Diario 11 / Assomigliare alla pietra

26 Agosto 2020

Mi trovo tra le montagne della Valsugana, il giorno di Ferragosto, all’ora del tramonto. C’è un gruppo di amici in un giardino, siamo seduti ad ascoltare musica. Una luce ardente si posa sui boschi circostanti, sulla parete di rocce che delimita il confine del giardino, sulla vigna del terreno adiacente, sui cani che giocano a rincorrersi nel prato. In un istante i colori del cielo mi appaiono in tutta la loro irrealtà, il cielo è effettivamente un altro luogo rispetto alla terra, un gigantesco varco su altri mondi irraggiungibili, come le fauci spalancate di un grosso cane. La padrona di casa canta con gli occhi chiusi in una sorta di beatitudine misteriosa. Distendo le gambe e stringo appena le palpebre per mettere meglio a fuoco l’istante che sto vivendo. Il tempo è rallentato, non conosco né stanchezza né tristezza, ma solo il piccolo incanto che si prova leggendo certe descrizioni maestose della natura, o contemplando un paesaggio di Constable. Ho la netta impressione che l’immagine delimiti la realtà, ma che non sia la realtà. Ciò che vedo è come quei giganteschi teli che ricoprono gli edifici storici in via di restauro sui quali è stampata una raffigurazione del palazzo, in modo da lasciare al passante l’impressione che il paesaggio urbano in quel punto non sia contraffatto, o che comunque la contraffazione sia meglio del cantiere a vista. La luce pre-serale, i colori cangianti, i giochi dell’animo, le misteriose associazioni mentali, il brillio delle foglie scosse dal vento, le voci, la musica che fluisce, sono il telo che ricopre la realtà. Intuisco solo in questo momento che se mi incuneassi al di là del telo, se mi ritrovassi al cospetto di quella realtà, lo stupore e la meraviglia mi ucciderebbero all’istante. 

 

Quando penso che non ho una buona autostima provo a farmi una domanda: è più veloce un uomo o una mucca? Io (senza autostima) rispondo: “Senz’altro un uomo”. 

Una mucca può correre alla velocità di quaranta chilometri orari. Il detentore del record del mondo sui cento e sui duecento metri va in media a trentasette. 

D’altra parte non so se la mucca abbia una buona autostima.

 

 

Sono seduto su un muricciolo alle spalle del duomo di Trento, in un punto in cui posso osservarne il transetto meridionale e l’abside. È domenica pomeriggio e in giro c’è poca gente. L’aria è densa e umida, si suda anche solo a respirare. Mi sono seduto per domare un attacco feroce e improvviso di malumore, una delle manifestazioni più banali della malattia di cui soffro e che mi trasforma, quando meno me lo aspetto, in una fontana svuotata. Gli unici intorno a me che si muovono con un certo ardore sono gli uccelli. Uno in particolare fa un chiasso del diavolo, cinguetta senza sosta mentre saltella sull’acciottolato beccando foglie e erba. È ancora piccolo, ha il corpo ricoperto di tenere piumette, e l’immediata e banale spiegazione che mi do per quell’insolito comportamento è che ha perso le tracce della madre. L’uccellino pigolante si avvicina ai miei piedi, lo osservo con accesa curiosità. Un istante dopo non lo vedo più. Ma so per certo che non è volato via, non sono neppure sicuro che abbia già imparato a volare. In ogni caso la sua sparizione dura pochissimo. Poi eccolo ricomparire nel punto esatto di prima. Il suo è una specie di gioco da illusionista: è sempre stato lì, a dispetto della mia distrazione, ma la tinta del suo piumaggio si era fusa per un istante al colore dell’acciottolato, senza che alcun punto del suo corpo si sovrapponesse al verde dei ciuffi d’erba che crescono tra le pietre. Molte specie di uccelli sono mimetiche, non è raro che un singolo esemplare scelga con cura il luogo in cui posarsi, preferendo ambienti che siano il più possibile in tono col loro piumaggio. Il camuffamento serve a nascondersi da eventuali predatori. In questo momento, tanto per me, che sono seduto annaspando nell’insignificanza generale, quanto per l’uccellino pigolante, assomigliare alla pietra che ricopre la strada è l’unico espediente per restare vivi.

 

 

Provo a mettere insieme i rumori di un primo pomeriggio agostano dal mio punto di ascolto, un giardino di città abbastanza discosto dalla strada da risultare immune al chiasso del traffico, e al tempo stesso immerso tra i palazzi dentro cui pullula la vita. 

Il primo rumore è il ronzio di un insetto. 

Il secondo rumore è il vento che fa cadere gli aghi di pino sul mio ombrellone, gli aghi di pino fanno un ticchettio che sembra la somma di piccoli passi sul selciato. 

Il terzo rumore è un uomo che starnutisce. 

Il quarto rumore è la pompa da irrigazione del vicino che schizza acqua all’improvviso, il getto dell’acqua compone una nube che investe i miei laurocerasi sulla recinzione di confine. 

Il quinto rumore è una serranda che si alza e le imposte che sbattono. 

Il sesto rumore è un cicalino. 

Il settimo rumore è lo spruzzo di un deodorante, o di una bomboletta di vernice. 

L’ottavo rumore è la portiera di una macchina che si richiude. 

Il nono rumore è la macchina che si mette in moto. 

Il decimo rumore è il canto di una tortora. 

L’undicesimo rumore è una chiave che apre la serratura di una grata di sicurezza. 

Il dodicesimo rumore è una moneta che cade su un pavimento. 

Il tredicesimo rumore è uno scatto remoto, la corrente che viene meno in tutto il circondario, gli allarmi nel quartiere che iniziano a risuonare rabbiosi nello stesso istante.

Il quattordicesimo rumore sono tutti i rumori all’improvviso.

 

Simone Weil: “In un vasto paesaggio […] non c’è armonia più piena del silenzio. Anche se attorno a noi vi sono uomini che parlano e fanno rumore, si percepisce il silenzio che plana dall’alto e che si estende fin dove si estende il cielo”.

 

Del tempo dei miei studi universitari ricordo una cosa che lessi nel Tractatus logico-philosophicus di Wittgenstein, una cosa che diceva più o meno questo: il libro in questione, cioè il Tractatus, lo avrebbe capito solo chi in vita aveva già pensato i pensieri che vi erano espressi. In altre parole Wittgenstein diceva che il Tractatus è un libro precluso a tutti, a eccezione del suo autore, che è ragionevolmente l’unico che ha già pensato i pensieri che vi sono espressi. Allora mi ricordo che questa idea mi si incollò addosso per tanto tempo, e tendevo ad applicarla a ogni libro, non solo quindi ai libri di logica filosofica, ma anche ai romanzi, e quindi tutti i libri mi apparivano pressoché incomprensibili, perché tutti i libri potevano essere veramente compresi solo da chi in vita aveva già pensato o vissuto i pensieri e le storie che vi erano contenuti. Per salvarmi il gusto della lettura allora cercavo di accontentarmi di quel poco che di ogni libro comunque avrei capito, tendevo quindi a considerare il libro come una tovaglia scrollata, o meglio come le briciole cadute dalla tovaglia scrollata, e tendevo a considerare il lettore più o meno come un cane affamato che si fionda sotto le gambe del tavolo in cerca degli avanzi del pasto e lecca il pavimento con furia e avidità. Anche questa immagine del cane lettore mi è rimasta incollata addosso da quei tempi, perché è esattamente così che mi percepisco ogni volta che cerco di entrare in un libro, so già che mi dovrò accontentare di molto, molto meno di quanto vorrei, e so che non sarò all’altezza, e sento il peso dello sguardo misericordioso dell’autore che mi sorveglia dall’alto con gli stessi occhi frementi e impietosi di Wittgenstein. Il vero problema mi si è posto quando ho iniziato a scrivere, perché quella stessa sensazione l’ho provata anche rileggendo le cose che avevo scritto. Allora mi chiedevo come fosse possibile. Essendo io l’autore, avevo senz’altro già pensato i pensieri che in quegli scritti erano espressi! Eppure rileggere quei pensieri non era la stessa cosa dell’averli formulati. C’era sempre qualcosa che mi sfuggiva, qualcosa che nel passaggio dalla trascrizione alla cognizione andava perduto. E mi chiedevo dove vanno a finire queste porzioni di senso, queste tare, queste sottrazioni che rendono la lettura un’attività per gente con una fame nera, una fame da cani.

 

Mancano pochi giorni a settembre, le punte delle clivie sono ingiallite, i petali sfioriti delle ortensie insistono sulle cime dei gambi, adesso hanno assunto una colorazione giallo-verde. Una begonia è morta, non credo di arsura ma di innaffiature eccessive. Si muore anche di questo, di troppa cura. Il mio giardino è in uno stato generale di sfinimento. Non riesco più a collocarmi nel tempo, la mattina e il pomeriggio sono indistinguibili, la notte assomiglia alla morte. Ieri ricapitolare i rumori che sento mi ha fatto toccare la farsesca monotonia di tutto questo. Avere una vita interiore è una prerogativa umana. La vita interiore si colloca in una dimensione lontana dai luoghi reali, è il posto dell’occultamento. Nel corso degli anni la mia vita interiore è stata motivo di dannazione, di dolore, di malattia, di angoscia, di dispiaceri, di tormenti. Adesso, immerso come sono in una solitudine cosmica, lancinante, memorabile, la vita interiore mi viene in soccorso, mi avvolge come in una morbida coperta. La mia vita interiore è un pugno contratto che mi accartoccia. Andare al lavoro, incontrare le persone, vivere, è strapparsi a forza, cocciutamente, dal caldo di quel pugno.

 

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