Il sale della terra

11 Luglio 2014

Ho sempre rispettato troppo e il vino e il dolore per non evitare di mescolarli. Se ho avuto dellindulgenza verso lalcool, è sempre stato per il motivo opposto: sentendomi felice, per esserlo ancora di più; per abbandonarmi tutto alla felicità.”

 

Nella lingua netta e essenziale di Mario Soldati – in grado spesso di far intravedere la luce che era sempre stata nelle cose – si coglie una delle verità elementari del nostro rapporto con il vino, ovvero la sua affinità con la gioia, con sensazioni distanti anni luce dagli effetti ansiolitici, soporiferi e narcotici degli alcolici e dei bevitori.

 

"Il vino è la poesia della terra" è stato poi un motto dello stesso autore che riporta allo stretto legame con i luoghi e il lavoro dell'uomo, alla civiltà contadina profonda, ad un destino i cui echi, almeno alle origini, sono stati soprattutto mediterranei, caucasici, mediorientali. Il vino: elemento della triade mediterranea olio, pane, vino e della cultura materiale di intere civiltà, simbolo e medium religioso di Atene come di Gerusalemme, dal mondo pagano a quello cristiano.

 

 

La vite: la terra è del resto una storia intimamente legata all'agricoltura, al paesaggio, ad una cultura che nel dirsi mediterranea, coglie solo in parte il profondo significato delle cose in un mondo globalizzato in cui il vino è diventato in realtà bevanda in qualche modo "normalmente elitaria", biglietto da visita dell'Occidente che "mangia bene", attento al benessere come al buon gusto, sensibile alla tradizione come alla modernità, l'Occidente ricco e confusamente ecologista, elitario e democratico.

 

Il vino come bevanda alcolica buona e giusta della cultura occidentale è forse uno dei leit motiv che lentamente e confusamente si sono imposti in questi anni nel mondo dei consumi.

 

Almeno in Italia, è "anche" questa una storia che è raccontata lucidamente da Corrado Dottori nel suo Non è il vino dell'enologo (Derive Approdi, 2013). Questa storia e la declinazione attuale delle dimensioni che Soldati vedeva nel vino – la gioia e il legame con la terra – sono le tracce in cui si snoda il lavoro di Dottori, produttore di 'vino naturale' in quel di Cupramontana, Marche, dopo una iniziale carriera spesa e alla fine rifiutata nelle banche d'affari di Milano. Una scelta esistenziale quella dal mondo della finanza all'agricoltura sulle orme lasciate su quel terreno dal padre e ancor prima dal nonno, cercando di produrre un vino – il Verdicchio – senza compromessi se non quelli dettati dalla ragione e dalla natura, rifiutando ogni logica di prodotto, di marketing fine a se stesso, di vino come status symbol, "dentro e fuori di ogni Milano da bere'.

 

 

Un percorso quello di Dottori che diventa anche riassunto, metafora e sostanza di questi anni in cui un'economia malata di finanza e un "risico finanziario" costruito su bolle, derivati, speculazioni matematiche dell'azzardo scopre la sua falsità lasciando le generalità delle persone a fare i conti con il significato di crisi: sociale, economica, culturale, personale.

 

Lungo questa parabola e questa metafora, il lavoro dell'agricoltore, il lavoro manuale in vigna e in cantina, i tempi della natura e di una naturale concretezza diventano basi sulle quali ricostruire una nuova esistenza ma anche interrogarsi su differenti modelli di produrre, su una differente economia, su un diverso modo di concepire il territorio, il lavoro dell'uomo, le proprie azioni quotidiane, in definitiva la vita.

 

Perché il lavoro in vigna (e sulla terra) si fa con le mani "dentro" la natura, e se si possiede cultura – quella fatta sui libri, sulle parole, sulle idee (Dottori ci rivela che non a caso all'università le sue preferenze andarono all'esame di ermeneutica rispetto ad altri come analisi finanziaria) – e la voglia di interrogarsi continuamente sul senso delle cose, improvvisamente o lentamente può arrivare il momento in cui si rimette insieme le due metà del cielo, il momento in cui l'economia e l'ecologia, la propria vita e quella degli altri, la terra e la modernità, la memoria e il presente, gli affetti riacquistano una loro composizione aldilà dell'oggetto specifico del proprio lavoro, si chiami questo "vino naturale" o semplicemente Verdicchio.

 

In una delle pagine più belle del libro si può forse trovare l'esito di questo percorso in forma "distillata":

 

Io non so se ci riusciremo. A considerare il vino come nodo fondamentale del problema della terra. Perché in fondo il vino è un settore privilegiato dell'agricoltura. Forse dovremmo semplicemente tornare a considerarlo un mezzo: un attivatore di relazioni, un facilitatore culturale, un cibo dello spirito. Ecco, l'unico per me è questo: il vino non più come fine di una degustazione sufficiente a se stessa, ma "mezzo", strumento potente di convivialità e approfondimento culturale. Per parlare di agricoltura e modelli di sviluppo. Per tornare a relazionare città e campagne.

 

La vigna e il vino... una sorta di sale della terra, distillato di umanità e di cultura che dalla terra anelerebbe allo spirito... Il libro di Dottori coglie questo aspetto, che lo rende diverso dai tanti presenti oggi sul tema. Il vino, e più in generale il cibo, non devono cioè essere vissuti – né tantomeno "scritti e raccontati " – come sorta di feticci, ma come elementi che si legano al reale in mille modi diversi, ponti in cui si avvicina la realtà con tutta la fisicità dell'atto alimentare ma anche con la razionalità che mettiamo nello scegliere, con l'irrazionalità del piacere...

Fuori dalla sopravvivenza è in fondo questo ciò che mettiamo nell'atto alimentare, esperienza profondamente umana, seconda in questo forse solo a quella amorosa.

 

Analogamente e per contrasto, quando poi l'alimentazione diventa oggetto di studio spesso è la specializzazione a farla da padrona: scienza dell'alimentazione , dietetica, storia, letteratura, gastronomia, antropologia hanno dettato in questi anni regole e tendenze con cui leggere il cibo e l'atto alimentare.

Regole e tendenze che hanno fornito e forniscono risposte interessanti, suggestive interpretazioni ai tanti dubbi dell'homo culinarius che siamo diventati ma mai completamente esaurienti per la complessità di significati che mettiamo nel cibo e nell'atto alimentare.

 

È per questo motivo che libri come quello di Giuseppe Rotilio appaiono particolarmente significativi e possono offrire un reale contributo di conoscenza. Biochimico e medico, accademico, Rotilio coniuga il rigore delle specifiche competenze disciplinari ad interessi e conoscenze in campi contigui – la genetica, la medicina– ma anche in aree non limitrofe – è il caso dell'antropologia e della storia dell'alimentazione – per tracciare un quadro di conoscenze mai specialistiche, mai piegate ad una teoria, ad una tendenza tanto meno ad una sola disciplina.

 

 

A cominciare dal titolo Il migratore onnivoro (Carocci Editore, 2012) Rotilio parte dall'origine e dalla madre di tutte le domande – qual è l'alimentazione ideale per l'uomo? – fissando il suo sguardo sulla specie e sulle sue caratteristiche più ancestrali. Vale a dire quelle di mammiferi bipedi, per natura migranti su territori sempre più estesi, con un destino alimentare lentamente costruitosi su caratteristiche genetiche e il loro lento adattamento in ambienti e climi lentamente, o talvolta drasticamente, mutati. E poi l'azione che nuovi adattamenti – e nuove scelte alimentari – hanno potuto avere sull'evoluzione della specie, in particolare sull'evoluzione dell'encefalo, vero grimaldello con cui dal paleolitico al neolitico l'uomo è passato via via dalle diverse fasi della preistoria alla storia.

 

Da specie fondamentalmente erbivora come le vicine scimmie antropomorfe, alla migrazione in nicchie ecologiche ai margini delle foreste dove semi e frutta secca diventano importanti fonte di grassi omega tre (che favorirono l'encefalizzazione...) alla progressiva migrazione della specie dall'originaria culla africana lungo le coste e l'affermazione di un onnivorismo fatto di molluschi, crostacei, piccoli pesci (e ancora alimenti ricchi di grassi omega tre che favorirono un'ulteriore encefalizzazione).

 

Oltre, sarà l'avvento di una prima rudimentale tecnologia ad allontanarci dagli altri primati. Tecnologia è infatti parola dall'accezione non solo moderna. Una diversa capacità di produrre lame litiche determinerà una diversa efficacia come cacciatori (e come carnivori) che raggiungerà il suo massimo già nel paleolitico. Trasformazioni del regime alimentare succedutesi in milioni di anni di cui resta memoria nei nostri geni (di qui l'importanza nella nostra dieta attuale dei vegetali, della frutta secca, dei piccoli pesci...). Trasformazioni che dall'avvento della rivoluzione neolitica determineranno poi una profonda scissura con il passato e con un adattamento con l'ambiente che fino ad allora aveva vissuto lunghissimi scenari temporali.

 

 

Diecimila anni – tale è la distanza che ci separa dalla rivoluzione neolitica e da un destino di agricoltori sedentari mangiatori di cereali, carni allevate, zuccheri e grassi concentrati – infatti sono poca cosa perché la nostra specie si sia adattata al massiccio afflusso di nutrienti che ne è derivato e a cui siamo ancora impreparati...

Sono le conseguenze dell'invenzione dell'agricoltura e dell'allevamento, dell'avvento della civiltà stanziale e della vita urbana , di giorni in fondo già simili ai nostri. Sarebbe la diffusione relativa di genotipi conservatori, ovvero quelli adattatisi nei milioni di anni in cui la carenza di cibo era un'esperienza prevista nei cicli naturali, a favorire quelle che ancora oggi sono chiamate malattie del benessere, incidenti nel corso dell'evoluzione perché erano stati quegli stessi genotipi ad essere stati sempre favoriti prima dell'avvento dell'agricoltura e della società stanziale.

 

Così, obesità , diabete, ipertensione etc., possono essere lette non solo sotto la ristretta lente della medicina (che cura certamente ma che spesso non riesce a spiegare le malattie ai malati e tanto meno ai sani...).

Tutti aspetti di un'attualità e storia recente della parte ricca dell'umanità, ma anche in altre epoche storiche lo stesso sguardo trasversale originatosi tra genetica, nutrizione ed evoluzione può cogliere segni di verità: è il caso delle invasioni barbariche che rispettivamente in Occidente e nell'estremo Oriente posero fine all'impero romano (la massima espressione delle antiche società agrarie e sedentarie) e all'impero Han.

 

La storia può essere riletta parzialmente anche alla luce dell'efficienza di antichi fenotipi residui in popolazioni nomadi e dedite alla caccia e all'allevamento. Oppure l'uso delle spezie, per secoli "ingrediente" essenziale dell'alimentazione preindustriale, lette non solo come "gusto", elemento culturale-gastronomico di un'epoca, ma come fattore critico per l'efficacia antiossidante della dieta di intere popolazioni.

 

O ancora lo stesso sguardo può diventare rivelatore nelle conseguenze della nostra ultima "migrazione" , quella sancita dalla globalizzazione e da una disponibilità di alimenti mai così pervasiva, la migrazione da supermercato, ovvero il ribaltamento concettuale della nostra prima forma di vita, quando da specie fondamentalmente vegetariana e sedentaria (foreste primordiali) per la necessità di introdurre grandi quantitativi di vegetali a bassa densità nutritiva, migrammo verso l'opportunità di nicchie e alimenti nutrizionalmente più concentrati.

 

Allora fu una scelta che favorì l'evoluzione della specie che siamo, oggi è l'involuzione verso un'umanità cronicamente stressata da un eccesso alimentare innaturale, confusa e smarrita in "eden consumistici" dove il cibo di tutta la terra, di ogni agricoltura e ogni forma di allevamento può essere presente in un unico luogo, sedentarietà paradossale se confrontata a tutta la storia del genere umano, a tutta la sua preistoria, all'intera storia di specie che ci appartiene.

 

Per questa parte di umanità, il cibo ha smesso di essere il "sale della terra": recisi i legami adattativi con la nostra storia più profonda, del migrante onnivoro è restata solo la curiosità verso il cibo e l'alimentazione – la predisposizione naturale –, mentre la coincidenza di società immobili, ipernutrite e intossicate dall'eccesso di cibo forse non ha ancora finito di rivelare tutti i suoi effetti. L'homo ludens avrebbe come obiettivo e limite della sua vita la soddisfazione di piaceri di cui il cibo è una componente rilevante, spesso la principale perché la più facile da esaudirsi.

 

Gli antidoti a questa condizione...? Difficili e tutti "epocali" perché coinvolgerebbero la produzione del cibo, l'agricoltura, l'ambiente, i consumi, il modo con cui percepiamo il nostro rapporto con la natura... oppure, almeno nei cambiamenti e nelle scelte individuali, una maggiore consapevolezza e conoscenza.

 

Già, consapevolezza e conoscenza... In questo senso, libri come questi, pur da punti di vista così diversi, aiutano a comprendere le ragioni profonde che ci legano al cibo e all'atto solo apparentemente banale che è quello alimentare.

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