Quasi una commemorazione / Buon 80 Woody

1 Dicembre 2015

Qualche settimana fa, una conoscente degna della massima fiducia mi ha raccontato un aneddoto. Una famiglia italiana – madre, padre e figlia piccola – si trova in vacanza a New York. Nell'uomo occhialuto che passeggia dall'altra parte della strada, la bimba riconosce un profilo inconfondibile. «Mister! Mister!», chiama. Lo raggiunge al piccolo trotto. «Are you Woody Allen?», gli domanda, un po' trafelata. Lui, serafico, risponde: «I was...».

 

Battuta folgorante, quella del vecchio Woody, che mi è tornata in mente mentre mi accingevo a buttare giù queste righe, dedicate ai suoi ottant'anni (è nato il primo dicembre del 1935). Celebrazione insolita, è vero (quando mai capita di festeggiare il compleanno, sia pure a cifra tonda, di un cineasta?); se poi si tratta di un vegliardo con mezzo secolo di carriera alle spalle (il “primo” Allen cinematografico, sceneggiatore e interprete di Ciao, Pussycat, è del 1965), la ricorrenza finisce per assumere le tonalità funeree della celebrazione postuma.

 

Amore e Guerra (Love and Death), 1975

 

Per molti critici e cinéphiles, del resto, Allen è un regista “postumo” da almeno una quindicina d'anni (e di film) a questa parte, se non di più. Secondo costoro, che ne registrano la progressiva decadenza con un atteggiamento masochisticamente compiaciuto, l'opera del newyorkese si è ridotta ormai a una sorta di feuilleton a cadenza annuale, che ripropone ossessivamente, in forme sempre più stiracchiate ed esangui, lo stesso vetusto repertorio di situazioni, questioni morali, nevrosi e maschere.

 

Insomma, Allen sarebbe già morto – come regista, beninteso. Quando ciò sia avvenuto, però, rimane un mistero. Anche perché Allen è “morto”, sempre artisticamente parlando, diverse volte; anzi, spigolando qua e là vecchie recensioni lo si dava per spacciato già all'epoca dei suoi film più belli. Chi si ricorda, per esempio, che nei primi anni Settanta Goffredo Fofi lo definiva senza mezzi termini «un insopportabile coglione... estraneo al cinema più di un capufficio dell'ottocento»? E che anche dopo gli exploit di Io e Annie e Manhattan, Larry McMurtry lo tacciava di snobismo “parrocchiale” e intellettualistico? Per non parlare di chi, come Pauline Kael, alle opere della maturità alleniana ha continuato fino all'ultimo a preferire il Woody anarchico e slapstick di Prendi i soldi e scappa e Il dittatore dello stato libero di Bananas.

 

Zelig, 1983

 

Tante volte dato per finito e altrettante risorto dalle proprie ceneri, Allen si è rivelato al contrario indistruttibile e, almeno in apparenza, impermeabile alle mode del pubblico, cinefilo e non. Per usare un paragone che suonerà scontato ai più, Allen ha dimostrato doti camaleontiche degne d'un Leonard Zelig, ora occhieggiando a Fellini e Bergman, ora con prestiti occasionali da Philip Roth (Harry a pezzi come parodia-riscrittura della saga di Nathan Zuckerman?) e persino da  Eugene O'Neill (Interiors). E come per Zelig, dietro a questo acuto desiderio di essere qualcun altro, c'è, più di tutto, il desiderio di essere apprezzato dal pubblico e accolto nel Canone della Settima Arte (ammesso che un tale canone esista ancora...). Non saprei dire se Allen abbia raggiunto quest'ultimo obiettivo (a sentir lui, ovviamente no: «La mia sensazione oggettiva è di non aver conseguito nulla di significativo dal punto di vista artistico»). Di sicuro ha raggiunto il primo, entrando a far parte della memoria spettatoriale di almeno tre generazioni.

 

Anche per questo è difficile essere equanimi con Allen. Ad ogni nuovo film, alcuni ne tracciano acriticamente l'elogio (quella che il compianto Vincenzo Buccheri definiva la “stroncatura mascherata”: l'ultimo film è migliore del precedente), mentre altri reagiscono con l'astio tipico dell'innamorato deluso – nella fattispecie, dell'alleniano tradito. E questo non accade soltanto a causa dell'estrema prolificità di Allen, che di fatto impedisce una valutazione ponderata di ogni singolo film, anzi finisce per mescolarli gli uni agli altri come tessere di un puzzle. Personalmente credo che ciò avvenga perché Woody Allen – mi riferisco qui al personaggio, all'icona, prima ancora che al regista – appartiene alla vicenda personale di molti di noi; è qualcosa che travalica ampiamente i confini del cinema propriamente detto, e fa parte piuttosto della cultura popolare del XX secolo, allo stesso modo (forse Allen ne sarebbe lusingato) di Chaplin e di Fellini.

 

È grazie a questa trasformazione (l'ennesima) nell'avatar di se stesso, in «brand autoriale», come ha scritto giustamente Roy Menarini, che Allen, pur non cessando di professare la propria inadeguatezza, tra un aggiustamento produttivo e l'altro, è sulla breccia da quasi cinquant'anni. Anzi, si può dire che negli ultimi dieci anni, quelli cioè che vanno dalla trasferta londinese di Match Point a oggi, lo abbiano rilanciato presso un pubblico più ampio e anagraficamente più diversificato. Mi riferisco non tanto agli Oscar per Midnight in Paris (alla  sceneggiatura, dunque Allen commediografo-artigiano modello) e Blue Jasmine (a Cate Blanchett: Allen direttore d'attori), quanto alle sempre più frequenti soste europee: da Londra a Parigi, da Barcellona a Roma. Come fa notare ancora Menarini, «A memoria, non è che vi siano tanti precedenti di registi trattati alla stregua di architetti, chiamati cioè con l'aiuto delle istituzioni locali, dei governi e degli sponsor nazionali a realizzare un'opera nel proprio Paese».

 

Con Scarlett Johansson sul set di Match Point, 2005

 

Certo, i risultati sono discontinui (basti confrontare un Match Point con un To Rome with Love, o anche soltanto con un Midnight in Paris e le conclusioni vengono da sé), ma se non altro confermano una volta di più la forza e la persistenza di Allen. O meglio, del suo marchio di fabbrica, l'allenismo. Di cosa si tratti lo spiega Pier Maria Bocchi in un volumetto di qualche anno fa, Woody Allen. Quarant'anni di cinema, tanto ricco d'intuizioni quanto poco considerato. Secondo Bocchi, l'allenismo si configura come «maniera», vero e proprio «rapporto confidenziale» fra autore e pubblico, nel quale «non c'è più un regista, ma una persona che esibisce nevrosi e paranoie», né ci sono più i film, ma «soltanto dei diari». Un modello stabilito una volta per tutte, quindi, basato sulla «prevedibilità», tanto dei contenuti quanto delle forme (lo stile semplice, o “piatto” a seconda dei punti di vista, l'uso frequente del long take e del piano-sequenza).

 

Di qui il match annuale fra gli “stroncatori mascherati” e gli alleniani delusi, ovvero fra coloro che tutto sommato, e forse con qualche imbarazzo, a questa “maniera” sono affettivamente legati, e coloro che, un tempo sedotti dall'allenismo, oggi non ne possono proprio più. A suggello del proprio libro, Bocchi invita a superare questa dicotomia di giudizi, invitando semmai una critica sempre più pigra e ripetitiva (lei sì!) a domandarsi che cosa abbia da dire oggi il cinema di Woody Allen, in che modo il regista ci parli della contemporaneità. Insomma, un invito a schierarsi con Allen contro l'allenismo.

 

Ma può esistere oggi un Allen senza allenismo? Personalmente, credo di no. Intendiamoci, non mi sento un alleniano “sedotto e abbandonato”, e quando dico che Allen fa parte della biografia di molti, includo più che volentieri anche me stesso. D'altronde era inevitabile, al liceo, per un ragazzino gracile, occhialuto e con un certo talento affabulatorio, fare di Woody il proprio vate, tentando magari di sedurre le ragazze seguendo i consigli di Bogart (vedi alla voce Provaci ancora, Sam) oppure portandole a vedere vecchi film, come faceva lo stesso Allen con Mia Farrow in Crimini e misfatti; e ribaltando in chiave narcisisticamente “vincente” l'inevitabile insuccesso (citatissima con gli amici era la battuta di Io e Annie: “Non denigrare la masturbazione: è sesso con qualcuno che amo!”). Soprattutto confidando, nonostante tutto, nel potere taumaturgico del cinema,  lo stesso che Allen trovava in Hannah e le sue sorelle guardando La guerra lampo dei fratelli Marx: «Guarda tutta quella gente sullo schermo! Senti, sono proprio buffi! E... e se anche fosse vero il peggio? E se Dio non ci fosse e tu campassi una volta sola e amen? Be', non vuoi partecipare all'esperienza? E... e che diamine! Mica è tutta una noia!».

 

Hannah e le sue sorelle (Hannah and Her Sisters), 1986

 

Chiusa la perdonabile parentesi autobiografica, la mia impressione è che Allen e l'allenismo siano ormai diventati tutt'uno. La questione non è perciò quella di scovare nei film il “vero” Woody  a dispetto del suo simulacro, ma scendere a patti col fatto che ormai il simulacro è l'unica cosa rimasta. L'allenismo è divenuto insomma una sorta di cella criogena nella quale Allen è tenuto artificialmente in vita, condannato a ripetersi, forse per l'eternità. Non è un caso che, sebbene Allen abbia deciso, salvo eccezioni, di occultare la propria riconoscibilissima figura attoriale (elemento cardine dell'allenismo) in favore del proprio ruolo di regista, questo non abbia modificato di un grammo il consueto repertorio tematico e stilistico: è sufficiente vedere l'ultimo (ancora per poco) Magic in the Moonlight per rendersene conto.

 

Rimane la domanda sull'attualità di Allen, ovvero sulla sua capacità di parlare dell'oggi, della  società odierna, del nostro mondo. Anche in questo caso, forse, sarebbe meglio domandarsi se Allen abbia mai voluto essere “attuale”. Apparentemente no: anzi, se c'è una critica che negli anni gli è stata costantemente rivolta, anche dai suoi ammiratori, è stata proprio quella di essere costantemente ripiegato su se stesso e sul suo piccolo mondo upper class di scrittori, docenti universitari, giornalisti. Eppure, senza dirlo ad alta voce (come dovrebbe fare ogni artista, vivaddio!) Allen ha intercettato i mutamenti della società americana nell'arco di tre decenni: dai prodromi della “cultura del narcisismo” in Manhattan (il libro di Christopher Lasch esce nello stesso anno del film, il 1979) alla critica del neoconformismo reaganiano  e dell'allarmante confusione fra realtà e spettacolo (pur retrodatando il tutto di una quarantina d'anni) in Zelig, fino all'esibizione del privato senza filtri né pudori in film come Mariti e Mogli e Harry a pezzi.

 

Tuttavia rimane l'impressione che tutto questo non sia che brusio di fondo, teatrino di ombre. Non è che Allen non sappia più (o non abbia mai saputo) essere attuale: la verità è che non ha mai voluto esserlo. Altre sono le questioni che gli premono. Probabilmente quegli «unsolvable, terrifying problems about the universe» di cui egli stesso, disteso sul divano, detta al registratore nel sottofinale di Manhattan: i problemi dell'universo (e non semplicemente “universali” come nella versione italiana del film) che la gente di Manhattan cerca di nascondere dietro i propri giochi di amori e tradimenti.

 

Perciò a questo punto, dovessi scegliere, come si fa in queste occasioni, un'immagine o una sequenza fra le tante per celebrare (commemorare?) Woody Allen, più che la danza macabra di Amore e guerra o la barzelletta sulle uova di Io e Annie, sceglierei quella di Manhattan ambientata nel Planetarium, senza strade né grattacieli, e senza la musica di Gershwin.

 

Manhattan, 1979

 

Ike (Allen) e Mary (Diane Keaton) si aggirano fra le sagome degli astri snocciolando sottovoce le proprie nevrosi sentimentali. Nonostante cerchino di esorcizzarla a suon di battute (Lei: «Di quanti satelliti di Saturno conosci il nome? C'è Mimas, Titano, Dione, Hyperion naturalmente...»; Lui: «Io... non ne so nessuno, e per fortuna non ricorrono nelle conversazioni») l'immensità dell'universo finisce man mano per sopraffarli: come ha scritto Elena Dagrada analizzando la sequenza, se «l'amore è un problema “universale” nel mondo dell'uomo, la pochezza del mondo dell'uomo nell'immensità dell'universo è, ahinoi, un problema dell'universo di fronte al quale siamo infinitamente più impotenti, e annientati al confronto». Anche il tempo sembra sospeso, e quella morte che sembra fare tanta paura ad Allen («Sono fermamente convinto che se da morto t'intitolano una strada, questo non servirà a migliorare il tuo metabolismo») è lontanissima. Si può augurare di meglio al nevrotico Woody?

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