, i fantasmi del passato brutto erano svaniti, anche il bambino s’era chetato, e il delirio si era girato ai fantasmi del passato bello. 

La zia dunque, in quell’ultimo giorno di sua vita, aveva gioito di una grande festa in villa con i nove fratelli morti tornati giovani, e ne aveva riferito al figlio ingiungendogli più e più volte che poi ce la venisse a raccontare. 

 

Zio Guido, diceva, “il più sensibile e fragile”, era arrivato, per la festa nel salone elegante della villa, stazzonato e anche con la necessità urgente di una bella doccia, perché, per una serie di inconvenienti, nel lungo viaggio per arrivare in tempo alla festicciola di famiglia, sembra avesse dovuto dormire sotto i ponti e in qualche fienile. Per forza, dico io, dato che il povero zio dall’Australia arrivava: dall’Australia, da Sydney (New South Wales), dove morì nel 1942. O nel 1943.

 

Toccava a me, l’ultimo della fila: “E la mia mamma? Cos’ha detto? Cos’ha fatto, dopo trent’anni d’assenza a causa della sua, di morte? Che età aveva alla festa?”. 

“Su di lei non mi ha raccontato un granché. Però adesso che ci penso...”

Il sogno narrato si interruppe qui, perché intanto era accaduto qualcosa di sgradevole che, in pratica, sospendeva anche la cerimonia religiosa.

 

Qualcuno, il cui nome conosco ma non riferirò, perché perfino l’imprudenza, l’impudenza e la dabbenaggine debbono essere protette in quest’epoca di dilagante ortodossia e malafede, aveva sussurrato al Rabbino titubante e nervoso, ma non ancora del tutto incontrollabile, gli aveva sibilato all’orecchio: “Guardi che sul mucchio di terra della tomba c’è un osso. Un osso umano”. In quel momento l’officiante era impegnato a sistemare il figlio maggiore della zia, al quale stava stracciando, com’è uso nei lutti ebraici, la camicia. Siccome però Guidino, il fratello maggiore di Sergino, non era praticante e non se ne intendeva per niente di primogeniture e conseguenti riti, aveva indossato, purtroppo, una camicia nuova comprata apposta, che così veniva lacerata, ziiip-strap, sotto i suoi occhi sbalorditi di non credente sprovveduto. “Allora egli si stracciò le vesti e si ricoperse il capo di cenere…” sta scritto un mucchio di volte nella Bibbia: è una fortuna che la cenere non sia rimasta nei riti ebraici, ma sia stata regalata ai cattolici per il loro apposito Mercoledì. Comunque il primogenito se ne stava lì, sotto il sole, a chiedersi quale disgrazia poteva ancora accadergli al funerale di sua mamma.

 

Ho poi appurato quell’osso trattarsi del frammento del bacino di un qualche defunto ignoto, morto molti anni prima, che nel rimescolio dei cimiteri era emerso finalmente alla luce del sole di primavera, dopo chissà quanto tempo e quali umidi viaggi sotterranei. Bastava un velo di terra in più, santocielo!, e quel dissennato di spione, che il suo nome mai venga pronunciato se non fra stretti congiunti, non avrebbe visto né sussurrato alcunché. E invece l’infame sussurrò.

Il Rabbino, che per la sua miopia non avrebbe mai potuto percepire da solo quei resti estranei, immondi ma minimi, si buttò ginocchioni e a faccia in giù come un musulmano, raspollando fra il terriccio. Il pantano subalpino era stato trasformato dall’effetto serra, dicevano quell’anno, nel polverume desertico della Valle detta di Giosafat (noi la chiamiamo Valle del Kedròn per via di un torrentaccio secco che dovrebbe sfociare, se potesse, nel Mar Morto, che si chiama Morto proprio per la scarsità di affluenti, ove si escluda un rinomato fiumiciattolo, il Giordano, che ora muore anch’esso per lo più nei rubinetti di Tel Aviv: bei posti comunque, ma piuttosto inquietanti), il luogo della resurrezione dei morti, quando i popoli, e perciò anche il possessore dell’anca smozzicata e spersa, si riaffacceranno in una vera primavera, senza reumi quella volta lì, a godere assieme i mille anni sereni del Regno promesso, anzi giurato più volte, in più capitoli del Pentateuco, dei Profeti, soprattutto Isaia, e di molti che non so più.

 

L’officiante, che finalmente capivamo perché si era messo per istinto fuori stagione il soprabito da investigatore dilettante, si alzò dritto e, tenendo fra il pollice e l’indice l’osso, sibilò, rivolto ai becchini atterriti: “E questo che cos’è?”.

Io nel frattempo ignoravo questo incidente perché continuavo a insistere per sapere della mia mamma giovanetta alla festa. Sergio però aveva interrotto la sua narrazione, anche lui in attesa degli sviluppi del nuovo scandalo. Speravamo che la faccenda si chiudesse al più presto, e ricominciassero le incomprensibili preghiere in ebraico, poiché dapprima i becchini rispondevano ognuno: “Mi sai nen”, non so nulla, in piemontese omertoso. Poi tentavano disperatamente di chiudere l’incidente: “Si tratta, reverendo-detective, di un osso di pollo o di qualche altra bestiola”; “Signor Sherlock, anzi, scusi, reverendo Holmes, per me quello lì è un sasso, strano, ma è un sasso”.

Alcuni anni dopo ci fu uno scandalo tanto grave da far vacillare perfino la Giunta Comunale di Torino: le riesumazioni del cimitero cattolico venivano affidate in appalto a una ditta truffaldina che usava i bulldozer, e gli ossi rimestati erano consegnati a casaccio ai parenti affranti: ognuno dei quali aveva, nella propria cassetta, un pezzo di ragioniere di Orbassano mescolato a una casalinga di Poirino, con l’aggiunta di un ladro d’auto morto prematuramente. L’osso del racconto veniva quindi con qualche probabilità da quel rimescolio fraudolento. Malafede e ortodossia questa volta stavano per fronteggiarsi l’una con l’altra, aspramente, con santa ragione dell’ortodossia! Gli ebrei non riesumano le salme per via, sempre, della resurrezione nella Valle del Kedròn.

 

 

 

Qualche speranza che la funzione riprendesse c’era ancora, per la verità, ma posava ormai sulle gracili spalle del povero Isacchino, che, nell’ansia di recitare il kaddish, aveva raccolto sulla tomba, con la bara già affossata, i due anziani orfani; Guido si guardava sbalordito e indignato la camicia nuova stracciata e cercava con ostinazione nevrotica di rabberciarla con le dita. Per quanto il Rabbino proseguisse nella sua indagine sull’osso, non si astraeva però dalle altre sue competenze e, oltre ad avere interrotto, lui, il suo proprio ufficio, sempre con l’osso in mano, smettendo per un attimo di imperversare sui becchini, interrompeva anche i riti di Isacchino strillandogli: “Il tuo kaddish è abusivo, perché siamo in nove, manca Ugo che farebbe dieci, ma deve stare fuori dal cancello. Smetti subito”. 

Nell’istante in cui Isacchino sospendeva a malincuore la sua preghiera illecita, il Rabbino riprecipitava nella sua indagine con sempre maggior veemenza, tanto che si era dovuto chiamare il capo becchino, visto il peggiorare della situazione.

 

Non è da escludere che in quel momento la zia, giù nella fossa mezza coperta e mezza no, si sia risvegliata dal sogno e abbia cominciato a ridacchiare. Sono contento che le sia tornato il buonumore, un po’ per il suo sogno della festa, ma soprattutto per il susseguirsi degli incidenti che interrompevano così di frequente il suo curioso funerale. Lei, ebrea nonostante il nome, era però atea e non osservante nel modo di una volta. La zia, da viva, era infatti seguace del Voltaire, non di Maimonide, che anzi forse neppure conosceva se non di nome e da morta si schierava decisamente dalla parte di Guido che continuava a rimpiangere la sua camicia stracciata.

Aveva torto la zia Jolanda dal fondo della fossa, a irridere con il suo abituale scherno razionale, ma era difficile trattenersi dall’ilarità anche per noi, perché nel frattempo il capo-becchino fronteggiava impavido il Rabbino infuriato con giustificazioni penose: “E la terra?” inquisiva il Rabbino indicando il mucchio: “Quella? Quella viene dal Vivaio”, rispondeva lui con la sicumera ebete dei truffatori.

 

Anche Isacchino aveva interrotto le sue preghiere per tentare di spostare la faccenda dalla tremenda e inappellabile legge ebraica a più banali e burocratiche clausole contrattuali torinesi. Anche lui si rivolgeva al capo becchino, simulando un’indignazione che non provava: “Questa è una violazione della Convenzione, una violazione bella e buona! Comunque per oggi smettiamola qui, smettiamola. Ma sarà poi necessario un incontro con la Direzione.” gridava con voce acuta, “smettiamola qui, per ora”. 

E, mentre lui rifarfugliava il kaddish, veniva stroncato dall’urlo roboante del Rabbino mesopotamico: “Ma quale Convenzione e Convenzione, quale smettiamola qui, vieni via subito anche tu”. Il quale Rabbino intanto si cacciava nell’ampio tascone del pastrano l’osso, mentre, oramai fuori di testa, correva a gambe levate verso l’uscita inseguito dai becchini in camisaccio blu e dal capo-becchino in doppio petto grigio, che minacciava: “Non lo faccia, non lo faccia, se asporta il frammento cadaveriale chiamo subito i carabinieri”. Il Rabbino, sordo a queste ingiunzioni, anziché rallentare, guadagnava con un balzo il cancello dell’uscita, con l’osso in tasca, una mano sul cappello perché non cadesse e le falde del soprabito che svolazzavano, e correva verso il viale ove bivaccava, oramai sconsolato, Ugo, al quale, incrociandolo, si rivolgeva fulmineamente fra una falcata e l’altra: “Tu non ti muovere, non ti muovere di lì, sei il decimo, il kaddish magari lo diciamo poi qui fuori sul viale. Non entrare”. Ma, raggiunta l’auto posteggiata davanti all’ingresso, si accorgeva, ahimè, che alla Ford Fiesta 1977 non si apriva né l’uno né l’altro sportello. E per forza, dato che l’automobile non era sua ma di Isacchino, il quale, invece di accorrere come avrebbe dovuto, si attardava con il corteo dei cugini dando a ognuno un bacio per guancia, cioè tanti quanti bastavano alla squadra di becchini indispettiti per raggiungere la garitta e chiamare il 113, nel mentre che il Rabbino correva di nuovo all’ingresso del cimitero per gridare a Isacchino di mollarla coi bacetti e aprirgli l’auto. 

 

Il Rabbino non pensava certo in quel momento a banalità come sanzioni penali, “puah!”, e, men che meno, a inadempienze contrattuali, “puah!”. Lui, certamente o probabilmente, rifletteva angosciato: “Cosa farò dell’osso nel giorno del Giudizio?”. Nella valle di Giosafat miliardi di risorti si aggirano, stupiti sì, ma contenti, dandosi la mano l’un l’altro come fanno i cattolici prima della Comunione, e lui intanto, risorto anche lui, deve in quella felice confusione cercare non già uno zoppo qualsiasi, ma il suo zoppo, uno fra centinaia di milioni di zoppi, al quale si adatti lo specifico osso che lui tiene in tasca. 

Anch’io correvo su e giù fra il viale e l’ingresso del cimitero, anch’io correvo per vedere e riferire al gruppo rimasto in attesa: “Novità! Novità! È sopraggiunta una volante dei carabinieri”. 

E nel frattempo un becchino spiegava agli astanti la legge napoleonica: “…che vieta, eccome!, di asportare cadaveri, anche a pezzetti, dai luoghi cimiteriali”.

 

Volevo godermi di persona la Benemerita nel mentre che arrestava il Rabbino: “Molli l’osso, reverendo” sarebbe stata la conclusione della sgommata e dello sbattere delle portiere dell’Alfacentosessantaquattro, ne ero sicuro. Ma quando sono arrivato trafelato, i carabinieri non c’erano più. C’era il capo-becchino che rientrava bofonchiando: “Così un’altra volta impara, roba da matti”. 

E l’osso? Che fine avrà fatto l’osso? 

 

E-mail del 22 settembre 2008, da uno dei pronipoti presenti alla mesta funzione: “Vuoi sapere che fine ha fatto l’osso? Quando il Rabbino esce con l'osso dal cimitero e viene raggiunto prima da Isacco e poi dai carabinieri, esco anche io e cerco di convincerlo a lasciare l’osso. Alla fine lo cede al capo-becchino dietro promessa che venga esaminato per sapere se è umano. Non credo che sia poi stato fatto alcunché, forse è stato dichiarato di pollo (il che produrrà un pollo fra i risorti?) Ciao. Paolo”.

 

 

Roma, 27 marzo 2016 

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