Speciale

Ordini del discorso amoroso

29 Settembre 2015

Tante persone sarebbero pronte ad affermare, talvolta con ironia, che l’amore non esiste. Considerandolo, a buon titolo, compromesso dalla sua storia ufficiale, e dunque dalla storia delle istituzioni che si sono incaricate di governare l’amore – ossia di produrre un’idea dell’amore che fosse funzionale al governo della proprietà, della sessualità, della riproduzione, e in buona parte funzionale al dominio maschile e all’eterosessualità obbligatoria –, costoro vorrebbero sbarazzarsi della sua storia stabilendo l’impossibilità di pensare l’amore fuori dal suo dispositivo, mettendo in discussione la struttura stessa che rende possibile ogni argomentazione: al suo posto esisterebbero, semmai, i rapporti sessuali, o forme più o meno superficiali di relazioni di reciprocità e scambio, tendenzialmente etero o omonormate, nei casi in cui prevedano forme di scambio sessuale, e tendenzialmente omosociali, nei casi in cui invece non siano all’apparenza contemplate. Costoro, inoltre, riterrebbero le sofferenze che l’amore può produrre del tutto risibili se comparate con quelle prodotte da altre forze sociali, come la povertà, o la precarietà, ad esempio, o la malattia. Accanto a queste persone, ce ne sono poi delle altre che se forse non riuscirebbero a individuare con certezza il nesso che lega la propria sofferenza amorosa e la questione più ampia dell’organizzazione sociale delle relazioni di produzione (quali sono gli effetti differenziali della precarietà sulla vita dell’amore? Quale vita amorosa è prodotta differenzialmente dal regime di precarietà? E dalla classe?), di certo riescono però a scorgere in modo più chiaro – o, almeno, coloro che riescono a non farsi neutralizzare dai processi di patologizzazione, e poi di normalizzazione, farmaco-psichiatrici – quello che lega invece la deprivazione amorosa (o altri fenomeni parzialmente correlati, come il lutto) e la malattia, non solo di natura psichica. Queste persone, di conseguenza, avrebbero molti e ottimi motivi per volersi liberare definitivamente dalle sofferenze che l’amore infligge alla loro vita. Spesso, sintomaticamente, se ne liberano solo liberandosi della vita stessa.

 

Penso che questi desideri di minimizzazione o, al contrario, di liberazione dall’amore costituiscano un’ulteriore prova della sua persistenza e della sua efficacia. Tali desideri inoltre, sono tutti innervati da un altro tipo di problema, ossia il problema che l’amore non cessa di sottoporre alla nostra attenzione: l’impossibilità di stabilire un confine certo tra l’amore e la vita – e l’organizzazione, simbolica, culturale, materiale, di questa vita. Ne era in fondo convinto anche Roland Barthes. Ciò che più lo tormentava era che a fronte di questa posizione fondamentale, costitutiva, dell’amore nella vita degli individui, il discorso amoroso versasse in una condizione desolante, forse impoverita rispetto ad altri discorsi dominanti nello spazio pubblico. Egli sosteneva che nessuno avesse voglia di parlare d’amore in assenza di un “tu” specifico a cui rivolgersi. Di conseguenza l’amore era ai suoi occhi declassato a mera questione privata, e tale declassamento aveva – e ha – la forza di produrre non solo, o non tanto, la natura “intima” del discorso amoroso, ma anche la sua sottrazione al mondo, o la sua assenza di mondo: il discorso amoroso è la sommatoria di quei discorsi che partono da un io e arrivano a un tu – anche se quel tu è assente, o morto, o smaterializzato –, ma la stessa struttura del “tu” è intesa quale prodotto tiranneggiato dalla solitudine acosmica dell’io – individualizzata, arbitraria, nevrotica. Quel “tu” a cui l’io si rivolge è la naturale appendice di ciò che già esso è in quanto soggetto: individualizzato, arbitrario, nevrotico. Non a caso, ammoniva proprio nelle prime righe dei Frammenti di un discorso amoroso, «il discorso amoroso è oggi di un’estrema solitudine», elevando questa considerazione al rango di necessità, al rango di domanda che fosse in grado di guidarlo nella sua monumentale compilazione di un lessico comune, un lessico in cui chiunque, sfogliandolo, potesse percepire alleviata la propria acosmia. E a distanza di quarant’anni noi abbiamo oggi la possibilità di gettare uno sguardo più ampio sull’intera ricerca che presiedette a quel testo classico della filosofia e della semiologia contemporanee: possiamo farlo sfogliando le lezioni del seminario biennale dal titolo Le discours amoureux che Barthes tenne all’École Pratique des Hautes Études di Parigi tra il 1974 e il 1976, dal quale poi egli stesso selezionò i materiali per i Frammenti, pubblicati in italiano nel 1977. Il discorso amoroso, libro voluminoso che include peraltro alcune parti inedite degli stessi Frammenti, lo pubblica Mimesis, a cura di Augusto Ponzio.

 

A distanza di quarant’anni, noi abbiamo però la possibilità di ritornare anche sul senso di quella considerazione barthesiana, spesso ripetuta come uno slogan, e di provare a misurarne la tenuta, o a interrogarne le aporie. La mia posizione, in questo senso, è che sia infatti possibile provare a problematizzarla. «Questo discorso è forse parlato da migliaia di individui, ma non è sostenuto da nessuno», scriveva Barthes: «esso si trova ad essere completamente abbandonato dai discorsi vicini: oppure è da questi ignorato, svalutato, schernito, tagliato fuori non solo dal potere, ma anche dai suoi meccanismi».

 

Oggi – non più che negli anni Settanta – è forse possibile dire che l’amore sia «tagliato fuori dal potere»? L’amore, senz’altro, è stato relegato nell’oscurità della sfera privata da una certa concezione del potere di tipo sovrano, che ha caratterizzato la modernità: la sfera pubblica, all’apparenza, è la sfera dell’esercizio della ragione in pubblico, non dell’espressione dei sentimenti o della corporeità. Ma questa prospettiva ha apertamente ceduto il passo a un’altra forma di relazione tra il potere e l’amore. Nel corso degli ultimi quarant’anni, d’altronde, è lo stesso paradigma del potere ad aver subito una profonda e accelerata mutazione: esso non è più esclusivamente verticistico, giuridico o positivo, incarnato dalle istituzioni politiche, ma orizzontale, senz’altro diffuso, molecolare, in grado di minare la distinzione tra il potere in sé e i suoi soggetti che ne sono portatori vivi e attivi. In fondo, il potere con cui siamo chiamati a confrontarci oggi, ossia il potere policentrico e molecolare del capitale, ha ben compreso le potenzialità produttive insite nell’amore – ossia nella possibilità di produrre e far proliferare forme di amore funzionali alla messa al lavoro e all’accrescimento della produttività – e al contempo sancendo il sacrificio di quelle improduttive. Avremmo ottimi motivi per interrogare l’amabilità di questa compagnia, ma in ogni caso non è certo più possibile dire, in relazione al potere, che l’amore sia oggi di un’estrema solitudine, o che sia abbandonato dai discorsi vicini. È senz’altro più corretto affermare che quello stesso discorso sia oggi di un’estrema sussunzione sotto le leggi del capitale, ossia sotto le leggi e i «meccanismi», per usare lo stesso lessico barthesiano, di ciò che oggi, propriamente, è il potere. L’amore fa vendere, in tutti i comparti produttivi, materiali o immateriali.

 

Barthes, d’altronde, avrebbe dovuto avere piuttosto chiare le contemporanee considerazioni di Foucault sul potere, sulla biopolitica, sulla governamentalità. Se non avesse fallito nell’impresa di tenere insieme il proprio desiderio di scrivere tra le pagine più erudite sul tema dell’amore e le suggestioni derivanti da tali concezioni meno moderne del potere, avrebbe infatti potuto ben intuire non solo che l’amore è uno dei temi trainanti del marketing e che il potere politico, quand’anche in ritardo, deriva i propri paradigmi di giudizio dal primo, ma avrebbe forse anche evitato di lasciare totalmente silente un’altra questione – anch’essa riconducibile al problema del potere, e in particolare a quella forma che il potere assume quando esso è l’effetto, del tutto materiale, di norme non scritte e immateriali.

 

Che posto occupa, infatti, o vorrebbe occupare, se lo vorrebbe, Barthes, quando attraversa i boulevards o i passages di Parigi, in cui tante coppie eterosessuali si tengono per mano, o si baciano, talvolta appassionatamente, o si scambiano altre forme di tenerezze…? Si sente incluso, riconosciuto, supportato, da quel paradigma di relazione che ha davanti agli occhi, o si sente escluso – o impossibile? In che modo, mi domando, questa forma di potere regolatore che non ha bisogno di dirsi perché ovunque si manifesta e ovunque tacitamente si riproduce mantiene l’amore in una condizione di estrema solitudine, o non supporta il discorso amoroso? L’eteronormatività, esattamente come il potere del capitale, è un potere molecolare, che precede ed eccede ogni legge possibile. Da questa forma di potere dipendono nientemeno che le condizioni di intelligibilità dell’amore, del suo riconoscimento, così come del suo essere degno o meno di cura e protezione: si tratta di quelle norme la cui forza è tale da informare gli stessi paradigmi di riconoscimento anche dell’amore tra persone dello stesso sesso, e le stesse norme che presiedono al giudizio di quali relazioni tra persone dello stesso sesso siano riconoscibili. Si pensi, in proposito, all’uso del concetto di amore all’interno delle più recenti e patinate campagne comunicative a sostegno del matrimonio omosessuale, che Barthes certo non ha conosciuto: Love is Love e Love Wins, tra le varie progettate dal governo statunitense; Equal Love, ideata invece dal governo australiano. (In Italia, non il governo ma l’Arcigay ha proposto la campagna: Lo stesso amore, lo stesso sì.) Non si sta forse sostituendo la parola “matrimonio” con la parola “amore”? Barthes dovrebbe oggi rivedere la portata delle proprie considerazioni dinanzi a questa identificazione totale, da parte del potere, dell’amore tra uomini o tra donne con l’unica istituzione eteronormativa in grado di normalizzarlo e ripulirlo dal torbido che ne ammanta la percezione e il giudizio – dinanzi a questo tentativo, perfettamente riuscito e attivamente sostenuto dalla maggioranza delle persone gay e lesbiche, di neutralizzare ciò che dell’oppressione omosessuale ha costituito il fulcro: l’amore, appunto.

 

Quale ruolo accorda, dunque, Barthes a quelle modalità di conoscenza e quei regimi di verità che contribuiscono a determinare l’intelligibilità dell’amore – oltre che, innanzitutto, del soggetto amoroso, di quell’io che parla a quel tu? L’amore è pensabile, o intelligibile, o vivibile fuori dagli ordini del discorso amoroso? Forse bisognerebbe domandarsi: quale amore, e quale discorso amoroso? Ma Barthes non lo fa. In questo senso, la sua ricerca ci mette davanti agli occhi, con alfabetica e chirurgica precisione, e con la malcelata connivenza di un soggetto privilegiato – maschio, bianco, borghese –, tutte le parole di quell’imponente dispositivo in cui propriamente consiste l’amore, quando esso riceve i suoi termini e le sue figure dalle norme egemoniche che presiedono al discorso amoroso, e dunque al giudizio – i cui parametri quel discorso costantemente plasma – di quali amori siano degni di essere detti, vissuti, celebrati, esibiti, pianti pubblicamente; quali amori, addirittura, rientrino nei perimetri della pensabilità, della credibilità, della realtà. Solo come il rovescio di un ricamo, infatti, la ricerca di Barthes, che lo voglia o meno, ci mette anche davanti agli occhi tutte quelle parole che costellano, per opposizione, quegli amori che emergono ai bordi dell'intelligibilità, e che proprio da quello spazio si confrontano con i modi, mutevoli, attraverso i quali le norme a disposizione circoscrivono il discorso amoroso. Di quegli amori che non hanno nulla di nuovo, perché anche all’interno di quello stesso discorso occupano una qualche zona tra la norma e la possibilità della sua sovversione. Di quegli amori, però, che forse riferiscono di quella condizione in cui versa l’amore quando non è né normato né sovversivo, ma è l'amore nella propria condizione di anonimità, ciò che non siamo ancora in grado di nominare, ciò che resiste a ogni tentativo di nominazione.

 

È forse questo, a dispetto di ogni apparenza, il solitario punto d’osservazione di Barthes? Se così fosse, saremmo senz’altro più incoraggiati a cercare tra quelle parole non solo i luoghi del sempiterno e totalizzante conflitto cortese, eteronormato e diadico, ma quelli di molti altri – quello tra l’impossibile che chiede di essere possibile, quello tra l’impensabile che ambisce a ridiscutere i termini della pensabilità, quello tra l’incredibile che in quelle pagine troverà conferma di una credibile esistenza. D’altronde l’impossibile, l’impensabile e l’incredibile costituiscono il costante non ancora della vita dell’amore. In questo senso essi sono una risorsa irrinunciabile per la comprensione dello stesso egemonico discorso amoroso: ciò che rispetto a esso è impossibile, impensabile, irreale, è proprio ciò che ne indica i punti di instabilità, ciò che esso esclude, o forclude, per potersi affermare come l’unico discorso necessario e possibile.

 

Un altro discorso amoroso, io penso, prende corpo quando soggetti impossibili allestiscono le scene di convocazioni rimaste fino a quel momento impensate. Si tratta della sfida di coloro che ancora non occupano il posto del soggetto amoroso, pienamente legittimato ad amare e a essere amato, sostenuto dalle norme che stabiliscono come si deve essere e cosa si deve fare per vivere un amore degno di essere riconosciuto e vissuto – ossia di quel soggetto che ha già avuto accesso alla sfera dell’”amabilità”, che si sente talmente immune dall’impoverimento che potrebbe derivare da una vita senza amore, da concedersi il privilegio di declassare a zuccherosa faccenda, o di relegare all’ambito del sentimentale, dell’irrilevante, del patologico l’intera questione dell’amare e dell’essere amati, oltre che della sua connessione con la più ampia questione della vivibilità di una vita insieme agli altri. Quei soggetti impossibili, mi sembra, anche a partire da questa posizione di non pienezza articolano parole o pensieri, non necessariamente diadici e cortesi, e atti corporei minimali e performativi, che a volte, e non in modo indolore, smarginano i bordi dell’amore e del suo discorso ordinato e ufficiale, eteronormato o omonormato che sia, in funzione di una loro imprevista apertura.

 

Per tornare alle considerazioni iniziali, non so se e quando ci libereremo mai di quell’imponente dispositivo di assoggettamento che è l’amore, come lo conosciamo – in seno al quale, per opposizione o per acquiescenza, diventiamo soggetti. Forse ciò avverrà solo quando si affermerà un nuovo senso comune ispirato alle grandi suggestioni di quell’Artaud che, a un prezzo molto alto, auspicò la possibilità di scongegnare il corpo dalla sua eteronormazione, e di farsi un corpo senza organi. Suggestione, questa, che mi sento di riconoscere come facente parte di quell’orizzonte della politica sessuale radicale che ambisce, in fondo, a sottrarre potere all’Amore, alle sue istituzioni regolative biopolitiche, alle determinazioni che esso contribuisce a reiterare sui corpi; e che mira, al contempo, a favorire il passo alla non esclusione della possibilità di amarsi, intesa come una delle più intense, creative, e trasformative, possibilità di corpi in relazione tra loro – e forse è questo il senso mai dischiuso e ben addomesticato dalla sua storia, mediante l’identificazione con la mera genitalità, dell’espressione fare l’amore: un fare incessante, la creazione di un’opera le cui misure e i cui parametri di intelligibilità non si danno in nessun luogo, ma sono prodotti nel momento del suo farsi. Se l’amore è indissociabile dal suo discorso e parte di ciò che tale discorso produce è il soggetto, allora fare l’amore sarà un modo per de-soggettivarsi e diventare diversi insieme: nel corso di questo scambio, che è fatto di parole e di gesti, sempre ripetuti e sempre nuovi, qualcosa verrà formandosi, ma nessuno potrà conoscerne la forma fino a che l’opera non sarà pronta.

 

In quest’altro senso, allora, la ricerca di Barthes ha dunque la forza di porsi come potente antidoto al suo proprio oggetto d’indagine. Essa infatti continua, e continuerà, a illuminare e a rendere vulnerabili quelle tante parole in cui consiste l’amore, anche quando esso silenziosamente tace, o è un illeggibile o incomprensibile gesto, un’indecifrabile relazione – anche quando esso è all’opera in una solitaria scrittura, o in un solitario pensiero. Anche quando tenuto a bada da quel discorso che alloca in modo differenziale privilegio, valore e riconoscimento alle forme di relazione, esso prenderà parola lo stesso – e lo farà come potrà, con una parola anonima e critica, un gesto che sfida la morte e che ridiscute, e abbraccia, quello stesso discorso che aveva preteso di confinarlo alle periferie del linguaggio – e alle periferie, a volte, di ciò che pensavamo ci potesse capitare in un giorno qualunque della nostra vita.

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