Dress code 5. Nell’anno del dragone
Per ogni inizio si desiderano grandi onori, fortune e successi. Se il simbolo di un nuovo inizio incarna da secoli questi buoni auspici, allora sembra che le congiunture astrali siano le più favorevoli, nonostante l’anno bisesto. Il 2024 sarà ricordato in Asia e in tutto il mondo come l’anno del dragone. Anche il tempo è una costruzione culturale e non tutti condividono il nostro entusiasmo per la mezzanotte del 31 dicembre. In molte parti dell’Asia, tra cui Cina e Corea, si festeggia il Capodanno lunare, cioè l’inizio dell’anno calcolato in base alle fasi lunari che nel ‘24 è avvenuto il 10 febbraio. Propendo per la dicitura “lunare” perché, oltre a descrivere l’effettiva differenza con l’altro Capodanno, non è un riferimento monoculturale.
Il Capodanno lunare, come San Valentino, San Silvestro, Sanremo, si festeggia con i vestiti della festa, seguendo un dress code rituale, che prescrive la grammatica del buon auspicio declinata in un insieme di convenzioni riferite a un colore – il rosso – e alla figura del segno zodiacale dell’anno in corso, in questo caso il drago. Nel dover fare del Capodanno lunare, il vestito diventa una delle pratiche per attirare la buona sorte ed entrare in sintonia con il nuovo ciclo, intitolato ai 12 animali scelti, a seconda delle leggende, da Buddha o dall’Imperatore di Giada. Mi riferisco ai 12 animali che descrivono i segni astrologici cinesi: Topo, Bufalo, Tigre, Coniglio, Drago, Serpente, Cavallo, Capra, Scimmia, Gallo, Cane e Maiale. Sicuramente tra quelli citati, insieme al cane, al coniglio e alla tigre, il drago è una figura dal grande impatto su immaginari mitologici e mediatici, che assume un diverso significato in Europa e in Asia, e arricchisce la decorazione di capi e accessori. L’avere un’occasione in più per raccogliere oggetti del sistema moda in una collezione dedicata e limitata, inserisce il Capodanno lunare tra le migliaia di ghiotte occasioni contemplate da quell’insieme di marketing e storytelling che scandisce i nostri consumi fisici e mediali. Ogni anno, a dire il vero, mi diverto a guardare le capsule collection del Capodanno lunare, e quest’anno, forte della presenza del drago, ho voluto sistematizzare l’osservazione per ricavarne una tipologia.
La rappresentazione del drago è essa stessa una convenzione che, da secoli, ha assunto stabilità nella manifestazione visiva, in modo che la sua comunicazione potesse trascendere lingue e culture. A seconda della cultura di riferimento ogni drago ha le sue peculiarità – più o meno artigli, naso vistoso, forma serpentina o da T-rex, capacità di sputare fuoco – però, nel complesso, ci sono dei tratti invarianti che lo qualificano come tale, traducendolo in tutte le lingue e i linguaggi, come coda, squame, corna simili a quelle del cervo, occhi demoniaci, larghe narici. Tra occidente e oriente cambia la polarizzazione del drago: in Asia è un essere benefico della natura, in Europa è l’embodiment del peccato, del male. Nel primo caso il drago va adorato, nel secondo ucciso per dimostrare eroismo e valore. Sembra dire molte cose sulle radici del cattivismo à l’européenne de luxe.
La discrepanza tra le due reputazioni si riflette anche in miti, letteratura e contenuti mediali moderni e contemporanei. Nel sistema della moda si privilegia la rappresentazione orientale, più complessa, elegante, e, soprattutto, più facile da riprodurre, considerando che il drago è un ornamento vestimentario di buon auspicio almeno dal VII secolo, affermatosi durante l’impero della dinastia cinese Song. E così il drago da ente celeste diventa decorazione, persistendo ancora oggi nel limbo tra celebrazione e appropriazione culturale, marcato dalla fascinazione per l’Asia nutrita dalla cultura occidentale, sviluppatasi in Europa nel XVIII secolo in qualità di chinoiserie. Nel culmine delle celebrazioni dell’anno del dragone, la creatura mitica viene rielaborata dai circa 50 brand di moda della mia mini-ricerca in quattro modi: citazione della tradizione asiatica (21 marchi); cartoonizzazione/fumettizzazione del drago per renderlo più carino, “cute”, sdrammatizzando la sua autorità millenaria (9 brand); drago stilizzato nei suoi tratti più riconoscibili per non appesantire il capo o l’accessorio (13 marchi); drago pattern, che diventa trama e ordito (4 brand).
Se la fedeltà nella rappresentazione serve a sembrare più rispettosi della cultura, il manto di cuteness, di converso, vira su un ribaltamento degli attributi canonici del drago che sfruttano la dolcezza e la bontà per ridurre le proteste relative all’appropriazione culturale. Ai quattro tipi di dragone si aggiungono altrettanti marchi che celebrano il capodanno lunare con l’assenza del segno distintivo, privilegiando un tipo di giacca tradizionale dal nome significativo Longzhuang (cinese:龙装=vestito del drago), o utilizzando tratti riconoscibili come una parte della tomaia delle sneakers simile alle squame, il manico di una borsa somigliante alla coda, oppure, più semplicemente il solo colore rosso, o, ancora, elementi di grande rilievo per la cultura cinese come la giada, una pietra-ancora spirituale dal multiforme aspetto.
Nella cultura asiatica le decorazioni di buon augurio si estendono ad altri motivi che da soli o associati al drago assumono determinati significati, tra cui le nuvole, simbolo celeste di felicità e fortuna; la tigre, associata all’autorità, al coraggio e al potere; la fenice, universale di bellezza e rinascita, che in combinazione con il dragone diventa una benedizione per la vita di coppia. Da sola la fenice rappresenta lo Yin dello Yang del taoismo, questi ultimi segni oggetto di un’appropriazione culturale selvaggia, che va dal pigiama al tatuaggio, passando per le felpine da ribelle.
Nelle campagne per promuovere le collezioni dedicate all’anno del dragone, il Capodanno lunare diventa un modo di vivere i nuovi inizi, di esperire i luoghi. Difatti in Asia assume particolare rilievo l’assistere alla prima alba del nuovo anno, gesto simbolico per partire con il piede giusto. Di converso, in Occidente, è costume passare l’alba del nuovo anno a dormire o in condizioni non troppo dinamiche dopo una notte di bagordi.
Che sia alba o tramonto, è praticamente impossibile avvistare un drago nonostante l'etimologia di questa parola tanto cara al folklore globale significhi proprio "vedere". Osservando il verbo greco δέρκομαι – guardare –, si nota un'assonanza che si sostantivizza nel δράκων dei miti per designare un rettile dalla vista acutissima o dotato del potere di paralizzare con lo sguardo le prede. L'origine del termine è attribuita a varie radici del sanscrito i cui sensi spaziano da vedere a strisciare, passando per allungare, negli ultimi due casi connotazioni qualitative dei rettili, che, appunto, si estendono in lunghezza e strisciano. Il draco-draconis latino spunta nei dipinti sacri dei larari domestici dell’antica Roma, adibiti al culto dei numi tutelari della casa. Si trattava di un serpentello di buon augurio che per la sua funzione protettiva veniva anche ospitato come animale domestico.
Il drago è una creatura profondamente connessa alle forze elementali di cui padroneggia acqua e fuoco, che rimandano, a forza, prosperità, adattabilità, ma anche resilienza.
Ciò che non è né drago né rosso come il colore beige, viene usato perché, secondo il senso comune dei social, gli oggetti della moda femminile troppo squamosi e rettiliani innescano l’effetto “donna-dinosauro”, un processo di maschilizzazione invisa ai canoni di bellezza asiatici, per cui l’uomo-dinosauro, al contrario, viene apprezzato proprio per i lineamenti particolarmente affilati. La connotazione negativa del drago al femminile la troviamo anche in italiano: si è draghi al maschile quando si può contare su capacità intellettive eccezionali e dragonesse se a essere eccezionale è l’atrocità di modi e aspetto (vocabolario Treccani). Persino nel mondo dei draghi ci sono stereotipi di genere a sfavore delle donne. In una reinterpretazione di un’antica leggenda raccontatami da Ra Jong-yil, diplomatico e accademico coreano, sembra che proprio grazie a una donna e a un drago i coreani iniziarono a sviluppare lo spirito patriottico.
Secoli fa, quando ancora natura e cultura convivevano pacificamente, c’era una giovane donna nota per la sua bellezza, non semplicemente per le sue qualità fisiche, ma per la sua delicatezza d’animo che si trasformava in un’energia così radiosa da avvolgere con allegria e prosperosità tutto ciò che la circondava. Un drago marino dopo giorni e giorni di osservazione, decise di appropriarsi di questo essere così prezioso e di portarla sott’acqua, nel suo regno. I conterranei della donna in pericolo reagiscono coalizzandosi compatti, presidiando le rive del mare con canti e balli, in modo da far percepire al drago la loro presenza. Il drago marino inizia a riflettere sull’importanza della donna per la sua comunità, sul suo potere di impegnare le persone in un unico obiettivo e decide di riportarla pacificamente a riva in modo da risolvere la questione pacificamente. Ecco, come in tutte le storie, la mancanza iniziale, il rapimento, innesca un sentimento condiviso di eroismo, che nei miti europei confluisce in una sola persona superiore per qualità e competenze, mentre in Oriente il drago costituisce una comunità che ricorda il concetto di Gemeinschaft teorizzato da Tönnies. Insomma, in Occidente importa chi si distingue nella Gesellschaft, chi è in grado di dividere e comandare.
I coreani tengono testa al drago perché condividono un sistema di valori e un legame organico con la patria e il territorio, mentre l’eroe, sostanziato anche dalle rappresentazioni religiose dove la credenza può essere più o meno radicata, combatte da solo come San Giorgio. Lo scontro con il drago coreano non è sanguinoso, bensì si sostanzia in una negoziazione, tra umano e sovrumano, tra cultura e natura, di cui il drago è sovrano indiscusso.
Lo spirito di corpo si sviluppa per un fine comune, per condividere non per distruggere. Questa è la lezione di stile del drago d’Asia.
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