Perché è la domanda sbagliata / Un viaggio cubano

14 Gennaio 2018

22.11.17

 

Chiedere perché è sempre la domanda sbagliata. Accadono le cose e noi dobbiamo comprenderle, non immaginare che potrebbero essere diverse da così. Il mondo è abbastanza complesso senza che si debbano aggiungere alle cose che esistono le nostre ipotesi. Così le rivoluzioni non sono mai eventi immaginari, velleitari, come paiono quando le si giudicano dall’arretramento dei comportamenti reali, che le hanno agite, a un’analisi delle idee, e proviamo a misurarne gli esiti rispetto a premesse che con il passare del tempo divengono immaginarie. In questo modo pare che il capitalismo sia la realtà senza ideologia, e dall’altra parte ci sia stata l’ideologia socialista, che è stata smentita dai fatti. Invece sia capitalismo sia socialismo sono a loro volta stati espressione di ciò che era reale per quei popoli e in quei momenti. Visto da Cuba, dove per prima è arrivata l’espansione coloniale europea, dietro le rivoluzioni c’è il conflitto tra il mondo anglosassone e quello spagnolo, che a sua volta era espressione dei conflitti religiosi e politici tra mondo protestante e mondo cattolico, che a sua volta era espressione della frantumazione dell’Impero romano d’Occidente, che a sua volta e che a sua volta eccetera, eccetera. Il presentare il fallimento della rivoluzione cubana come un fallimento del socialismo è in questo senso un altro momento di un lungo attrito ed è falso. Come se da una parte ci fossero gli idealisti e dall’altra i realisti. Idealizzazioni ne esistono ovunque, così come scelte coraggiose e conformismi. Nella vita di ogni giorno, di ognuno di noi; e sappiamo che chiedere perché non aiuta. Perché ad esempio sono venuto a Cuba per dieci giorni? Devo piuttosto affrontare il fatto che a un certo punto ho fatto domanda per uno scambio accademico e adesso sono qui, a l’Havana, solo e come un ragazzo. Come lo ero la prima volta che sono andato in Inghilterra, a 16 anni. Ora ne ho 61. O in tanti altri luoghi dove sono andato a cercare di capire il mondo, e a sentire una distanza.  

 

Chiedere perché è però inevitabile quando ci si trova al principio della giovinezza e si sceglie la rivoluzione. Che Guevara è per sempre giovane, con il bello e il terribile che c’è nella giovinezza. L’avventura, il coraggio, la tenerezza degli affetti. La bellissima lettera d’addio a Fidel è esposta nel museo della rivoluzione. 

 

Fidel,

mi ricordo in quest'ora di molte cose, di quando ti conobbi in casa di María Antonia, di quando mi proponesti di venire con te, di tutta la tensione dei preparativi. Un giorno vennero a domandarci chi si sarebbe dovuto avvisare in caso di morte, e la possibilità reale del fatto ci colpì tutti. Più tardi sapemmo che era vero, che in una rivoluzione si trionfa o si muore (se è vera). Molti compagni rimasero lungo la strada che portava alla vittoria.

 

Ma anche quattro figli lasciati alla rivoluzione. La mia amica Lilli che abita all’Havana e che i figli del Che li ha un po’ frequentati, mi ha chiesto: ma non avrebbe fatto meglio a lasciarli alla nonna? Ma la nonna è la rivoluzione? 

Il giornale quotidiano di Cuba si chiama proprio Nonna: “Granma”. Come lo yacht con cui Fidel e altri ottantuno guerriglieri sbarcarono nel ’59 e iniziarono la rivoluzione. Giornale ahimé tristissimo che esce ancora insieme a “Juventud Rebelde” (Gioventù Ribelle), e che fotografa nel suo formato obsoleto e nella pochezza informativa come questa rivoluzione, innamorandosi di se stessa, abbia perso di vista il proprio percorso.

 

Chiedere perché è sempre un errore. Vuol dire avere un altro pensiero, non il primo che vede e cerca di comprendere il mondo, ma il secondo, quello che si infila tra le apparenze e interroga, critica, vuole interpretare e portarsi avanti, si innamora della propria idealizzazione più che degli elementi concreti della realtà che incontra. Che pensa ci sia un cammino e si trasferisce lì, dove le cose avverranno. Benedetto Croce prendeva in giro le commedie di Pirandello dicendo che non faceva che chiedere: perché? perché? perché?

 

Del resto, senza giovinezza e senza rivoluzione c’è questa strana condizione, passiva, rassegnata, conformista, che il benessere (ma chi è che ci sta bene?) ha diffuso in occidente. Quella che qui mi fa davvero sentire la solitudine. Guardo i turisti canadesi e americani che risalgono le scale dell’appartamento che ho preso in affitto con una giovane prostituta. Settantenni già a vent’anni che fotografano tutto, la miseria e lo spettacolo della vita degli altri. Selfie e ricordini da portare a casa. Pensare, e pensare è capire che quel che avviene in noi è un riflesso del mondo e non c’è gesto, neppure la rivoluzione, che possa trasformare l’immaginazione in reale. Tanto che appena il Che si trova nelle condizioni di poter e dover fare con altri una società (è ministro e pieno di incarichi nel partito), preferisce partire per la Bolivia e riprendere la guerriglia. Perché la lotta vale più della costruzione e del compromesso.

 

Il lavoro principale dell’Europa è stato incamminarsi verso un mutamento di prospettiva rispetto alle rivoluzioni di cui la gioventù ribelle si innamorava (gli anni ’50 e ’70); la condizione soggettiva (l’isolamento nel percorso politico, biografico, culturale e via dicendo, una specie di autodefinizione infinita) è divenuta progressivamente la condizione reale, non personale, in cui le cose sono capitate e fanno parte di un disegno ampio. Le soggettività ci iscrivono nella funzione che si svolge, tentando di lasciarsi alle spalle una critica del mondo, il tentativo di capire, per poter svolgere la propria funzione. Capitano cose lusinghiere e altre molto dolorose nella vita, se l’io si lascia trascinare in una ricerca di autodefinizione dalle une o dalle altre rischia di essere una pallina da flipper, che rimbalza tra le circostanze. E forse siamo questa pallina comunque, ma la autodefinizione, autopercezione, autofinzione e via dicendo, non permette di aderire a quel che accade con la prontezza e la pienezza necessaria.

 

La rivoluzione cubana del ’59 è stata questo: da una parte a Cuba c’era la mafia (da Laskhy a Vito Genovese e Lucky Luciano, protetti da Batista, uno dei tanti dittatori che la CIA sosteneva in Sudamerica), dall’altra giovani medio borghesi (Che Guevara un medico, Fidel Castro figlio di un possidente terriero), che sbarcano e con il sostegno dei contadini si riprendono l’isola. Lì bisognava capire in fretta e schierarsi, e forse una rivoluzione di questo tipo, in queste condizioni, sarebbe riuscita anche in Europa come sognava Feltrinelli.

 

Se poi ho freddo tento di coprirmi, se ho fame di sfamarmi. Sentirsi non ha bisogno di pensiero. C’è una necessità a cui l’io risponde, non in modo originale. Pensare è necessario ad altro, a capire l’agire degli altri, il funzionamento della natura, la storia, la metafisica.

 

Chissà se queste cose che penso sono davvero così e se si sono svolte nella sequenza che indico. Certo adesso questo viaggio cubano mi sembra per certi versi una tortura, tutte queste ore del giorno e della notte, per me che di solito non ho mai tempo di fare altro che una passeggiata di domenica, passate a guardare, camminare, meditare nella città vecchia. A non vedere l’ora di ripartire per tornare a casa, già al secondo giorno. Anzi, prima ancora di partire dall’Italia. Anzi, nel momento stesso in cui ho fatto domanda. Ma non solo l’ho fatta, ho anche seguito le tappe necessarie a organizzare il viaggio, chiesto il visto, comprato il biglietto, organizzato i recuperi delle classi che perdevo. Perché?

 

Appunto, perché è la domanda sbagliata: c’è sempre un ragazzo che invece di leggere la realtà la interroga sperando in questo modo di aggiustarsela. Invece le cose accadono e noi siamo presenti, tanto che ho appunto seguito tutti questi passaggi. 

Assorbo più di quanto pensassi. Non riesco più a leggere quasi nulla perché sono costantemente immerso nel lavoro intellettuale, scrivo i miei libri e devo sempre finire di scrivere qualcosa e leggo tesi, articoli per lezioni ecc., faccio fatica a far spazio a una lettura aperta, come quella della giovinezza. Ogni libro va costruito e i passaggi tra queste costruzioni sono diventati stretti. Temevo fosse così anche per i viaggi, invece quello che ho visto ieri (ma era solo il primo giorno) mi ha interessato molto. Naturalmente sono impressioni, ma tante e notevoli.

 

 

Allora alle quattro del mattino, con il sonno ulteriormente disturbato dal jet-lag, penso che il vero compito di questi dieci giorni a Cuba assomigli agli esercizi spirituali di mia madre. Trovare un ritmo di preghiera e accettazione, cercare di essere presente. Anche perché io non posso andare in vacanza, non mi è mai stato possibile. In vacanza da cosa?

 

La mattina della partenza da Venezia ho pensato al dolore che avrei trovato qui a Cuba. Naturalmente per le strade dell’Avana c’è allegria e spensieratezza, ma qui venivano portati gli schiavi e qui si organizzava il loro commercio. Quelli che riuscivano a scappare sulle montagne, i cimarrones, continuavano le loro usanze Yoruba e delle altre regioni dell’Africa occidentale. Cuba è sempre piena di animismo. Che ogni cosa abbia una propria anima. Anche i discorsi di Fidel che vengono ritrasmessi costantemente, perché siamo a un anno dalla morte e perché si aggira per Cuba come il fantasma della rivoluzione, evocano il popolo come anima del popolo, un interno soprannaturale che trascende la storia e la guida.

 

Di nuovo le tre e mezzo di notte, ma sono sveglio da ore. Cercherò un aereo per ritornare prima, davvero non ha senso quello che mi sono imposto. Quanti musei posso vedere? E perché? Lascio che la giornata passi come non avessi un luogo, nulla da fare. Ecco, la mia fuga è finita. In realtà non sono neppure curioso, sono costretto a esserlo per far passare la giornata. Vorrei non disturbare, ma tutto quello che sono e faccio disturba. 

 

Una donna è scappata da un portone urlando. Le si sono fatti intorno alcuni in divisa, l’hanno pare calmata. Era pazza? Aveva subito una violenza? Non ne poteva più? Come ci ha raccontato Basaglia la malattia mentale è in larga misura semplicemente la povertà. L’intollerabile povertà. Che significa spazi angusti, e quindi promiscuità, scarsa educazione e quindi poca capacità di metabolizzare le trasformazioni e il mondo. I poveri qui sembrano pazzi. Forse, a favore della rivoluzione di Castro e Che Guevara, si potrebbe dire che qui i poveri li vedi, mentre da noi sono sommersi, costretti a conformarsi al mondo che hanno attorno. O piuttosto sopra. E tutti sentiamo di avere la condizione del benessere sopra di noi, come avessimo bisogno di altro denaro, di un maggiore prestigio, di un altro marito o un’altra moglie, di un’altra vita. Viviamo prigionieri del consumo che proietta nell’oggetto da acquisire il completamento della condizione in cui siamo. Siccome questa condizione è il presente, il modo in cui include il futuro, siamo disperati, abitiamo il rancore sociale nella politica come nei condomini, quasi fosse una condizione naturale. 

 

Nel giovane rivoluzionario di vent’anni, e nei giovani in generale, c’è la speranza che le regole che sono state imposte dalla scuola e dalla famiglia cessino d’avere valore. Sono insopportabili e ne abbiamo intuito fin dall’inizio la storicità, quindi l’arbitrio, la loro condizione transitoria, e quando vengono disattese sentiamo la libertà di essere quello che siamo, di non dover chiedere permesso o scusa. La vita è come l’avevamo intuita sotto le regole, matta, allegra e buona. Ma le regole erano anche altro e la vita non era solo matta, allegra e buona. C’era già la morte, il disastro della storia da cui le regole che non capivamo avevano tentato di ricucire un ambito se non un senso, e in quelle regole, o in altre, ci rifugiamo per sfuggire l’angoscia dell’essere allo scoperto, e chiederci cosa c’è adesso di matto, allegro e buono. Meno male che abbiamo costruito una famiglia! Che abbiamo un lavoro! Meno male che non ci dobbiamo ubriacare o drogare per sentire il mondo! Anzi, meglio quando non lo sentiamo. Perché il mondo, la storia è essenzialmente tragica, come sapevano i greci. 

 

Forse più ancora delle ambizioni di giustizia sociale che a Cuba paiono così tradite, è la mancanza di alternativa all’influenza del cosiddetto Occidente, che in realtà oggi include anche la Cina e la Russia, l’India e il Sud America, a lasciare sgomenti. La “temibile aquila”, come José Martí chiama gli USA. Altre isole dei Caraibi sono piene di miliardari da tutto il mondo che vi nascondono le ricchezze che accumulano. Individui, corporazioni. E non hanno probabilmente alternative: nel capitalismo, se un’azienda o un individuo ha la possibilità di evadere le tasse, costringe anche gli altri a evaderle. Qui a Cuba siamo ai margini di questo sistema e il risultato è che i supermercati sono letteralmente vuoti, appena si esce dalla zona turistica si trovano negozi che vendono un sapone e un dentifricio. Code, come nell’Europa orientale prima dell’89. La persona che mi affitta privatamente una stanza all’Habana Bieja mi fa pagare venticinque euro al giorno. In dieci giorni duecentocinquanta euro. Il vice-rettore dell’Università che ha uno scambio con Ca’ Foscari e che mi ha invitato, guadagna circa quaranta euro al mese. Tutti i cubani vivono dunque con due monete e due sistemi: uno ufficiale, socialista (tessere annonarie, salari uguali per tutti, ecc.), ma in realtà capitalista, con l’ottanta per cento delle transazioni sul mercato nero.

 

Per i cubani e la loro dolorosissima storia ho istintivamente simpatia. Non so davvero che alternative abbiano, se sia meglio resistere sulla scia del Che e Fidel, fuori dal capitalismo, o se sia meglio lasciarsi trascinare dal destino di una banca off-shore, preda dei gangster americani che scorrazzavano per l’isola ai tempi di Batista e che ancora oggi sono probabilmente numerosi in Florida. Clima caldo (anche troppo), tutta questa musica da Buena Vista Social Club che a dire la verità dà una strana sensazione di straniamento e malinconia quando la si sente in questo contesto. Da un lato, se ne vedono meglio le radici, quelle africane e quelle sentimentali della Spagna coloniale, dall’altro ci si chiede ma quanto hanno davvero voglia di cantare? E perché? Un segno positivo ho però notato, è nell’uso della voce, che ricorda quello dell’Italia del dopoguerra. Negli esercizi yoga che faccio ogni mattina includo una vibrazione della voce nella respirazione, qui la gente urla e canta per strada e non sembra avere problemi ad asserire la propria presenza.

 

Quindi poveri e felici, quanto noi siamo ricchi e infelici.

 

Gli impegni a cui sono abituato, l’insegnamento, i libri, tutto quello di cui riempio le giornate, mi portano via da qualcosa che qui è emerso dolorosamente. Soprattutto la notte. L’essere presente a quello che sono, e non è un bel vedere. Non per cattivi pensieri, magari, alle tentazioni si può cedere, poi uno se ne può pentire e così la vita passa. Le mie tentazioni sono state poche, non perché sia buono, solo perché mi distraevano dal comprendere quali fossero i miei compiti. Ho fatto la mia parte come un soldatino fin da ragazzo e anche qui a Cuba non sarei venuto se non ci fosse stato uno scambio che prometteva di impegnarmi, farmi sentire che stavo facendo qualcosa. Che lo scambio con questa università si sia invece rivelato piuttosto vago ha aperto invece le porte a ciò da cui le mie abitudini mi difendono. Il senso di vuoto, di arbitrarietà. Un senso di inutilità della vita, che angoscia. Nella mia vita si è svolto da sempre un dolorosissimo sradicamento. Non so se sarebbe stato diverso se seguendo mio padre non ci fossimo mai mossi per i suoi trasferimenti (era militare), credo di no, perché ho un ricordo piuttosto preciso di questo senso di non “c’entrarci”, sui dodici anni, quando iniziavo a suonare la chitarra e scrivere canzoni, e mi chiudevo in una stanza con un altro mondo. E forse anche prima, camminando verso scuola e non volendoci andare, o mentre andavamo da qualche parte con la famiglia e io mi sentivo sulla luna, distratto. O anche quando, sempre intorno ai dodici anni, spaventato dalle immagini della sacra sindone, ho perso il dialogo con Gesù che aveva in qualche modo raccolto la mia solitudine nella preghiera.

 

E che bella cosa è l’arte se vuole dare un piacere a chi ci legge, ci ascolta, ci guarda. La creazione è qualcosa di buono perché vogliamo che venga abitata; lo facciamo per altri, perché altri si ritrovino in queste storie. O notte celeste, perdona se torno ancora a queste voci.

 

In una chiesa, in un quartiere poverissimo di L’Havana centro, c’erano i battesimi. Per strada un inferno dantesco, anime perse che gironzolavano senza meta, una buona metà ubriachi a metà del sabato mattina, tutti in ciabatte tra case fatiscenti, dove il cattivo odore di cassonetti della spazzatura si confonde con pericoli più gravi, acqua che non capisci se venga da una tubatura rotta o una fogna, fili dell’elettricità tagliati e abbandonati lungo tutti i palazzi, delinquenza e criminalità. Poi ho notato che si cominciavano a vendere fiori. Fiori nel disastro. E poi la chiesa stracolma di famiglie sorridenti. Un prete che avrà avuto meno di trent’anni che sorrideva con loro. Per capire cosa sia la Chiesa, da dove nasca e quale sia la sua vocazione, bisogna andare dove c’è una vera sofferenza sociale, è lì che svolge davvero il suo compito. Materialmente e spiritualmente. Perché in questa chiesa era tutto pulito, quasi un’isola nel fango. La gente, probabilmente gli stessi che in strada avevano un aspetto tanto disperato, era vestita come nella mia infanzia ci si vestiva la domenica per andare a messa. A questa chiesa è difficile parlare a un’Europa che ha la pancia piena, una vecchia nonna, come dice con un po’ di disprezzo il Papa, ricca e anziana. Quale indubbiamente l’Europa è, circondata da giovani poveri che si mettono in mare o attraversano i loro territori in guerra in cerca di futuro, tanto che lo spirito politico e la preoccupazione maggiore degli europei sembra essere come garantirsi la pensione, o meglio, come far sì che l’accumulo che si è tentato lungo la vita sia lì alla fine, nell’ora della nostra morte. Cosa che inevitabilmente e da sempre contrappone le generazioni, perché l’accumulo è sempre presente e il problema è chi ci mette le mani.

 

Quindi Brexit è anche questo, orrendo tentativo di far fuori i giovani della vecchia generazione di inglesi, per tenersi i soldi contro i loro giovani.

 

Ieri sera ho visto Cecilia Valdés, una strana opera dove nell’orchestra non ci sono affatto archi. Solo strumenti a fiato. Cantata bene ma dal punto di vista drammaturgico poca cosa, una serie di numeri che si susseguono, con ritmi africani alternati a duetti tardo romantici. Comunque meglio della musica che si sente per strada che ha una tale prevedibilità da risultare alla fine insopportabile.

Anche un altro concerto, sabato, in chiesa, i mottetti di Mendelsshon Veni Domine, anche questi cantati magnificamente.

 

Ma la cosa certo più bella artisticamente sono i Versos sencillos di José Martì. Il grandissimo José Martì. Ho finito questa notte i Versos sencillos. Anche io ho un amico, a Vienna. Un altro a Cassis. Uno a Torino. Uno a Roma. E amiche, e amori. E tutto quello che vale. Cultivo una rosa blanca/ en junio como en enero/ para el amigo sincero/que me da su mano franca.

 

A vent’anni, come ha detto la mia vecchia amica Lilli che andavo a trovare da ragazzo in Via Arienti a Bologna, si parlerebbe con le pietre. Adesso è difficile, c’è troppo. Nuova notte senza sonno, ma per fortuna con Seamus Heaney. The spirit level. La poesia è concreta, piena di memoria e dei sensi dell’infanzia, e di altri pensieri. Per questo ispira le rivoluzioni. Che indubbiamente rinasceranno e riscuoteranno il mondo dai suoi sonni non con sogni di vite idealizzate, ma con la concretezza di una diversità che emerge e fa parte dei cambiamenti del mondo. Ai tempi della Rivoluzione cubana c’erano ottocento milioni di poveri nell’America del Sud, e una serie di dittature sostenute dalla CIA. Oggi non più.

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