Elena Kostjučenko: la Russia e la morte

29 Ottobre 2023

La mia Russia, libro di Elena Kostjučenko, pubblicato in lingua italiana pochi mesi addietro, rappresenta un vero e proprio viaggio nel tempo e nello spazio degli ultimi vent'anni, e a caratterizzarlo è un linguaggio asciutto, empatico ma senza alcuna indulgenza ad atteggiamenti e interpretazioni lacrimevoli. La giornalista russa, per anni corrispondente di punta di Novaja Gazeta e attualmente collaboratrice del media online Meduza, ha provato a  ricostruire e a presentare ai lettori del giornale del premio Nobel Dmitrij Muratov una Russia spesso sfuggita all’occhio comune, indagando senza mai lasciarsi andare a facili prediche sulle radici dei problemi e con una forte dose empatica nei confronti dei protagonisti dei suoi reportage: adolescenti abbandonati a sé stessi, pazienti di una clinica psichiatrica, abitanti di villaggi divisi dalla linea ad alta velocità, madri e parenti dei bambini caduti a Beslan, e infine le vittime dei primi giorni della guerra in Ucraina nella città di Mikolayiv.  Un viaggio agli inferi, forse, potrebbe essere una definizione ad effetto per testi così duri ma in grado di entrare sotto la pelle, grazie all’eccellente lavoro dei giovani russisti Maria Cantorani, Riccardo Mini, Martina Mecco, Giulia Sorrentino e Francesca Stefanelli coordinati da Claudia Zonghetti, traduttrice di lavori importanti e tragici come i romanzi e gli scritti di Grossman e Šalamov. 

Non vi è consolazione né compatimento, nelle pagine di La mia Russia, la cui pubblicazione in lingua russa è stata annunciata come prima opera della nuova iniziativa editoriale di Meduza, e i ritratti stesi in poche, ficcanti, parole dall’autrice raccontano di un paese profondamente segnato dalle difficoltà di una vita spesso grama al di fuori delle grandi metropoli, dove il luccichio delle insegne e i caffè all’ultima moda rappresentano un miraggio per chi deve barcamenarsi con stipendi da poche decine di migliaia di rubli o deve far i conti con la disgregazione del proprio piccolo mondo, sia esso familiare, come accade agli adolescenti e non radunati nella carcassa di cemento del mai costruito ospedale di Chovrino, nella periferia nord di Mosca o ai genitori dei bambini massacrati un giorno di settembre a Beslan,  sia invece la perdita di senso dei piccoli popoli dell’estremo settentrione del paese. Uno sguardo forse duro, forgiato dall’infanzia e dall’adolescenza in quegli anni, i Novanta e i primi Duemila, dove la macabra consuetudine con la morte entra prepotente nella vita di milioni di russi, come descrive la stessa Kostjučenko nel primo capitolo: i funerali in quegli anni erano una consuetudine, e nel cortile di casa nostra c’era sempre qualche bara coperta con un drappo rosso. Io mi avvicinavo e domandavo: Perché è morto? Perché è morta? Morivano per il troppo bere, perché si impiccavano, finivano in mezzo a una sparatoria o ammazzati durante le rapine, morivano dentro a ospedali senza medicinali né medici. Una disperazione dovuta non solo esclusivamente al crollo dell’Unione Sovietica, ma al sentimento espresso in una frase lapidaria della madre dell’autrice di fronte alla domanda del perché nessuno avesse fatto nulla dove vi è tutta l’amarezza delle speranze deluse della perestrojka: ci hanno ingannati

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La scelta di aprire il libro con il reportage dall’inaugurazione di Dmitrij Medvedev, presidente eletto nel 2008 come successore giovane e liberaleggiante di Putin e oggi tonante minacce atomiche su Telegram, riesce a rendere evidente la dissonanza esistente tra il film a lieto fine degli scenari e delle rappresentazioni del potere trasmesse in leggera differita da stuoli di giornalisti e videocamere e un paese lasciato ai lati, fuori dal campo visivo, lontano eppure così vicino e reale. Una condizione di marginalizzazione anche quando ad avanzare è la modernità, come nel caso del Sapsan, il treno ad alta velocità che collega Mosca a San Pietroburgo in 3 ore e 45, ma con la conseguenza di stravolgere il trasporto locale e il tessuto sociale di quei piccoli centri e villaggi tagliati dalla linea ferroviaria. Una marginalità feroce, spietata, e le parole della Kostjučenko diventano immagini di esclusione, dove le baracche ai bordi di un’autostrada di provincia, nelle quali donne provenienti da famiglie povere si prostituiscono sognando la capitale e un matrimonio, si affiancano agli immensi spazi della tundra abitati dai nganasan, piccolo popolo della penisola del Tajmyr falcidiato dai suicidi e dall’alcol.

L’autrice cerca di delineare, attraverso i propri servizi presentati con brevi capitoli introduttivi, una genealogia del sistema di potere in Russia, rovesciando però la piramide, perché con l’indagine dal basso, ai margini, entrando nei luoghi della riproduzione dell’autorità, come la clinica psichiatrica in cui viene chiusa per un reportage, descrivendo il vuoto atroce del dolore delle madri di Beslan, si riesce a comprendere appieno il punto finale dell’evoluzione del regime, manifestatasi con l’aggressione militare in Ucraina. La diseguaglianza sociale è la base di un assetto dove l’esclusione è una norma che coinvolge anche quei volontari andati a combattere in Donbass nel 2014 e i cui cadaveri venivano trasportati di nascosto negli obitori militari di Rostov, perché la versione ufficiale diceva che non vi erano russi in quel “conflitto interno”; ironia amara, alle famiglie dei soldati caduti durante il tentativo di avanzare su Mikolayiv otto anni dopo non verrà assicurata una bara su cui piangere. È quest’ultimo servizio a segnare la sorte di Elena Kostjučenko e in un certo senso anche di Novaja Gazeta: il giornale dovrà sospendere le pubblicazioni per le pressioni delle autorità russe e la cronista sarà costretta a lasciare la Russia per il pericolo di venir ammazzata, e non si tratta di un’esagerazione, perché lo scorso agosto viene reso noto un tentativo di avvelenamento avvenuto nell’ottobre del 2022 e su cui indaga la magistratura tedesca. Parole da eliminare, voci da ammutolire, verità da occultare: temi presenti nel libro, che lo rendono testimonianza di una Russia sofferente e solcata da una profonda ingiustizia sociale.  

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