Daniel C. Dennett, spezzare gli incantesimi

22 Aprile 2024

Ho incontrato Daniel Clement Dennett III (1942-2024) in due occasioni particolarmente significative. La prima è stata a Brema, nel 1998, durante una conferenza internazionale sulla coscienza. Io ero un giovane dottorando incredulo di incontrare un autore che avevo conosciuto solo sulle pagine dei libri. Non fu la sua giornata più felice. Erano gli anni in cui gli studiosi erano accesi dall’entusiasmo delle tesi di David Chalmers e Francis Crick che, dopo anni di negazionismo, avevano riportato alla ribalta il problema della coscienza in termini “scientifici”. Dennett era appena atterrato dopo un volo intercontinentale dagli USA e si trovò a fronteggiare una platea numerosa e in larga parte contraria alle sue tesi. Chalmers aveva appena tenuto una lezione che aveva acceso gli animi e dato speranza: una delle sue performance accademiche migliori. Anche fisicamente il contrasto non poteva essere più netto. Chalmers, giovane e magro, si era presentato in maglietta, con una cascata di riccioli da progressive rocker e aveva fatto ascoltare a volume esagerato un brano trascinante di musica barocca (non mi ricordo quale). Sembrava l’incarnazione di una nuova filosofia che cogliesse al volo l’essenza dei problemi. Dennett, che per decenni era stato una figura dominante della scena filosofica americana, salì sul palco per la prima volta insicuro. La sua immagine, lo stereotipo classico del filosofo non lo aiutava; in sovrappeso, con una giacca sgualcita in velluto, la barba da filosofo e gli occhiali spessi, iniziò uno dei suoi ragionamenti, lucidi ma complessi. Il pubblico si spazientì e si sentirono critiche nel buio della grande sala. Dennett capì che non avrebbe convinto nessuno solo con la forza dei suoi ragionamenti. Si scusò per essere ancora intontito dal fuso orario e, finito il suo tempo, scese dal palco senza raccogliere grandi applausi. Not his finest time. Ma come si suol dire, il tempo è galantuomo. Sono passati oltre 25 anni da quel giorno e dalle suggestioni di Chalmers non è ancora emersa una reale rivoluzione. Le teorie di Crick sulla coscienza sono dimenticate e la scienza non ha ancora scalfito il problema della coscienza; filosofi e scienziati continuano a brancolare nel buio nonostante magliette e outfit da rocker.

brain

Il secondo incontro con Dennett (poi seguito da altri) avvenne nel 2013, nel suo ufficio alla Tufts University, uno splendido edificio rosso Cambridge in mezzo al campus. In questa piccola reggia, Dennett ha trascorso quasi tutta la sua vita da docente, salvo qualche periodo sabbatico e qualche incarico ad Harvard, e si capisce perché. All’epoca, io stavo completando un periodo di ricerca al MIT con una borsa Fulbright e volevo approfondire alcuni temi comuni. Mi ricordo che, in una calda mattina di Maggio, giunsi in quel piccolo paradiso per studiosi dopo una lunga camminata che, dagli edifici modernisti del MIT a Cambridge, passando per l’architettura classicheggiante di Harvard, porta alla Tufts. Il percorso incarna bene la differenza fra queste istituzioni: innovazione, autorità, accademia. Dennett, come tutte le volte in cui parlammo, fu aperto, acuto, paziente e, alla fine, totalmente chiuso a idee diverse dalle sue. Non è una critica, aveva molte idee e si capisce perché non avesse spazio per altre. Anni dopo, a una cena a Monaco cui partecipavano sia lui che Chalmers ormai riconciliati, uno dei due scherzò: «avete mai conosciuto un vero filosofo che abbia cambiato idea?» L’altro annuì ridendo. Ogni conversazione con Dennett sembrava una partita con un gran maestro degli scacchi. Ti lasciava disporre i pezzi, fare le prime mosse e poi, un colpo alla volta, demoliva tutto quello che non corrispondeva alla sua visione; con pazienza, quasi rassegnazione. Nel mondo dei concetti e delle parole si sentiva completamente a suo agio.

Dennett era l’incarnazione del professore universitario americano sia intellettualmente che fisicamente, ma avrebbe offerto una maschera perfetta anche per incarnare Platone: fronte ampia e barba bianca da saggio. Dennett è stato uno dei più grandi filosofi americani del dopoguerra, forse il più grande, almeno per quanto riguarda la filosofia della mente. È anche stato uno degli ultimi filosofi accademici che si sono esposti per parlare al grande pubblico, anche se spesso il suo modo di ragionare, preciso e razionalmente equilibrato, non faceva sempre presa sul grande pubblico.

coscienza

Il suo percorso accademico ebbe inizio sotto la guida del mitico Willard Orman Quine a Oxford nel 1959 e proseguì, significativamente, con una tesi di dottorato sotto la supervisione di Gilbert Ryle su «La mente e il cervello: la descrizione introspettiva alla luce delle scoperte neurologiche; Intenzionalità»; un titolo che, in nuce, conteneva già tutto il meglio del suo lavoro. Da allora, il filosofo si è sempre concentrato sul problema della coscienza e, anche se negli ultimi vent’anni si è dedicato a temi più ampi come la religione, il libero arbitrio e l’evoluzione, quando gli chiedevano di che cosa si occupava rispondeva con entusiasmo: «di coscienza!».

L’importanza di Dennett è nella sua capacità di cercare un punto di contatto tra filosofia e scienza sul terreno – considerato impossibile prima di lui – della coscienza. Anche se poi molti filosofi lo hanno criticato, rimane indubbio il suo ruolo di apripista della filosofia della mente. All’inizio del suo percorso, negli anni Settanta e Ottanta, Dennett affrontò il tema che più gli sta a cuore, ovvero la mente o la coscienza, in una serie di opere brillanti – Coscienza e contenuto, Brainstorms. Saggi filosofici sulla mente e L’atteggiamento intenzionale – dove demolì i luoghi comuni della filosofia della mente e mise in discussione il paradigma che identifica l’interiorità con l’interno del cervello. La sua penna tagliente, sempre accompagnata da metafore illuminanti (che lui ama chiamare intuition pumps), mise in discussione il senso comune che, in molti casi, è la cornice del lavoro di filosofi o scienziati famosi. Soprattutto, come il Galileo di Brecht, mise in evidenza ciò che tutti pensano di sapere e che invece non sanno affatto.

Darwin

Farò solo un esempio, tratto dalla sua sterminata produzione: un brano che dovrebbe essere posto come lettura obbligata nelle facoltà di neuroscienze e di filosofia, ovvero il racconto filosofico «Dove sono?» (pubblicato sia in L’io della mente che in Brainstorms) che rivela, con una vicenda vagamente kafkiana, l’inconsistenza di una credenza radicata: niente nella nostra esperienza implica che la sede della nostra mente sia all’interno del corpo o all’interno del cervello. Il racconto distrugge le nostre certezze e ci pone di fronte alla debolezza dei nostri pregiudizi. Dennett ci libera dai pregiudizi e però non ci offre un’alternativa altrettanto convincente.

In fondo, il testo che avrebbe dovuto essere la summa della sua visione della coscienza, Che cosa è la coscienza? (di recente ripubblicato da Cortina) soffre proprio di questa debolezza: dopo aver eliminato tutte le alternative, non ne emerge nessuna teoria veramente nuova. E infatti Dennett è stato etichettato, in parte ingiustamente, come un eliminativista, ovvero qualcuno che reputa che la coscienza non esiste. Non è vero. Dennett non ha mai negato l’esistenza della coscienza in quanto tale, ha soltanto mostrato come le teorie in circolazione fossero deboli quando non del tutto sbagliate. In un recente Ted Talk, Dennett ha fatto una metafora rivelatrice parlando di magia: quando un mago fa una magia e noi spieghiamo come funziona, la magia non c’è più. Per lui le teorie degli altri filosofi e scienziati erano come magie da baraccone, trucchi concettuali destinati a essere mascherati.

Forse è stato questo il punto debole di Dennett: muoversi sempre all’interno del mondo dei concetti e delle teorie, eliminandole senza uscire allo scoperto proponendo una nuova visione del mondo che potesse prendere il posto delle posizioni che cadevano sotto le sue critiche. A posteriori, gli storici del Novecento, diranno che il suo ruolo non sia stato quello di proporre una nuova visione, ma di fare piazza pulita delle strutture concettuali ormai superate. Ma la sua funzione non è stata del tutto efficace. Non è un caso che, da quando l’influenza di Dennett si è indebolita, la filosofia della mente si sia popolata di posizioni che sembrano un ritorno al passato. Il sonno della ragione genera mostri e anche tra le teorie stiamo assistendo a una invasione di zombie riciclati (nuovo idealismo, panpsichismo, materialismo dualista) che ripropongono problemi che sembravamo essere stati licenziati dal filosofo americano.

Il merito maggiore di Dennett è stato attaccare il linguaggio per smascherare concetti vuoti ed espressioni prive di significato; è stato uno dei pochissimi filosofi analitici capaci di usare gli strumenti di pulizia concettuale per parlare anche al pubblico dei non specialisti. Si tratta di una strategia che nella parte centrale del Novecento ha avuto un ruolo importante nel superare certe oscurità cui tendevano certe correnti della filosofia europea; ma come accade nelle tragedie di Shakespeare, le virtù prese troppo sul serio portano alla rovina. Dedicarsi solo a «pulire le lenti con cui si guarda la realtà invece che indossarle per vedere quello che si può» ha trasformato la filosofia analitica, in una caricatura e una parodia di se stessa. Si passa tutto il tempo a pulire le lenti e non si guarda mai nulla.

Nel caso di Dennett più di quello che ha affermato è importante fare l’elenco delle posizioni che ha contestato (dall’introspezionismo al materialismo dualista, da certe posizioni ingenue delle neuroscienze al cognitivismo dualista). Anche al di fuori del problema della coscienza, il lavoro di Dennett è sempre stato rivolto all’eliminazione di posizioni consolidate, ma concettualmente deboli: dal creazionismo al libero arbitrio. Dennett era un abile filosofo che, al contrario di Don Chisciotte che prendeva mulini a vento per giganti, sapeva smascherare presunti giganti del pensiero per quello che erano: pregiudizi privi di fondamento.

strumenti

Ci sono vari tipi di filosofi: a un estremo troviamo i cattivi maestri e gli incantatori, all’altro quelli capaci di rompere gli incantesimi, di far vincere la ragione contro la persuasione fine a se stessa. Socrate si era posto in questo ruolo di fronte ai sofisti (o almeno così viene normalmente presentato). Dennett era simile. Non a caso un dei suoi titoli più celebri si chiamava Rompere l'incantesimo. La religione come fenomeno naturale. Ecco, il superpotere di Dennett era mostrare i limiti delle teorie e dei quadri di riferimento concettuali. Questo è stato il suo più grande merito e, forse, il suo più grande limite. Dennett eccelleva nel mostrare gli errori e i passi falsi nelle posizioni degli altri, ma quando si trattava di avanzare ipotesi nuovi rimaneva dentro la cornice più ampia del Novecento.

Come spesso accade, alla fine si torna all’inizio. È con stupore che leggiamo le parole con cui, a 27 anni, un giovane Dennett concluse il sommario di due pagine della sua tesi di dottorato, «[Una spiegazione della mente] implica l’analisi del senso ordinario di parole mentali come coscienza, sensazione, ragione, intenzione. […] I problemi formulati in linguaggio ordinario possono esser riformulati in termini più precisi e questa riformulazione fornirà una soluzione magari parziale a questi problemi» Ecco, la migliore eredità di Dennett è il tentativo (riuscito) di togliere vaghezza e imprecisione alla formulazione dei problemi. L’aspetto meno felice è la convinzione che sia sufficiente togliere quello che non funziona per trovare una risposta nuova.

Nel caso della coscienza, Dennett ha combattuto due grandi nemici: l’introspezione e il dualismo ingenuo delle neuroscienze che, per tanti aspetti, non sono poi così diversi e che, dispiace dirlo, gli sono sopravvissuti e godono ancora ottima salute. Instancabilmente ha smascherato gli assunti vuoti e spesso contraddittori di questi approcci. Tuttavia non ha mostrato vie alternative, dedicandosi a combattere gli incantesimi dei falsi maghi, ma rischiando di considerare tutta la filosofia come una serie di trucchi da smascherare o di incantesimi da spezzare. A conti fatti, poteva rischiare di più, forse non sarebbe stato così perfetto nei suoi ragionamenti, ma avrebbe rischiato di fare una magia, che avrebbe anche potuto essere vera, per una volta. Spezzare gli incantesimi è utile, ma ogni tanto un nuovo incantesimo dona entusiasmo. Come ha scritto Dennett in Brainstorms, «Molti psicologi e neuroscienziati sono imbarazzati dalle domande filosofiche, e vorrebbero che nessuno gliele ponesse, ma naturalmente i loro studenti continuano a chiedergliele, perché alla fine sono le domande che contano veramente. Sinapsi e neurotrasmettitori sono sicuramente importanti, ma se non ci dicessero qualcosa sulle nostre menti, l’entusiasmo per queste ricerche svanirebbe.»

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Daniel C. Dennet