Elio Pecora, le storie di una vita

30 Marzo 2024

In L’avventura di restare (Poesie 1970- 2020) ultimo libro di Elio Pecora, uscito per Crocetti con partecipata prefazione di Daniela Marcheschi, eccole presentarsi nella pagina, vivide e autentiche, le tante storie di una vita, che come in un gioco di scatole cinesi, sembrano come appartenersi, legarsi le une alle altre. Sì perché il lettore, percorrendo magari nel verso una strada chiara, si perde poi in una viuzza laterale, buissima, che in fondo però sembra riprendere la luce della principale. E allora la forza di Elio Pecora, è far coesistere nel verso l’opposto, l’antinomico, la voce dello stupore sì ma nel tono talvolta dimesso, lo sguardo del rapimento amoroso sì ma nella consapevolezza della fugacità.

Lo stesso poeta nella breve ma essenziale premessa, ci dice nel finale: “Decidersi ad una scelta non è compito agevole … Ma l’età incalza, l’urgenza di affidarsi alla durata illudendo conforta. Contare su una vista più lunga, su un orecchio più accorto si addice a chi non ha smesso di cercarsi di là dallo specchio …”. E queste parole, quasi potrebbero dare l’abbrivio al bellissimo poemetto iniziale datato 1970, dal titolo Narciso in pensiero: un Narciso nuovo quindi, non ripiegato nel pensiero di sé appunto ma nella ricerca strenua e senza fine di quella chiave che possa permettere finalmente la vicinanza con l’altro da sé: “Narciso procede nel gioco./ Almeno amare qualcuno, tanto da rivelargli l’obbrobrio,/ confidargli questa verità finora taciuta./ Sì che quel che parve terribile, disciolto nelle parole,/ mescolato alle cose, a un volto, a un luogo/s’addolcisca, si plachi./ Spogliarsi dei panni del teatrante costretto”. Il Narciso-Pecora, vuole spingersi oltre lo specchio, infrangere il suo corto riflesso e tanto il poeta ha dovuto patire e vivere per riuscirvi, per immaginare una nuova figurazione dei rapporti, delle relazioni, sempre centrali nella sua idea di vita ma come per destino, quasi un destino dai riflessi mitologici, tante volte frantumate, addirittura dissolte prima che potessero avere compimento: “Ombra che indugi nella memoria confusa/ come al ritorno da un lontano viaggio/ non più dicendo di altre partenze e fatiche/ e del destino di abitare sulle onde//…/ (Noi scendevamo l’isola verde di luce,/ svaniti gli orti, le case, prossimo il cielo,/ nelle tue braccia, come semenza nel solco,/ colsi un istante il bene di essere colmo.)”.

Le relazioni perdute, quelle mai nate, anche se figurate, le costruite con malta e mattoni, credute inscalfibili ma poi abbattute dai sismi ciechi degli abissi e per fortuna forse, visto che divennero prigioni: si legga, per inciso, la serie stupenda dal titolo Sedici poesie del non amore; e poi invece quelle nate senza alcun progetto e proprio per questo destinate a durare nell’eterno attimo, come in Recinto d’amore, dove trapela anche lo studio appassionato su Auden. E quindi potremmo pensare talvolta in Pecora questa chiara vicinanza: relazione che indirizza il destino o forse, più oscuramente, il destino che chiama la relazione. Sì, l’attimo per questo poeta è tutto, perché dentro tutto vi accade e proprio per questo, è suscettibile di smisurata attenzione. In esso, nella sua importanza ed elaborazione di dettato, sicuramente si affaccia la lezione silenziosa e amicale del grande Sandro Penna.

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E come potremmo appunto non immaginarla, leggendo qualsiasi verso di questo libro: “/“Ora promettimi di essere eterno”./ La tua voce pretende una risposta.// Io dico: “Eterno è questo che viviamo”,/…/ Ma nelle mie parole v’è il morire/ che ci spetta, la brevità del tempo/che ci fu dato in oscura misura,/ v’è la passione che non sa durare/oltre il fievole battito del cuore/ v’è la sconfitta e, pure in questa, il bene/ di restare nel sole del mattino”. Pecora è sempre dentro l’occasione e direi il momento, è in quello sguardo stupefatto che osserva la rosa durare per un giorno e mai sarà nelle lunghe calende dei mesi, dei calendari che col loro sfarinarsi lungo dei giorni, poco restituiscono del mondo. Solo attraverso il fratello attimo, questo poeta sminuzza nel verso le tante generiche voci in quelle di ognuno, la sofferenza astratta nel pianto concreto, l’allegria nelle polveri d’allegria, le tante ombre nelle amate fiammelle, una ad una ricordate nel giro inesausto dei versi.

Così scrivendo, Elio Pecora ci restituisce infine quel frammento di parola, che proprio perché sempre traversa il particolare, tiene dentro il sacro. E sempre e tutta la sua storia è stata un mettersi a nudo, che non vuol dire necessariamente manifestare una identità definita e chiara, bensì forse le tante che combatterono nel suo corpo, per uscire di volta in volta nelle stagioni della vita. Comprendiamo quindi, quanto in questo libro la relazione, come si accennava, possa in sé contenere un destino e di cosa si potrebbe parlare autenticamente in poesia se non, come ci dice egli stesso nella parte finale del libro, “della propria storia”; ma naturalmente ed è qui il salto rilevante fatto da Pecora, la sua biografia non è composta solo di quell’attimo caro e prezioso ma anche di quel secondo fuggevole e sfuggente che sostanzia l’altro suo mondo, quello onirico. Ecco allora che le figure del libro sembrano correre in due dimensioni parallele e magari in quella reale, eccole manifestarsi in visioni ambigue e oscure, in quella del sogno eccole comparire in uno stato di chiarezza mai prima avuta: “il sogno, non quello che a notte/assai di rado conduce per inattesi Eldoradi,/ invece inserra porte, stringe cunicoli,/ confonde alfabeti, lega i piedi alla fuga;/ (torna mio padre e mi offende/ come mai fece da vivo;/ parte per non più tornare/ chi a fianco mi dorme fedele)”.

Quasi che in quella dimensione sospesa, le storie della vita, trasfigurandosi, torcendosi, trovino nuove vie, destini, inaspettate chiavi di lettura per il lettore stesso. Essere veri poeti, ci insegna Elio Pecora, è in qualche modo resistere ai colpi della vita, per scrivere dei suoi giorni molto umilmente, in punta di penna, riportare la loro fuggevolezza. L’avventura di restare, quindi, segna il lungo passaggio di una vita, passaggio cinquantennale, tutto rivolto come solo gli scrittori alti sanno fare, alla captazione del battito conscio ed inconscio del mondo ma anche, in relazione ad esso, del proprio: “Andare dove non v’è confine, solo fine/l’andare. Interminata avventura e tutto/ confonde ed esalta, una nave, una barca/ e un mare senza onde, remote le sponde,/ la luna nel cielo innestata, la gioia insediata/ là dove si stempra la pena, un saluto, un addio”. Captazione del battito, fu anche per Elio, quel puro confronto nella Roma di fine anni sessanta del secolo scorso, con i suoi amici scrittori e non, confronto franco mai infingardo.

Sempre ha immesso Pecora, anche nel dialogo, il pulsare poetico, di modo che tutto potesse giocare con tutto e l’arte non risultasse un giro vuoto di parole, un alambicco per pochi eletti. Lo ricordo Elio a Reggio Emilia, dopo una stupenda serata di sue letture; discorrevamo amabilmente in un caffè, nel pieno frastuono, della sua grande amica Elsa Morante (qui in fondo la poesia su di lei), amica rimarcò “sino ad un certo punto della mia vita”. E mentre ne parlava, sembravano uscire dalla sua bocca, in un gioco di raccordi e intrecci, anche i corpi volanti ed un poco ondeggianti, come in un quadro di Chagall, di Penna, Bellezza, Moravia, Rosselli; ecco quel tavolino del confronto e dell’ascolto, mi parve per un attimo, esser divenuto un altare. “Tornata/ per chi sa quale buco o scalea/ dal buio dei cancellati,/ uguale/ la frangia mogano dei capelli,/ gli occhi di agata,/un’arma l’ombrello/ contro il mondo che lede,/ tornata,/alla cassa del supermercato/paga cibarie/da portare allo sprofondo/del dispiacere senza porte.”

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