Un colpo di Tzimtzum salverà Kiefer?

3 Febbraio 2016

Pedalare tra le rovine

 

Anselm Kiefer – titano dell’arte tedesca, il più prolifico produttore di rovine vivente – è anche l’artista meno ecologicamente sostenibile della Terra all’epoca dell’antropocene. Se tutti gli artisti contemporanei rivendicassero per sé altrettanto spazio, non ci resterebbe altro che mettere le bombole d’ossigeno in valigia e ricominciare daccapo su un altro pianeta.

 

Kiefer durante l'allestimento alla mostra al Pompidou

 

Veduta della mostra "Anselm Kiefer", Centre Pompidou, Paris 2015-2016

 

Nel 1992 Kiefer si è trasferito a Barjac, nel sud della Francia, occupando 52 costruzioni ripartite su 250.000 metri quadri. Nel 2009 è la volta di Croissy-Beaubourg (Seine-et-Marne, poco fuori Parigi), in un’architettura industriale vicino l’aeroporto militare che apparteneva a La Samaritaine e pare misuri soltanto 35.000 m2. Qui, come raccontano i reportage dei visitatori, dipinge le Alpi su degli enormi polittici disposti a panorama.

 

A Barjac Kiefer ha preso l’abitudine di spostarsi in bicicletta tra una costruzione e l’altra, “come se camminassi nel mio cervello” precisa. Venire a conoscenza, una decina di anni fa, dell’aneddoto della bici, che l’artista riferisce spesso nelle interviste, fu per me letale, e da allora non riesco più a vedere la sua opera con benevolenza. Il suo titanismo mal si accordava con l’arte che mi appassionava e persino con la mia condotta di vita. Da una parte ero conquistato dai paradossi dell’arte concettuale: dal celebre adagio di Douglas Huebler (“Il mondo è pieno di oggetti più o meno interessanti; non intendo aggiungerne altri”) al laconico invito stampato in occasione della personale di Robert Barry ad Amsterdam, Torino e Los Angeles (“Durante la mostra la galleria resterà chiusa”), entrambi del 1969 (su cui si può leggere Camiel Van Winkel, During the Exhibition the Gallery Will Be Closed. Contemporary Art and the Paradoxes of Conceptualism, Valiz 2011). Dall’altra parte, più prosaicamente, all’epoca vivevo in un monolocale di 9 metri quadri (il minimo sindacale), così angusto che avevo individuato un punto centrale, un axis mundi dal quale, sporgendomi col busto senza sollevare i piedi, avevo accesso a tutto: i piatti nel lavandino, il computer sulla scrivania, il piumone del letto, i libri sullo scaffale, la biancheria nell’armadio, l’insalata nel frigo da campeggio, la maniglia della porta, della finestra e della doccia, gli interruttori, la scopa all’angolo. L’idea di un mio simile che sguazzava in 250.000 m2 – cioè 27.777,7 volte più grande del mio Lebensraum – ferì la mia sensibilità come un’odiosa quanto intollerabile ingiustizia sociale.

 

Kiefer Studio, Barjac, La Rebaute

 

 

Bombastic

 

Il giovane Kiefer si accontentava in realtà della vasca da bagno del suo atelier, sulle cui acque tentava di camminare come se fosse sul Reno. Era il 1975, l’epoca delle Occupazioni (Besetzungen), in cui girava l’Europa con le culottes e gli stivali nazisti (ma a volte persino in pigiama), eseguendo il Sieg Heil davanti a monumenti storici di alcune città europee (Montpellier e Arles, Paestum e Roma) o a spazi neutri come il bordo di un lago, una spiaggia deserta, una terra recintata, un viale alberato.

 

Ma la vasca da bagno non era all’altezza delle sue ambizioni e la sua opera diventò presto colossale, magniloquente o, per utilizzare un termine inglese senza equivalenti, “bombastic”, in cui risuona bomb che, come dire, cade a bomba per Kiefer. Di quest’opera viene spesso specificato, oltre che i materiali come il piombo (un isolante contro le radiazioni nucleari), anche il peso. Malgrado il processo alchemico che edifica tante opere di Kiefer, queste si offrono allo sguardo nella loro intrascendibile, ineluttabile gravità. Così i suoi libri (esposti alla Biblioteca nazionale di Parigi, fino al 7 febbraio), che non è agevole leggiucchiare coricati a letto (pesano in media 150 chili e sono pieni di cenere incollata male).

 

Se l’eccedenza è la cifra della sua opera, questa non gioca solo sul piano materiale ma anche sul piano simbolico, dai racconti mitici (presi da Egitto, Grecia, Medio Oriente, Islanda) alla germanità (Deutschtum) che assilla l’artista come un fantasma: “Voglio fare un’arte tedesca. Ciò che la rende tedesca può essere anche preso per qualcosa di ripugnante. Questo non mi disturba affatto”, afferma a Axel Hecht e Werner Krüger (“Art Press”, 42, novembre 1980). Ricorre ai miti per costituirsi una memoria di eventi storici come la Shoah che non ha vissuto in prima persona, come ha ben osservato Daniel Arasse. Al di là di ogni pacifica costruzione dell’identità nazionale, non ha smesso di portare alla luce gli eventi più reconditi e sordidi della storia del suo Paese. E questa operazione, ne è convinto, necessita di una scala esagerata – una Bayreuth postmoderna (courtesy of the artist).

 

 

Small is beautiful

 

Una retrospettiva in un museo come il Pompidou, la prima in Francia dopo trent’anni (aperta fino al 18 aprile), deve aver messo Kiefer in seria difficoltà. Il sesto piano a sua disposizione è più piccolo del suo sgabuzzino, poco più di un disimpegno con qualche finestra da attraversare con due pedalate. La scelta è così andata giocoforza sui dipinti, rinunciando alla tentazione di proteggerli uno a uno all’interno di un’architettura domestica, come accadde per la mostra al Grand Palais nel 2007, Caduta di stelle (Sternenfall: “Questo titolo non comprende solo la nostra vita, comprende l’universo”). “Non faccio della pittura per fare un quadro. La pittura per me è una riflessione, una ricerca [...] e non una ricerca sulla pittura”, dice oggi al curatore Jean-Michel Bouhours. Un’indagine filosofica in cui non c’è spazio per l’astrazione, nient’altro che un vicolo cieco. Siamo agli antipodi dell’altro più grande artista tedesco vivente, Gerhard Richter, esposto nelle stesse sale del Pompidou nel 2012.

 

 

Richter ci ha lasciato la critica più spietata della pittura di Kiefer che, scrive nel 1985 uscendo da una mostra, non può considerarsi veramente pittura, “gli manca l’essenziale e anche se, di colpo, esercita l’attrattiva scioccante del macabro, dopo un po’ di tempo questi ‘quadri’ esprimono quello che sono realmente: una sostanza informe e amorfa, una crosta che somiglia a una minestra rappresa, un sudiciume ripugnante, un simulacro di naturalismo che graficamente ha, al meglio, l’efficacia di una decorazione teatrale. L’insieme si offre allo sguardo con un pathos e un’ostentazione innegabili, tanto più che il contenuto riposa su un pretesto letterario, illustrato da un mucchio di immondizia”.

 

Curiosamente la sala più riuscita è quella delle vetrine, realizzate ramazzando e mettendo ordine tra i materiali da utilizzare in opere future e tenuti nel suo scantinato o meglio in quello che chiama, credo senza ironia alcuna, il suo Arsenale (altrove dice di compulsare la sua biblioteca lunga 60 metri “come se fossi al Vaticano”). Queste “accumulazioni di possibile”, condensati dell’opera di Kiefer o Kiefer tascabili, mi fanno pensare a Beuys se non a un Joseph Cornell (che non uscì mai dallo stato di New York) sprofondato nella cultura tedesca. Davanti a installazioni extra large come De l’Allemagne che chiudono il percorso espositivo, si rimpiange la giustezza delle vetrine. Come scrisse un altro tedesco, Ernst Friedrich Schumacher, Small is beautiful.

 

Anselm Kiefer, The Royal Academy of Arts in London

 

 

Tzimtzum

 

Cosa sarebbe accaduto se il giovane Kiefer avesse seguito la sua primissima vocazione, quella di diventare poeta? È un pensiero malizioso, certo. In fondo non è altro che un problema di scala: quando entrano in collisione con la Terra le meteoriti fanno crateri grossi così, ma nell’universo galleggiano come bolle di sapone.

 

Restando in orbita extraterrestre, ripenso alla teoria dello Tzimtzum del cabalista Isaac Luria, resa celebre da Gershom Scholem. In sintesi, tratta di un Dio che, prima della creazione del mondo, fa un passo indietro, si ritrae per lasciar spazio a qualcosa di altro da sé, creando un vuoto in cui il cosmo può costituirsi e l’uomo esistere. Un’idea di creazione negativa lontana dal principio additivo della rivelazione in cui l’Onnipotente agirebbe là dove prima vi era il nulla. Per Luria, al contrario, la creazione del mondo è il risultato di una flessione divina, di un vuoto formatosi in uno spazio saturo della sua presenza, di un occultamento che è un venir meno dell’Infinito. Un’emanazione per contrazione. Autolimitandosi, mandando in esilio un’infima parte di se stesso, questo Dio compie un incredibile gesto ospitale verso l’uomo.

 

Kiefer conosce bene questa dottrina della mistica ebraica, che ha cercato di illustrare nel 1990 in un’opera in mostra a Parigi (Shevirat ha kelim, La rottura dei vasi). Ecco cosa potrebbe redimere la sua opera: niente più – niente meno – che un colpo di Tzimtzum.

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