La poesia si scrive guardando

1 Settembre 2011

 

Il film di Lee Chang-dong Poetry inizia con la visione di alcuni bambini che giocano sulla riva di un fiume e con la ripresa che successivamente si sposta in un’inquadratura aperta sull’orizzonte. L’acqua del fiume viene colta nel suo procedere lento, quasi immobile, predisponendo il nostro sguardo all’attesa di qualcosa che deve sopraggiungere, a un senso di predestinazione che il lento farsi incontro di quelle acque ci deve rivelare. Il fiume in effetti porterà il cadavere di una giovane di cui non riusciamo a vedere il volto perché il corpo è riverso a pancia in giù, come se, dimentico di se stesso e della sua necessità di respirare, cercasse di guardare nella profondità di quelle acque per carpire il segreto del loro scorrere.

 

 

Scopriremo poi che si tratta del cadavere di una ragazza suicida a causa delle violenze sessuali che sistematicamente da mesi subiva da un gruppo di ragazzi della sua stessa scuola. Uno di questi è il nipote della protagonista del film. I due vivono insieme da soli nella stessa casa. Pur venendo a conoscenza di quello che il ragazzo ha fatto la donna non riesce mai ad affrontare direttamente con lui il problema. Continua tuttavia a osservarlo con uno sguardo per noi indecifrabile, forse nel tentativo di immaginarsi come quella persona davanti ai suoi occhi, quella persona amata, possa essere la stessa ad aver compiuto quei gesti di violenza. Arriverà anche a mettere una fotografia della ragazza sul tavolo dove il giovane abitualmente mangia. Ma una volta seduto al tavolo è come se quell’immagine non esistesse, il ragazzo si limita a mangiare e a guardare la televisione che non viene mai mostrata. Vediamo così soltanto il suo sguardo che osserva un punto per noi indefinito, un orizzonte del tutto vago, uno sguardo capace soltanto di confermare che non sente affatto il bisogno di doverci guardare dritto negli occhi.

 

Tutto sembrerebbe precipitare, eppure il film non assumerà mai i toni della tragedia. Neppure quando la donna scoprirà di essere affetta dall’alzheimer. In fondo, quelle parole di uso comune che ogni tanto non le vengono in mente la fanno soltanto sorridere, così come quando cercherà il proprio borsellino e le faranno notare che ce l’ha già in mano. Un certo contrasto tuttavia tra la gravità dei fatti che il film ci mostra e l’espressione del suo volto, quasi sempre avvolto da una sottile assenza sorridente, ci lascia leggermente perplessi. Il contrasto si fa ancora più evidente quando deciderà di iscriversi a un corso di poesia.

 

 

Seduta al banco, come se fosse tornata a scuola, la prima cosa che sente dal poeta-maestro è che le poesie si scrivono imparando a guardare. Di nuovo qualcosa che contrasta con i toni della tragedia, anziché doversi accecare, come Edipo, per ricercare l’occhio del sapere, l’unico in grado di non ingannare e di rivelare la verità, lei dovrà invece spalancare ancora di più gli occhi, ricercare apertamente quella parte d’incanto che il suo sguardo non è stato capace di cogliere proprio perché si accontentava di quello che già sapeva. Dovrà soltanto trovare la forza di osservare un attimo in più il mondo che abitualmente la circonda, senza cercare niente di particolarmente nuovo: guardare e prendere appunti di quello che semplicemente i suoi occhi hanno avuto la fortuna d’incontrare.

 

Il contrasto tra il racconto del film che impietoso volge verso il suo epilogo e la ricerca di un nuovo sguardo da parte della donna assume ora tutta la sua evidenza. Il film è come ci costringesse a tenere un doppio registro visivo sull’unicità delle immagini che lo compongono. Da una parte la tipica struttura del racconto il cui vero motivo è dirci come andrà a finire, chi vincerà o subirà la sconfitta definitiva, dall’altra la poesia, che pur senza darci alcuna rassicurazione indugia su ciò che è accaduto perché non possa svanire come se non fosse mai stato. La donna infatti, mentre prende appunti trascrivendo letteralmente il dettaglio che emerge ai suoi occhi, ripercorrerà alcuni luoghi dove lo sguardo della ragazza suicida si deve essere in qualche modo posato: il laboratorio di chimica dove veniva violentata, una stanza della casa dove abitava, il parapetto del ponte da cui si è gettata.

 

 

L’ultimo giorno del corso di poesia, pur risultando assente, la donna sarà l’unica ad avere portato a termine il compito che il maestro aveva assegnato a conclusione del lavoro svolto in comune: riuscire a scrivere una poesia. Sulla cattedra, insieme a un piccolo mazzo di fiori, è posato il foglio con la poesia che la donna ha composto. Il maestro ne promette la lettura, ma in quel momento l’inquadratura si sposta, passando dall’aula alla casa vuota della donna. Da lì, da quello spazio vuoto, la voce fuori campo della donna inizia a leggere la poesia. Sono versi dedicati alla ragazza suicida. Come se tutti gli appunti presi, in quel momento di stupore quotidiano per ciò che i suoi occhi vedevano, fossero completamente orientati a donare ancora una volta, sebbene nel consapevole dolore di un ritardo irreparabile che le stesse parole della poesia denunciano, uno sguardo a chi non poteva far altro che rivelare la propria assenza.

 

Il momento è di un’effettiva intensità poetica. Attraversati dal tono di leggera interrogazione che la poesia declama, ci sentiamo profondamente toccati nel ripercorrere le immagini dei luoghi dove la donna si soffermava a prendere i suoi appunti. Sono ora luoghi vuoti, occupati soltanto dal nostro sguardo e dalle parole della poesia che come in trasparenza si uniscono alla nostra visione. Ci predisponiamo così alla conclusione del film, sentendoci colmi di quel momento di profonda commozione. Ma sorprendentemente al posto della voce della donna subentra nella lettura fuori campo la voce della ragazza: i versi sono ora letti da lei direttamente in prima persona.

 

 

Rimaniamo interdetti dal fatto di non essere più noi a dover dare, insieme alle parole della donna, uno sguardo alla ragazza, ma è lei che ci restituisce direttamente il proprio sguardo. Disorientati da questa improvvisa inversione non riusciamo a seguire con attenzione le immagini del film, se non nel momento in cui vediamo la ragazza ripresa di spalle che si avvia verso il parapetto del ponte da cui si è gettata. Con un fondo d’inquietudine, ci predisponiamo a sentire le ultime parole della poesia e ad assistere al suo salto nel vuoto, invece, ancora una volta messi di fronte alla nostra attitudine al tragico, la ragazza inaspettatamente si volta verso la telecamera e il primo piano del suo volto riempie lo schermo.

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