Effetto Beirut

30 Marzo 2024

Ho fatto un viaggio nel tempo. L’ho capito solo stamattina quando mi sono svegliato nella mia comfort zone europea, dopo una settimana passata a Beirut, nel futuro. Noi che parliamo tanto di antropocene, di cambiamento, di catastrofe imminente, di un futuro pericoloso a cui dovremo in un modo o nell’altro abituarci: ecco, se volessimo davvero vederlo, con poche ore di volo è possibile fare un salto nel futuro e tornare poi nel passato, nella nostra cara, vecchia e noiosa Europa. 

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C’è una data precisa in cui è iniziato il futuro a Beirut: il 4 agosto 2020. Al di là delle guerre che hanno devastato dal 1975 al 1990 questo paese grande come la Basilicata, quel giorno è successo qualcosa che va oltre ogni motivazione bellica e potrebbe tristemente candidarsi, al pari della pandemia, come uno degli effetti dell’arrivo dell’antropocene. Ufficialmente 2750 tonnellate di nitrato d’ammonio confiscate da una nave abbandonata sei anni prima sono esplose: più di 200 morti, 7.000 feriti, due terzi degli abitanti rimasti senza casa. Chiedo dell’esplosione al tassista che mi porta dall’aeroporto in hotel, mi dice che tutti sanno chi è stato ma nessuno lo vuole dire e infatti non me lo dice neppure lui. Quello che vedo e che continuerò a vedere è un panorama sbrecciato, contuso, ferito. Case, palazzi, automobili, tutto è ammaccato, molti palazzi sono vuoti, enormi scheletri di cemento senza vetri, altri brulicano di vita, ricoperti di teli per attutire il sole, tutto è color polvere gialla, ci sono fili elettrici ovunque, passano sulle strade, si attaccano dove possono, ragnatele di cavi che a volte si aggrovigliano e coagulano in qualche improbabile punto per ripartire in ogni direzione. 

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Poi ci sono loro, i libanesi. Senza ombra di dubbio, donne e uomini tra i più belli al mondo e altrettanto certamente, fra i più gentili. Tutti parlano indifferentemente tre lingue: arabo, francese, inglese. Quello che ho vissuto io è una forma di cortesia diffusa, una generosità endemica che si manifesta in piccoli gesti noncuranti. A Beirut la condizione normale in cui tutti sono immersi è quella che un osservatore occidentale descriverebbe in termini di precarietà e pericolo e che qui rinasce sotto forma di umanità e gioia di vivere. Beirut dista un centinaio di chilometri dal confine sud, dove si combatte. È la stessa distanza che c’è fra Bologna e Rimini. Cammino per Mar Mikhael, è un quartiere popolare pieno di locali in cui si beve, si mangia, si sta in compagnia fino a tardi. Non credo che se ci fosse una guerra a Rimini, a Bologna continueremmo a farci l’aperitivo senza battere ciglio. Qui è la normalità.

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La città è tutta un saliscendi di strade, scalinate, vicoli. Provate a immaginare Napoli o Cagliari dopo un evento catastrofico, togliete tutto ciò che può anche lontanamente apparire come carino, pittoresco, turistico, seminate qui e là ristoranti e negozi di lusso e soprattutto improbabili grattacieli costruiti in quelli che fino a qualche anno prima erano giardini delle case nobiliari di primo novecento, giardini venduti dalle famiglie nobili economicamente decadute che si sono viste crescere in giardino enormi mostri di cemento. Ho visto grattacieli costruiti non accanto ma letteralmente sopra antiche terme romane. Al pianterreno qualche vetro sul pavimento fa vedere quello che c’è sotto ed è tutto. Siamo nel quartiere sopra Mar Mikhael, dove abita il jet set di Beirut, qui, nel palazzo Sursock, dal 14 marzo al 7 aprile si tiene la mostra Tools For After Design, portata a Beirut dall’Istituto Italiano di Cultura di Beirut diretto da Angelo Gioè. Partita da Melbourne nel 2023, questa è la prima tappa del giro che farà la mostra nei prossimi anni. Sono qui invitato dall’Istituto in qualità di curatore della mostra, insieme a Francesca Parotti dell’ISIA di Firenze che ha in esposizione due opere. Il palazzo è molto lontano dal porto dove è avvenuta l’esplosione, per questo sono ancora più sconcertanti le immagini del day after che mi fanno vedere i responsabili del palazzo, dentro non c’era più nulla al proprio posto, anche i due quadri di Artemisia Gentileschi di proprietà della famiglia Sursock sono stati fra i feriti di quell’evento. 

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Arriva il giorno dell’inaugurazione, l’allestimento è stato curato dagli allievi dell’Alba, Accademia Libanese delle Belle Arti e intorno a mezzogiorno non è ancora arrivato tutto. Sono tutti tranquilli, io meno, ma il posto è letteralmente fantastico, qualche luce nei punti giusti e potrebbe spuntare Alì Babà da dietro a una colonna con la lampada di Aladino in mano. Poi magicamente ogni cosa va al proprio posto e quando inizia ad arrivare la gente tutto è pronto. Il giorno dopo al mattino visitiamo l’Alba e il contrasto fra la città sbrecciata fuori e il campus universitario dentro è sconcertante, sembra di stare in un paese del nord Europa. Stessa situazione all’università Usek di Kaslik, dove troviamo un vero e proprio campus formato da diversi edifici immersi nel verde. 

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Avevo provato ad avere un profumo di Beirut andando nella biblioteca più fornita della mia città e arraffando tutto quello che mi capitava sul tema in italiano. Quello che è rimasto nella rete dopo quella pesca è stato utile, soprattutto per capire quanto è profondo il sentimento di un popolo che ha Enkidu fra i suoi eroi originari. Una cosa che avevo capito era che in Libano la narrazione a fumetti era importante, allora la Trilogia di Beirut di Barrack Rima mi è stato utile per entrare in quei paesaggi devastati che poi avrei visto e capire quanto essere nati in un paese sempre in guerra abbia necessariamente formato ogni testa pensante e non. Poi ho assaggiato Beirut, I love you, di Zena el Khalil, artista e blogger, se vuoi capire senza mezzi termini come stanno le cose credo sia il libro migliore, crudo, preciso e scritto senza tanti fronzoli.

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Con San Giorgio guardava altrove di Jabbour Douaihy siamo nella letteratura fatta bene, dove si entra in un mondo dove cristiani e musulmani abitano l’uno accanto all’altro e a volte si mescolano senza neppure accorgersene. In Donne di Beirut di Iman Humaydan Younes, quattro donne raccontano la propria vita durante la guerra civile. Nei racconti di Una sera qualsiasi a Beirut di Sélim Nassib troviamo il mondo arabo in diversi momenti, luoghi e tempi, una specie di compendio delle emozioni. Beirut, storia di una città di Samir Kassir è utilissimo per conoscere vita morte e miracoli della città e del suo immaginario, da Georgina Rizk che diventa la prima Miss Universo libanese nel 1971 agli intrighi della vita politica, unica pecca che è uscito ai primi anni del Duemila.

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Quello che avevo sul comodino nell’hotel lungo la scalinata di St Nicolas quando la luce se ne andava e dopo un po’ ritornava, perché anche questa è una delle cose che accade spesso in città, era Un taxi per Beirut, di Ghada Samman. Grazie a questa lettura ho capito lo sguardo interrogativo che mi ha rivolto un tassista mentre attraversavo la strada pur avendo l’auto stracolma, no, grazie, non mi serve. In un taxi collettivo partito da Damasco alcuni personaggi arrivano a Beirut e si perdono ognuno seguendo la propria strada che a volte li farà incrociare fino ai vari finali delle loro storie, quasi sempre terribili fino alla pazzia e alla decapitazione ma, nonostante tutto: “Tutte le donne e tutti gli uomini sognano Beirut”.

Fotografie di Francesca Parotti e di Maurizio Corrado

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