Colori in polvere: lettera a Narciso Silvestrini

8 Settembre 2023

C’è un momento nella vita in cui ci si sente sulla via del ritorno. Nessun dramma, nessuna selva oscura. Capita, è un giro di boa necessario per ricominciare anche se non si sa verso dove. Qui ho avuto la fortuna di incontrare Narciso Silvestrini e di trovare Silve, un compagno di viaggio sul sentiero dei colori. Questo non era ancora avvenuto ma solo annunciato perché gli incontri in arte avvengono prima sulle opere per arrivare agli autori. Così è stato per me alla Biennale Arte di Venezia del 1986 intitolata da Calvesi Arte e Scienza con un settore più ad effetto come le Wunderkammer e un altro forse più marginale tra arte e scienza: il Colore. Argomento che in quel periodo si stava aprendo nel mosaico dei pixel sullo schermo elettronico, come una girandola di fuochi d’artificio accanto alle solite conoscenze newtoniane Ma soprattutto il giudizio estetico delle arti moderne della visione (fotografia e cinema) si schierava su valori grafici assoluti, quasi una sublimazione, del Bianco & Nero. La televisione in Italia aveva affrontato il colore in anticipo, e poi con grande ritardo, perfino con una opposizione ideologica che si scontrò in Parlamento, a metà degli anni Settanta.

Mentre invece nella rassegna inconsueta del Colore alla Biennale spiccavano nella loro astrazione, e in sequenza, una serie di disegni come una nuova scoperta euclidea di figure geometriche. In queste tavole stupendamente disegnate si manifestava il fantastico desiderio di catturare un mondo inanimato fatto di quadrati, triangoli, cerchi ecc. ma si presentava con la novità di costruzioni e segmenti di colore per afferrare qualcosa di impossibile come la quadratura del cerchio. Ma ogni figura era presentata semplice e facile da capire come i quattro elementi che rappresentano da sempre i quattro colori fondamentali: rosso/fuoco, acqua verde, terra/gialla, aria/azzurra. Quel folle disegnatore, con l’impeccabile scrittura in maiuscoletto, impaginata come un papiro egizio, spiegava “more geometrico” l’impossibile quadratura del colore, come catturare al volo farfalle diurne e notturne. I colori infatti nelle loro quattro tinte fondamentali si manifestavano nelle infinite sfumature del chiaro e dello scuro, cioè della luce e dell’ombra, e si accordavano con i loro contrari come tra positivo e negativo: rosso/verde, giallo/viola, blu/arancione ecc. I disegni del sognatore ed esteta che camminava sul filo teso della geometria, dell’astrazione e del colore erano signati Narciso Silve. Narciso era un nome non così comune ma quasi un destino in quella superficie specchiata di linee sovrapposte e colorate a pastello: un Atlante fantastico steso in ordine nelle tavole in folio.

Le suggestioni immediate di questo lavoro portavano alle Teoria della forma e della figurazione della scuola del Bauhaus e in particolare a Paul Klee. Ma soprattutto, almeno per me che mi stavo incamminando sulla strada dei colori, erano esattamente come i disegni della Teoria dei Colori di Wolfgang Goethe che avevo avuto modo, per caso, di vedere ancora chiusi in una cassettiera, conservati nella sua casa semiabbandonata, quando Weimar era una qualsiasi città dell’Est. Questi erano ancora solo flash mnemonici di un apprendista storico del colore che possono rimaner tali. Invece, un bel giorno come nelle favole della vita, incontrai con sorpresa proprio lui. 

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Ero in quella svolta della vita quando – dopo un soggiorno troppo lungo nella città delle Lagune – ti prende la netta sensazione del naufragio che ancora avviene a strattoni, si ferma e poi riprende, ma è fin troppo chiaro che tutto può accadere all’improvviso. Quindi decisi (o meglio decisero) di farmi venire a insegnare a Milano, perché le fatalità se baciano in fronte finiscono per trascinare gli indecisi e quindi decidono per loro. 

Era lui il personaggio che incontrai per primo, nel tunnel deserto della metropolitana di Bovisa, che mi chiamò da lontano per nome – come sanno fare i clinici esperti – correndomi incontro, e con il suo fare sereno aggiunse: “Manlio è l’anagramma di Milano”. Quasi un destino al quale non avevo mai pensato, ma era così e non poteva che essere così, una volta rivelatosi quel personaggio tanto saggio quanto sorridente che amava presentarsi con voce scandita, ma appoggiando il tono sulla seconda parte del nome silve STRINI. La prima parte del nome appena sussurrato era infatti diventato il suo vero nome: “Silve” per come tutti quanti lo conoscevano o l’avrebbero conosciuto. Il suo numero telefonico era: Tremilatrecentoottantottomilioni-novecentodiciottomila-centonovantanove – proprio così diceva per “essere telefonato” il meno possibile. 

Così come in un lampo si aperse, quel mondo del colore che era tra noi l’interesse fra i più importati e la ragione delle nostre ricerche, e sul quale non occorreva parlare troppo, perché si conosceva quasi tutto l’uno dell’altro, tranne il fatto di essere schierati, lui al polo artico, io a quello antartico: come Luce e Ombra stanno nella Sfera dei colori di Otto Runge. 

Nel periodo del mio insegnamento al Politecnico mi disse addirittura che voleva seguire le mie lezioni: cosa che poteva valere meglio al contrario. Non era pura cortesia, ma mi accorgevo che pur essendo in cattedra sapevo sul colore molto meno di lui. Lo invitai dopo un po’ a farmi compagnia lì dietro ma accettò solo a patto di stare in silenzio. Quindi per Silve non solo stima ma ammirazione incondizionata. Era il caso in cui non l’allievo superava affatto il maestro ma il vero maestro sapeva condurre un allievo e tutti quanti stavano intorno. L’insegnamento era Arte Contemporanea ma doveva rivolgersi a studenti di design, dove l’aggettivo “industriale” – diceva – doveva essere lasciato da parte perché: “il Design è Arte Contemporanea”. E questo, poteva dirlo, al seguito di opere e di personaggi artisti, maghi, filosofi ed altri del gruppo Arte Concreta del MAC: Munari, Dorfles, Sottsass, Di Salvatore e molti altri che avevano condotto per mano la pratica e il gusto del design italiano. Quindi Arte come Design e non Design come Arte insegnava Silve, dove il colore non era una dipintura di superficie ma un cosmo corpuscolare, una polvere volatile come polline. Sosteneva con vigore, e un po’ d’illusione, che le lunghezze d’onda fossero come l’effetto del vento su un campo di grano… e che il mondo si mostrava alla nostra visione, in un certo senso, in negativo. Per es. il colore verde è in realtà il colore fuchsia che “riflette” le lunghezze d’onda di 500 nanometri (quelle del verde) mentre “assorbe” tutti gli altri colori. Assorbire e Riflettere diventano in sé più aspetti di metafisica che di fisica. Non è così? Ma questa era per lui una convinzione sacra anche quando coni e bastoncelli recettori dell’occhio umano, erano in realtà percezioni elaborate da precise sedi del cervello V4: in una sequenza che già artisti d’avanguardia (come Lucio Fontana) avevano teorizzato “a occhio”: COLOR, MOVIMIENTO, FORMA. Aspetti che uscivano ormai dal dominio della Psicologia della Gestalt per diventare neuroscienze e addirittura neuroestetiche (v. Semir Zeki, Oliver Sacks e Antonio Damasio…).

In tutto questo devo per forza ricordare le fatiche di Sisifo sopportate insieme a Silve e Marco Sironi, nei mesi ardenti degli anni 2000. La Scuola del Design del Politecnico si era appena aperta sotto le lamiere arroventate dei capannoni industriali della Bovisa, appena dismessi e allestiti con impianti di condizionamento tanto rumorosi quanto eternamente bloccati. Ora dopo uno, due, tre giorni di caldo tropicale con più di trecento studenti da esaminare, nelle ultime ore, la triplice commissione era stremata (me per primo) e si cercava umanamente di “tirar via”. Silve invece con suo eterno sorriso, gentile quanto disarmante, ci diceva: “Lo dobbiamo a loro”. Questo spiegava quanto fosse amato, negli anni in cui insegnò all’ISA di Monza, dai suoi studenti molti dei quali lo seguirono nelle aule non così accoglienti del Poli. Sapeva che i professori cattivi sono cattivi professori. E questo lo diceva con la convinzione che, anche per me, è ormai una certezza. 

Più facile per noi dire ora, a un mese dalla sua assenza: “non ti dimenticheremo…”, perché abbiamo imparato da lui che mai ci dimenticava. 

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