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San Lorenzo / La gondola meccanica

11 Agosto 2020

 

Quale oggetto è legato a una città (e una sola città) come la gondola a Venezia? Senonché, avete letto “gondola” e non avete pensato all’imbarcazione. Avete pensato ad attori famosi (come Gary Cooper nel 1955), ad altre celebrità (seguite da paparazzi in motoscafo), a palle di vetro con la città lagunare, ad Alberto Sordi e Nino Manfredi in un film di Dino Risi (Venezia, la luna e tu, 1958), a James Bond-Roger Moore con la sua gondola a motore in Moonraker (1979). Ma vi verranno soprattutto in mente coppie di innamorati in luna di miele, oppure la canzone di Aznavour (“Com'è triste Venezia se nella barca c'è / soltanto un gondoliere che guarda verso te...”).

 

 

Questo stereotipo delle gondole “romantiche” in una Venezia per turisti era già ben saldo più di un secolo fa, tanto da spingere i Futuristi a una proposta semplice, distruggerle: “Bruciamo le gondole, poltrone a dondolo per cretini...” (Contro Venezia passatista, 1912). 

Le gondole di Venezia e il chiaro di luna – sì, proprio quello detestato dai Futuristi – stanno assieme in un passo di Goethe, nel suo diario di viaggio in Italia; ma qui, a dispetto di Marinetti e amici, non c’è nessun languore, nessun sdilinquimento, insomma romanticismo senza romanticherie. Come avranno fatto altri prima di lui – gli stranieri che venivano in Italia nel lungo viaggio del “Grand Tour” – anche Goethe, il 6 ottobre 1786, volle ascoltare il canto dei gondolieri. 

Era arrivato alla fine di settembre, da Padova, a bordo di un barcone pubblico sulla Brenta; il paesaggio che si aprì davanti allo scrittore tedesco doveva essere molto simile a quello descritto in una tela di Francesco Guardi, dipinta una ventina d’anni prima (Milano, Poldi Pezzoli).

 

 

La sera del 6 ottobre, spuntata la luna, eccolo dunque in gondola. Salirvi, aveva scritto il 29 settembre, lo faceva sentire “padrone del mare Adriatico, come del resto si sente ogni buon Veneziano non appena si è sdraiato nella sua gondola”. Uno a poppa e uno a prua, i due gondolieri intonano una melodia “su versi di Tasso e di Ariosto”. Poi accade che uno risponda dalla riva, e continui così questo canto alternato, tanto più d’effetto – sostiene Goethe – quanta maggiore era la distanza tra le voci. E infatti, alla Giudecca, i due gondolieri scendono e, continuando a cantare, si distanziano; e così fa lo scrittore, su e giù lungo il bordo del canale per ascoltarli da lontano. Un vecchio lì vicino – non un turista – gli dice che anche per lui era un canto commovente, e lo era ancora di più quando a farlo – sui versi di Tasso – erano le donne lungo la riva, per fare compagnia ai mariti che pescavano in mare. 

Per Goethe il primo incontro con le gondole, qualche giorno prima, era stato nel segno della memoria: appena una si era avvicinata al barcone proveniente da Padova, si era ricordato di uno dei giocattoli da bambino, una gondola di legno e di latta, il modellino che il padre aveva portato a casa dal suo viaggio in Italia, nel 1740. Quella dei souvenir, infatti, non è una pratica inventata dal turismo del Novecento o di oggi (e quelli che da decenni affollano le bancarelle delle grandi città d’arte non sono disprezzabili in quanto ricordi di viaggio, ma in quanto oggetti brutti).

 

Nello stesso anno in cui Goethe scendeva in Italia, a Roma (che poi sarà una delle mete più importanti del suo viaggio) veniva pubblicato in forma anonima un libro dal titolo singolare, Elementi dell’architettura lodoliana o sia l'arte del fabbricare con solidità scientifica e con eleganza non capricciosa. L’autore in realtà era Andrea Memmo, un nobile e diplomatico veneziano che nel libro aveva cercato di riassumere le teorie del maestro, l’architetto (anch’egli veneziano) Carlo Lodoli (1690-1761). Da “conoscitore di tutte le arti meccaniche”, perciò da esperto dell’attività delle botteghe artigiane, Lodoli non disprezzava affatto il “lusso de’ gran signori”, infatti gli artigiani “perirebbero di fame” senza la loro “generosità”, la loro “ambizione”, o il loro “capriccio”. Lodoli di certo pensava anche ai cantieri che fabbricavano le gondole veneziane, imbarcazioni che “non potevano essere né più scorrevoli, né più ubbidienti, né più forti, né più leggiadre in ogni lor parte, appunto perché ogni pezzo di legno aveva la sua figura proporzionata alla differente sua indole, ed era messo a luogo con ragione; che se si fosse fatto il fondo di carrubo e le coste d’abete, cioè il contrario, la gondola sarebbe una rovina”. 

 

Dal punto di vista nautico, la barca veneziana per eccellenza – secondo Lodoli – era perfetta perché ogni sua parte aveva una funzione precisa, e la svolgeva con forme e soluzioni tecniche differenziate. Quanto alla scelta dei materiali, Lodoli parla esplicitamente di una loro “indole”, di una loro vocazione: si potrebbe dire che anche gli artigiani veneziani praticavano quella “chiromanzia del legno”, che gli scultori tedeschi del Rinascimento adottavano per le statue o i bassorilievi (lo spiegò Michael Baxandall in un mirabile saggio di quarant’anni fa, tradotto da Einaudi). In altre parole, quel tipo di legno per quel tipo di funzione.

Agli inizi del Novecento, c’è un altro architetto che proclama la dimensione “meccanica” della gondola, Le Corbusier: “il mio primo stupore è suscitato non dal romanticismo della gondola, quanto dalla scoperta dell’impeccabile struttura di questo strumento, così puramente razionale”. Il grande architetto e teorico svizzero interveniva così a un convegno veneziano nel 1934 (La lezione della gondola. L’arte e le masse contemporanee, in Scritti, a cura di R. Tamborrino, Einaudi 2003). E aggiungeva: “l’insieme delle gondole, dei pontili d’imbarco e dei pali ai quali sono legate le gondole costituisce uno spettacolo d’arte plastica che suscita emozione”; questi insiemi, lungo i canali veneziani, realizzano “la grande arte che oggi chiamiamo «astratta»” (delle vere e proprie installazioni, diremmo noi oggi). Ecco perché, l’anno seguente, pali, pontili e barche compaiono più di una volta anche in Je prends Venise à témoin, un “preambolo” al suo progetto per la città di Anversa.

 

 

Nella sua lezione, Le Corbusier invita ad osservare tutti i dettagli dell’imbarcazione, e fa notare quella che è ben altro che una curiosità: “l’asse longitudinale della gondola non è diritto, bensì curvo; la gondola è storta: proprio perché ha un remo solo e per arrivare alla fine della sua corsa deve procedere in senso trasversale!”. In altre parole, da ferma essa è asimmetrica e inclinata: si raddrizzerà solo quando sarà salito a poppa il gondoliere. 

Le Corbusier guarda la gondola come una scultura (la forma nello spazio), ma anche come una macchina (i meccanismi che ne consentono il funzionamento), e arriva così a concludere che la sua “è una bellezza totalmente meccanica”.

 

 

Molti anni dopo, Sergio Bettini (1905-1986) – uno storico dell’arte che andrebbe di nuovo riletto – dedica pagine straordinarie a una parte essenziale della gondola, la “forcola”, il supporto del remo (Venezia. Nascita di una città, 1978, Neri Pozza). Si potrebbe osservare come un “objet d’art gratuito”, paragonabile a una scultura di “Brancusi, di Arp, o, per un confronto più domestico, di [Luigi] Mormorelli”, ed ecco, infatti, che Bettini la fotografa da quattro angolazioni diverse; ma la descrizione successiva non tratta la forcola solamente come oggetto da ammirare, perché occorre spiegarne le complesse componenti tecniche (in un fiorire di riferimenti linguistici veneti): infatti lo strumento-forcola deve mutare di continuo forma per rispondere alle diverse condizioni di voga; ecco perché, se il remo veneziano è “tutto perfettamente liscio e nudo”, la forcola è invece “articolata e modellata”. 

 

 

Altro che “gondola romantica”: Bettini ci mette dinanzi un oggetto complicato, comprensibile unicamente nella vicenda storica e urbanistica di Venezia, “un gioco d’equilibrio nel quale tutto fa sistema” e in cui svolge un ruolo fondamentale il gesto esperto del gondoliere (ben altro che un pittoresco dettaglio da cartolina): “corpo del vogatore, fusto del remo, forcola, pala del remo, resistenza dell’acqua, tutto è in un rapporto reciproco così esatto, che basta che uno di questi elementi manchi o sia fuor di misura, cioè fuori di luogo e di tempo precisi: basta tenere il remo troppo lungo o troppo corto, troppo immerso nell’acqua o troppo in superficie, premerlo o torcerlo col polso in un tempo più o meno lungo e in un punto piuttosto che in un altro della forcola, perché tutto il sistema si scardini”. Detto tra parentesi: Bettini ha provato che cosa significa condurre una gondola? Direi proprio di sì, vista la quantità di riferimenti tecnici, il rimando al gergo dei gondolieri (“andar premando...andar stagando”) e, in particolare, viste affermazioni come questa: “vogare alla veneziana, soprattutto in gondola, quando lo s’abbia imparato, dà una sensazione esaltante, che non è paragonabile a quella di altre voghe... ”. Insomma: uno storico dell’arte che ha abbandonato il tavolino, e fa esperienza diretta di ciò che sta studiando.

Ma a questo punto occorre chiedersi come mai un’imbarcazione, e le sue parti, debbano richiedere un’organizzazione così elaborata. La risposta di Bettini riformula in modo diverso l’idea già proposta da Le Corbusier, cioè che esiste un’intima relazione tra la gondola e la forma urbana di Venezia: una città nata su “un intrico di isole, di velme, di barene, e di canali tortuosi” vietava una voga da seduti, e imponeva di stare in piedi, di guardare con attenzione davanti a sé.

 

Ecco in un dipinto di Gentile Bellini (Il miracolo della Croce, Venezia, Gallerie dell’Accademia) le agili movenze di alcuni gondolieri, che assistono compunti al ritrovamento delle reliquie cadute in mare; uno di essi, scalzo, è fermo sul bordo della barca, in un equilibrio precario e sicuro allo stesso tempo. Le gondole sono lì, mutate nel corso dei secoli, ma neppure troppo. Una stabilità che colpisce Le Corbusier: “è un oggetto standard, ancora più standard dell’automobile”; l’architetto si chiede “per quale miracolo” non abbia mai modificato la propria forma, indifferente alla “evoluzione degli stili” e ai cambiamenti della moda; e conclude che proprio per questo poté acquisire “quella perfezione che a tratti ci rivelano i templi greci”. 

Ci riconosciamo ancora in queste parole (che non avevano alcuna intenzione provocatoria)? Siamo ancora disposti a considerare la gondola un’opera d’arte a tutti gli effetti, a pensare anzi che la sua è “una qualità estetica che appartiene solo alla grande arte”? Il fatto è che questa barca, se guardata con gli occhi di Le Corbusier e Sergio Bettini, scuote la visione comune dell’arte, fondata ancora sul “grande artista”, sull’opera “irripetibile” del “genio”, sul gesto “innovativo”, sull’“espressione della personalità” e su tutta una lunga serie di rassicuranti luoghi comuni (che rimangono tali anche se applicati all’arte contemporanea). La gondola non ha autore, non è un pezzo unico ed è anzi “standardizzata”, non è negli spazi algidi di una galleria d’arte, ma nei canali di una città lagunare (per quanto devastata dal turismo contemporaneo). 

 

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