Ri-conoscere la guerra

20 Gennaio 2015

What’s done cannot be undone

Macbeth, V, 1

 

In uno solo, mi pare, dei diversi schermi occultati in discrete salette buie, nell’ambito del tortuoso percorso espositivo del Mart, viene proiettato un filmato “documentario” (non, per intenderci, un “pezzo” di video-arte come Zeno Writing di William Kentridge; né un film “d’invenzione” come l’archetipico J’accuse di Abel Gance; né immagini “d’epoca” – indipendentemente da quale epoca provenienti – artisticamente “trattate”, come quelle della Grande Guerra “ri-viste” con infinita pietas da Yervant Gianikian e Angelica Ricci-Lucchi nella loro Trilogia della guerra o quelle dei postumi di Desert Storm “ri-visti” con non meno coinvolgente compiacimento estetizzante da Werner Herzog). Sono dieci minuti – estratti da un originale di settantotto, conservato nei Fonds Première Guerre Mondiale dell’ECPAD, la Mediateca del Ministero della Difesa francese a Ivry sur Seine – che recano il titolo En dirigeable sur le champs de bataille (qui, con incongruo commento musicale – ancora il Wagner di Herzog! –, se ne può vedere un frammento ancora più breve). A realizzarle fu un ufficiale di marina francese, Jacques Trolley de Prévaux, che per le sue azioni in dirigibile fra il ’17 e il ’18 aveva conseguito la Legion d’Onore e la Croce di Guerra (nelle immagini lo vediamo a tratti di profilo mentre si volta, ai comandi, verso l’operatore piazzato alle sue spalle – operatore del quale non conosciamo invece il nome): nel ’19 prese l’iniziativa di riprendere dall’alto la linea del Fronte Occidentale, da Nieuport a Verdun, passando sopra luoghi tragici come Ypres e lo Chemin des Dames. Queste immagini straordinarie sono state scoperte solo alla fine degli anni Novanta e nel 2010 sono state montate insieme ad altre, da Mark Radice, in un documentario della BBC intitolato The First World War from Above. (Romanzesca – e infatti un po’ romanzata dalla figlia Aude de Prévaux in un libro del 1999, Un amour dans la tempête de l’histoire – la vicenda a venire di Trolley de Prévaux: il quale, all’epoca contrammiraglio nella marina rimasta preda di Vichy, entra nella Resistenza nel luglio del ’41 e passa informazioni segrete agli Alleati sino a quando viene arrestato dalla Gestapo, e fucilato insieme alla moglie Lotka: a Bron, vicino Lione, il 19 agosto 1944: a due settimane dalla Liberazione, cioè.)

 

Paola De Pietri | CASON D’ARIOSA, MONTE GRAPPA (dalla serie To face), 2009 | stampa digitale ai pigmenti su carta cotone, 129 x 156 cm | Courtesy l’artista e Alberto Peola Arte Contemporanea

 

Nulla sapevo del coinvolgimento di Trolley de Prévaux nella guerra successiva, quando a Rovereto mi ha colpito come una frusta il ri-conoscimento di quelle immagini. All’inizio le avevo osservate distrattamente, come le tante riprese dall’alto sulle città bombardate della Seconda guerra mondiale. Quelle immagini di palazzi sventrati e strade dissestate, quella vegetazione rasa a zero, quella spettrale luce quasi ultraterrena potevano ricordare quelle girate da Rossellini per Germania anno zero. Ma a un certo punto, scorgendo appunto il profilo dell’aviatore nella navicella, mi è venuto un dubbio; ho guardato la didascalia sulla parete, e ho capito che quelle non erano immagini della Seconda Guerra Mondiale – bensì della Prima. La prima guerra su grande scala, cioè (dopo l’esperimento con solerzia promosso da Giulio Dohuet durante l’invasione italiana della Libia, nel 1911), che vide l’uso dell’arma aerea. Uno choc non solo per la rarità di immagini a cui siamo tutti assuefatti, ma riguardo a situazioni di quasi trent’anni dopo, e così invece improvvisamente “retrodatate”; ma anche per la nuova dimensione che danno a un paesaggio mentale che (certo anche per il differente paesaggio, e dunque la differente tipologia di combattimenti, del fronte Italiano rispetto a quello Occidentale) non annoverava quel tipo di distruzione. Ancora una volta trovava conferma quanto già sapevo – ma che nulla come la violenza di un’immagine può far ri-conoscere –: della Grande Guerra come palinsesto primario, archetipico, della sostanza traumatica del Ventesimo Secolo. La Grande Guerra, come indicato da Eric Hobsbawm, quale inizio del Secolo Breve. E che per questo, nell’allestimento della mostra al Mart, può introdurre immagini di guerra successive – alternando le une alle altre senza riguardo della rispettiva cronologia e arrivando sino ai conflitti che punteggiano il nostro presente (di qui, pure, l’equivoco in cui si può cadere di fronte alle immagini di Trolley de Prévaux).

 

Lo sguardo dall’alto – idealmente la visione zenitale o in plongée, “in pianta” – com’è ovvio anestetizza, “astrae”, appunto allontana; ma, come appunto si scopre nei cieli della Grande Guerra, esso solo consente di “vedere” fenomeni che – al livello del terreno e “in prospezione” – sono invece resi del tutto illeggibili dalla confusione dei piani, dalla sovrapposizione delle linee, e non da ultimo dal dispiegarsi sul campo di battaglia – anche questa una novità tecnologica introdotta da quel conflitto – di fumogeni e altri paraphernalia concepiti per occultarsi, mimetizzarsi, rendersi invisibili. Una condizione che colpisce con forza, si capisce, chi di visione e d’immagini si nutre: all’indomani del congedo per esaurimento nervoso, nel ’15, Max Beckmann confessava per esempio l’angoscia provata per «lo spazio infinito, il cui primo piano deve essere sempre riempito con qualche robaccia in modo da non vedere la sua terribile profondità… per coprire in qualche misura quel buio nerissimo». Questo buio nerissimo è quello prodotto dall’uomo, dalla sua violenza; dagli infernali strumenti tecnologici impiegati per sopraffare e sterminare altri uomini. Lo stesso buio nerissimo esalato dai pozzi di petrolio dati alle fiamme dalle truppe irakene in fuga dal Kuwait all’indomani di Desert Storm, nella Prima Guerra del Golfo: e che sorvoliamo esilarati, in preda a un’euforia colpevole – selvaggiamente amplificata dal Götterdämmerung wagneriano sparato a palla dagli altoparlanti –, nelle Lektionen in Finsterris (Apocalisse nel deserto, 1992) di Werner Herzog. Immagini irresistibili, e in verità già classiche; ma che ripropongono una volta di più – in modo bruciante, è il caso di dire – il paradosso mai risolto del sublime, congiunzione inscindibile di bellezza e orrore («E salì un fumo… come il fumo di una fornace», risuonano le parole dell’Apocalisse giovannea).

 

Werner Herzog | LEKTIONEN IN FINSTERNIS, 1992 | produzione: Canal +, Première, Werner Herzog Filmproduktion | frame da video | © 1992 Werner Herzog Filmproduktion | Per gentile concessione di RIPLEY’S FILM Srl

 

Lo sguardo dall’alto è controveleno ideale, in ogni caso, rispetto a quella che potremmo chiamare la “sindrome di Fabrizio Del Dongo”: ovvero la situazione codificata da Stendhal nella Certosa di Parma, quando il giovane protagonista si trova nell’occhio del ciclone che travolge la sua generazione, cioè nel bel mezzo del campo di battaglia di Waterloo; eppure, di quanto avviene attorno a lui, non capisce assolutamente nulla («Ma questa è davvero una battaglia?»). Tra gli artisti di oggi che riflettono “da dopo”, e i cui lavori come detto troviamo esposti assieme a quelli di coloro che presero parte agli eventi bellici, chi ci fa più riflettere su questo doppio sguardo (e i suoi rispettivi punti ciechi) è lo spagnolo Mateo Maté in Restricted area (Europe) (2007): instradato in un percorso tortuoso da una serie di distanziatori – come quelli impiegati nei non-luoghi aeroportuali – a un certo punto il tuo sguardo è attirato da un display che mostra proprio la tua immagine, ripresa appunto dall’alto da una telecamera di sicurezza; solo allora capisci che fino a questo momento hai percorso uno spazio che disegna la forma planare dell’Europa. Non te n’eri ancora reso conto, insomma, ma – nell’aggirarti al livello del terreno – sei ancora in tempo di guerra.

 

L’indice col quale sono state raccolte le tante diverse tipologie di immagini (reperti di “archeologia di guerra”, immagini documentarie, immagini a finalità estetica prodotte da chi prese parte ai combattimenti in tempo di guerra, immagini prodotte a distanze cronologiche variabili rispetto agli eventi, immagini contemporanee che riprendono repertori di guerra o che riflettono ex novo su quei paradigmi e quelle circostanze) presenti alla Guerra che verrà non sarà la prima pare allora essere proprio la loro capacità di rivelare la storicità delle situazioni rappresentate. Le immagini sono cioè connotate da quello che Fredric Jameson, ragionando nel suo saggio su Brecht e il metodo (ed. orig. 1998; trad. it. Cronopio 2008) circa il debito di Brecht nei confronti di Freud, chiama effetto V (da Verfremdung). Non si tratta solo dell’effetto-choc col quale le immagini delle gueules cassées, i tormentosi feriti al volto, denunciavano – all’immediato dopoguerra ansioso di ortopedizzare, o celare del tutto, un mondo uscito letteralmente a pezzi dal conflitto – quella che era stata «la più grande officina di mostri della storia» (così Rocco Ronchi nel bel saggio compreso nel catalogo del Mart) – in una «terapia d’urto», come l’ha definita Susan Sontag, simile a quella somministrata ai suoi lettori dall’anarchico tedesco Ernst Friedrich, nel 1924, in Guerra alla guerra. Non è un caso che Cristiana Collu abbia dato alla mostra un titolo preso da Brecht (invitando Marcello Fois a scrivere sulle pareti bianche del museo una manciata di frasi prese dai testi di allora: in quelli che sono allora veri e propri “cartelli”, con la stessa funzione di quelli che “straniano” appunto le vicende del teatro brechtiano): se le immagini della guerra ci colpiscono alle viscere, se esse ci percuotono il plesso solare, se ci accecano travolgendoci d’emozione, il lavoro mentale che siamo qui invitati a fare (proprio come l’elaborazione del lutto freudiana) consiste nel loro ri-pensamento. Ri-conoscerle significa, in effetti, finalmente “vederle”.

 

Martha Rosler | CLEANING THE DRAPES (dalla serie House Beautiful: Bringing the War Home

 

Scrive Jean-Luc Nancy, nel bellissimo testo in catalogo, che il titolo del memorabile ciclo di incisioni di Goya, Los desastres de la guerra (realizzato negli stessi anni attraversati dal Fabrizio di Stendhal) allude proprio alla «perdita della visibilità» di cui si fa esperienza, per la prima volta, con le guerre napoleoniche (e che trionferà definitivamente col sovvertimento della luce naturale sui fronti tecnologici della Grande Guerra): «perdita dell’astro, perdita della sua luce tutelare». Perdita definitiva, cioè, degli ideali cavallereschi coi quali si poteva pensare di andare alla guerra nell’ancien régime (e coll’uso spregiudicato dei quali la propaganda poté spingere all’accettazione esultante del massacro i giovani dell’agosto ’14, del maggio del ’15) e «smarrimento nell’oscuro, nel magma, nella confusione, nella devastazione, nel ripugnante, nell’ignobile». Accendere una luce su questo magma, rendere finalmente visibile la sostanza traumatica della guerra, vuol dire rivelarne il «fondo informe»; vuol dire sancire una volta per tutte che «sempre e a dispetto di ogni Causa, e a maggior ragione quando le Cause collassano, essa è insostenibile». Per questo occorre sostenere con stoicismo questa luce oscura, bisogna tenere fissi gli occhi sulle immagini del disastro: esse «brillano e ci avviluppano in un lampo nero» – proprio come quelli corruschi che ci mostra Herzog… – e solo allora, forse, «il ritiro degli astri, il loro arretramento o la loro caduta, impone la sua chiarezza – forse la giustizia stessa». Il momento di tale giustizia, per dirla con Walter Benjamin, è allora il momento della conoscibilità: di quei disastri.

 

A tal fine, la figura retorica che ha scelto di impiegare la mostra di Rovereto (così come quella di Trieste, di cui si dà conto a parte, nello scegliere di far “rimare” la Sarajevo del 1914 con quella del 1992: al modo in cui fece – ricorda Hobsbawm all’inizio del Secolo breve – François Mitterrand scegliendo proprio la data dell’attentato di Prinzip, il 28 giugno, per cercare in extremis una mediazione che scongiurasse il conflitto nell’ex-Jugoslavia) è quella della ripetizione. Questo il senso dei versi di Brecht che le dànno il titolo: «La guerra che verrà / non è la prima. Prima / ci sono state altre guerre. / Alla fine dell’ultima / c’erano vincitori e vinti. / Fra i vinti la povera gente / faceva la fame. Fra i vincitori / faceva la fame la povera gente / egualmente». Le guerre della modernità – i disastri della guerra – non fanno altro che ripetersi: scavando sempre più a fondo, ogni volta, nel calco del trauma precedente. Calcandolo e ricalcandolo. Come ricorda in catalogo Massimo Recalcati, fu proprio in seguito allo studio delle nevrosi post-traumatiche di guerra (Al di là del principio del piacere esce nel 1921) che Freud poté porre le basi della pulsione di morte: che identifica infatti con l’esigenza, da parte del nevrotico, di ripetere il male.

 

Simmetricamente opposta alla coazione a ripetere del nevrotico – colui che non riconosce la matrice del dolore che avverte, e che Freud chiama melanconia – è quella che Paul Ricoeur definisce rimemorazione: accostandola a quella che Freud, di contro, appunto definiva elaborazione del lutto. Proprio i bellissimi libri tardi di Ricoeur (Ricordare, dimenticare, perdonare, 1998, tr. it. il Mulino 2004; La memoria, la storia, l’oblio, 2000, tr. it. Cortina 2003; Percorsi del riconoscimento, 2004, tr. it. Cortina 2005) ci insegnano come «trasporre sul piano della memoria collettiva e della storia le categorie patologiche proposte da Freud». Una guerra si sussegue all’altra, lo sappiamo, rivendicando le ferite della precedente – la «vittoria mutilata», l’«onta di Versailles» –; in questo senso la guerra che verrà non è la prima: in quanto essa reagisce alla precedente come riparazione nevrotica, ossia come vendetta. È questo, in particolare, il meccanismo micidiale che continua a impedire, oggi, una soluzione pacifica all’annosa vicenda israeliana e palestinese (ma i nazionalismi esasperati che reagiscono alla globalizzazione, negli ultimi decenni, spingono la loro sete di sangue a cercare vendette non relative alla memoria recente bensì alla storia remota: si pensi a come quello serbo è riuscito a strumentalizzare il mito fondativo della Battaglia della Piana dei Merli, Kosovo Polje, risalente addirittura al 1389). Esattamente allo stesso modo in cui (scrive Freud in un lavoro del 1914, Ricordare, ripetere e rielaborare) il nevrotico «riproduce quegli elementi non sotto forma di ricordi, ma sotto forma di azioni; li ripete, ovviamente senza rendersene conto». Quella che Freud definisce «riconciliazione» col proprio «rimosso» si rende possibile (si legge in Lutto e melanconia, del 1915) solo col «lavoro della memoria»: Durcharbeiten ovvero «elaborazione», o piuttosto – corregge Ricoeur – «rielaborazione del lutto». Questo lavoro, spiega il filosofo, è «simmetricamente contrapposto a coazione: lavoro di rimemorazione contro coazione a ripetere».

 

Mi pare questo il senso dell’allestimento al Mart – che trovo riassunto, in catalogo, in queste parole di Gabi Scardi: «crediamo che le commemorazioni abbiano senso se si collocano tra un passato da metabolizzare e un futuro da costruire; e se, piuttosto che ispirarsi a un generico e spesso conciliante dovere di ricordare, da un lato fanno riferimento al rigore dell’indagine storica, dall’altro all’imperativo di un’assunzione di responsabilità: si tratta di lavorare su noi stessi e di fare i conti con ciò che siamo, ciò che siamo diventati e che potremo essere» (corsivo mio). È innegabile che tanta parte delle ricerche artistiche degli ultimi tempi si siano indirizzate ai nodi più dolorosi del passato recente; e talora senza riuscire a evitare il sospetto di strumentalizzarli, se non di scientemente mistificarli. Ma è un rischio che va corso: se è vero che, prosegue Scardi, «proprio attraverso l’arte» (cioè in «modi obliqui, talvolta arbitrari rispetto alla verità storica, ma capaci di cogliervi indizi latenti») è dato «chiedere cosa significhi, per l’uomo di oggi, considerarsi parte della storia».

 

Eric Baudelaire | THE DREADFUL DETAILS, 2006 | c-print, diasec, 209 x 375 cm (dittico) | The Pinnel Collection

 

L’installazione di Fabio Mauri Pic nic o il buon soldato, originariamente elaborata nel 1998, è in questo senso esemplare: trattando come «reliquie laiche» e «nature morte» reperti originali della Seconda guerra mondiale, e disponendoli in «un unico ambiente che sembra unire spazialità e temporalità differenti», mentre sulla scena «due ragazze e un soldato distribuiscono ai presenti un pasto caldo mentre sulla schiena nuda di una giovane donna un vecchio apparecchio proietta La ballata di un soldato di Grigorij Chukhraj» (così Saretto Cincinelli in catalogo). Con questo collage metastorico Mauri racconta un’altra storia: la sua. In modo non così dissimile ha lavorato Ermanno Olmi nel suo film, Torneranno i prati, allestendone la scenografia con veri reperti della Grande Guerra (rinvio al mio Ceneri sotto la neve); ma così funziona pure nel suo complesso, a ben vedere, l’insieme dell’allestimento del Mart: proprio col gesto – che sulle prime può lasciare perplessi – di accostare «pezzi di guerra sporgenti da terra», come quelli così definiti da Andrea Zanzotto nel suo Galateo in Bosco, ai Sacchi di Alberto Burri o alle luminarie fotografiche di Christian Boltanski (tutta l’«immondizia sacra» – così definita in catalogo da Denis Isaia – che ci accoglie all’inizio dell’esposizione: squassante l’effetto dei giganteschi, grotteschi soprascarponi di paglia intrecciata rinvenuti nel 2009 a Punta Linke, sito austroungarico nel gruppo dell’Ortles e considerato il luogo della memoria più alto d’Europa, situato com’è a 3629 metri d’altezza; spiega Franco Nicolis nell’interessante suo testo in catalogo come questo genere di reperti comporti protocolli di raccolta e interpretazione non diversi da quelli dell’archeologia e parla infatti – non nel senso metaforico post-foucaultiano cui siamo abituati – di «archeologia del mondo contemporaneo»).

 

Quelle che Mauri chiamava «azioni complesse» (distinguendole con puntiglio dal contesto tradizionalmente teatrale, da un lato, e, dall’altro, dalle procedure tipiche dell’arte concettuale dei suoi tempi) sono alla lettera re-enactements: attingendo a piene mani al proprio personale vissuto memoriale e psichico (i riti infantili della buona borghesia acquiescente, i ludi tronfi dei Littoriali del ’38 ai quali aveva partecipato dodicenne, i remoti rombi di guerra avvertiti durante l’adolescenza...). La rielaborazione operata dall’«azione complessa» funziona, così, davvero come una rimemorazione: con la riemersione del rimosso individuale, messo a nudo – è il caso di dire – è il rimosso collettivo, storico, di un’intera nazione. C’è evidentemente qualcosa di respingente, e anzi propriamente di osceno, in questo modus operandi: ma è proprio quanto è vitale assumere (allo stesso modo, annota in modo sorprendente Franco Nicolis, spingendosi sino a Punta Linke si prova un’esperienza inaspettata attraverso quello che è il senso della memoria per eccellenza: «l’odore che emanano gli oggetti che escono dal ghiaccio è lo stesso odore che essi emanavano cento anni fa, ed esso diventa quasi un oggetto materiale, un reperto. L’odore di quegli oggetti è l’odore della guerra; in quello spazio, quell’odore è la guerra stessa»). Non diverso lo spirito di Gianikian e Ricci-Lucchi (in un passo citato in catalogo da Cincinelli): «Non usiamo l’archivio per se stesso, usiamo il già fatto, con un gesto alla Duchamp, per parlare di noi, di oggi, dell’orrore che ci circonda».

 

Così procediamo al Mart, di anamnesi in anamnesi, in una sorta di tunnel dell’orrore metastorico. E all’improvviso ri-conosciamo nella sequenza fotografica della messa a morte di Cesare Battisti, l’11 luglio 1916 nella fossa del Castello del Buonconsiglio, a Trento (non solo esibito al ludibrio della folla, come nella tradizione delle messe a morte dei traditori, ma anche ossessivamente fotografato in immagini che fecero il giro del mondo: proprio l’immagine efferata del “boia di Stato” Josef Lang, giunto appositamente da Vienna, che irride il cadavere ai suoi piedi, fu messa nel 1922 da Karl Kraus all’inizio dei suoi Ultimi giorni dell’umanità, commentando: «non già il fatto che ha ammazzato, né che l’ha fotografato, bensì che ha fotografato anche se stesso, e che si è fotografato mentre fotografa, questo rende il suo tipo il ritratto imperituro della nostra cultura»), scrive Diego Leoni in catalogo, il «modello perfetto di rappresentazione per ciò che ancora doveva andare in scena nel teatro mondiale della crudeltà, da Auschwitz ad Abu Ghraib, alla Siria di questi giorni» (un’analisi non diversa aveva fatto Giovanni De Luna nel Corpo del nemico ucciso, Einaudi 2006).

E, viceversa, capiamo il senso dell’illuminazione in verde e nero – desunta dalle riprese all’infrarosso realizzate dalla CNN a Baghdad durante la prima Guerra del Golfo – che Thomas Ruff ha dato alla sua serie Nächte, dedicata tra il 1992 e il ’96 al “pacifico” scenario urbano notturno di Düsseldorf. Si capisce allora come i percorsi del riconoscimento che è in grado di offrirci l’arte contemporanea – mai come in questo caso rispondente al paradigma “anacronistico” offerto da Giorgio Agamben con la sua definizione (tenuta ben presente dai curatori della mostra) di Che cos’è il contemporaneo? (nottetempo 2008): «contemporaneo è chi riceve in pieno viso il fascio di tenebra proveniente dal suo tempo» – siano in grado di svelare la filigrana violenta del nostro tempo. Quella cioè che Papa Francesco – assumendosi un compito che sarebbe spettato al suo predecessore, il quale pure aveva preso un nome in tal senso non innocente – commemorando l’«inutile strage» di un secolo fa al sacrario di Redipuglia, lo scorso 13 settembre, ha definito una «terza guerra mondiale combattuta “a pezzi”, con crimini, massacri, distruzioni».

 

Giacomo Balla | LA GUERRA, 1916 | olio e collage di carte colorate su cartone, 64 x 94 cm | Unicredit Art Collection

 

Esemplare, fra tutte le opere in mostra al Mart, è in questo senso la serie House Beautiful: Bringing the War Home, realizzata fra il 1967 e il ’72 da Martha Rosler (ma significativamente dalla stessa riproposta nel 1991 e poi nel 2004 e nel 2008, in occasione delle nuove guerre americane in Iraq e in Afghanistan): «montaggi in cui immagini tratte dalle notizie della guerra in Vietnam contaminano la dimensione protettiva e rassicurante di interni domestici da pubblicità», scrive Gabi Scardi. La sostanza traumatica della guerra invade così il fronte interno, che vive imperturbato il suo sogno consumistico borghese: «come a dire», prosegue Scardi, «che qualsiasi immagine può essere neutralizzata da una società che consuma tutto». Ma è altresì vero che il collage decontestualizzante di Rosler, se non sortisce l’effetto di «produrre l’accesso ad un’altra realtà», può «porre in evidenza rapporti occultati della nostra realtà» (Cincinelli): può farci riconoscere, cioè, la sostanza traumatica della nostra “pace”. Con strumenti diversi e intenti in apparenza opposti, si colloca a ben vedere in questa dimensione il lavoro di Eric Baudelaire, The Dreadful Detail del 2006. Un dittico fotografico di grande formato (209 x 375 cm) pare riprodurre “documentariamente” una “tipica” scena di guerriglia dell’Iraq di quegli anni, con una squadra di militari che punta le armi su un gruppo di civili, subito dopo un’esplosione che ha lasciato sul terreno cadaveri e macerie. Analizzando più attentamente l’immagine, però, capiamo che si tratta di una messa in scena: si scorge un cineoperatore vicino al gruppo dei civili, e un numero inverosimile di dettagli paiono citare in scena le immagini più memorabili del repertorio bellico (da Goya a Picasso). Anziché “denunciare” un fatto avvenuto fra tanti, Baudelaire ragiona con sottigliezza sulle nostre tecniche di rappresentazione, sui nostri pregiudizi etici e politici, appunto sulla nostra capacità di ri-conoscere.

 

È questa l’archeologia che opera l’arte: la messa a nudo degli effetti della guerra su un paesaggio che è metafora della nostra scena mentale. Come nella serie di fotografie, Fait, realizzate da Sophie Ristelhueber nel 1992, percorrendo il territorio del Kuwait pochi mesi dopo la fine di Desert Storm; o quella dal titolo Atlantic Wall, del ’95, nelle quali Magdalena Jetelová ri-mette in scena le fantomatiche, tenebrose rovine delle fortificazioni costruite dai tedeschi nel ’43-44, sulle spiagge francesi in attesa dello sbarco degli Alleati, riprese con un chiaroscurale bianco e nero al cadere delle tenebre, sovrapponendovi scritte luminose tratte da un libro profetico e seminale pubblicato vent’anni prima, Bunker Archéologie di Paul Virilio. In una di esse si legge della DISAPPEARANCE OF THE BATTLE GROUND: e davvero quello su cui fanno riflettere Virilio, e dopo di lui Jetelová, è la progressiva cancellazione che il tempo opera su quelle tracce: lentamente restituendo alla natura artefatti umani che ricordano le tragedie vissute nel passato. L’artista-archeologo interrompe questo processo di rimozione: riportando alla luce il trauma, facendocelo riconoscere. Lo stesso aveva fatto, fra il 1953 e il ’70, il grande Josef Sudek – reduce mutilato dall’Undicesima Battaglia dell’Isonzo, come racconta Diego Leoni – col suo ciclo Zmizelé sochy [Le statue svanite]: riprendendo un grande albero spezzato, spezzato appunto dall’infuriare della Grande Guerra, che però a distanza di decenni si erge, solitario ed enigmatico come un monolite kubrickiano, in un paesaggio che non reca altra traccia di quanto lì si consumò. Ed è quanto ha fatto – assai più di recente, nel 2009 – Paola De Pietri nella sua serie To face: mostrando come i territori montani in cui si combatté la Grande Guerra siano ormai quasi del tutto restituiti al loro aspetto primitivo, con i camminamenti e le trincee ancora a tratti percettibili, palinsesti appena intuibili di quanto è stato.

Il titolo di Olmi si spiega con le parole che si scambiano a un certo punto i soldati del suo film, sepolti dalla neve nel loro riparo ad alta quota. Dicono «torneranno i prati», e aggiungono: «e nessuno si ricorderà di ciò che è accaduto». Gli artisti del nostro tempo si sono assunti il compito, la responsabilità di dare loro torto. Essi ci consentono, o ci ingiungono, di riconoscere la guerra: di guardarla in faccia.

 

La guerra che verrà non è la prima 1914-2014

progetto di Cristiana Collu, a cura di Nicoletta Boschiero, Saretto Cincinelli, Gustavo Corni, Gabi Scardi e Camillo Zadra

MART, Rovereto, 4 ottobre 2014-20 settembre 2015. Catalogo Electa, pp. 643, € 55

 

L'Europa in guerra. Tracce del secolo breve, a cura di Piero Del Giudice

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