Francesco Piccolo e la bella confusione

14 Settembre 2023

Anno 1963. Visconti e Fellini realizzano i rispettivi capolavori, Il Gattopardo e Otto e mezzo. La bella confusione è il titolo di lavorazione del film felliniano, ma anche il forte sentimento che accomuna i due artisti. Il libro, così, se ne appropria.

Incrociando e analizzando centinaia di fonti, scritte e audiovisive, Francesco Piccolo compone un dossier letterario in cui i due film si specchiano l’uno nell’altro. Il Gattopardo nasce come film politico per diventare una raffinata opera intima e personale; Otto e mezzo sorge quale crisi personale del regista, per rivelarsi film politico e definitivo sulla psiche collettiva degli italiani. 

I due film si incrociano, a X, un chiasmo. All’interno di questa X, Piccolo inserisce un’altra X, la propria. Il libro che sta scrivendo, e noi leggiamo, si innerva nell’arte di Fellini e Visconti, promuovendo lo scatto di energia che nutre l’attività stessa dell’autore: «So con certezza che se mi alzo ogni mattina molto presto, e con una specie di spinta, una mano che mi spinge dal letto per dire: vai, e comincio la mia giornata in cui cerco di fare quanto più possibile il mio lavoro, i compiti che mi sono dato e che mi hanno dato gli altri, è perché al liceo mi è stato messo in mano Il Gattopardo; è perché mi sono seduto davanti alla tv, ho visto Otto e mezzo e ho continuato a vederlo per mesi perché capivo che lì dentro c’era qualcosa che mi spingeva a pensare: anche io devo esprimermi, e fare qualcosa» (pag.261).

La morale è dichiarata. Anche io devo esprimermi. E fare qualcosa. L’espressione di sé è quindi un fatto etico, un dovere. Attraverso il proprio rapporto con Il Gattopardo (Tomasi di Lampedusa e Visconti) e Otto e mezzo (Fellini), lo scrittore contemporaneo italiano, tra letteratura e cinema, reperisce l’urgenza di esprimere se stesso. In virtù di qualcosa. Quasi un legarsi alla sedia, e scuotere la penna.

Letto il libro, si sa praticamente tutto sulla genesi dei due capolavori cinematografici (e anche del romanzo di Tomasi), come sono nati e cresciuti, i primi passi nel mondo, gli ostacoli e i malintesi, i rispettivi trionfi, i tradimenti e le glorie dei protagonisti, la fama imperitura. Tutto d’un fiato, come un’appassionata detection archeologica.

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Al lettore rimane però come un vuoto d’aria, qualcosa che manca pur nella pienezza e vastità delle notizie, i dati, le informazioni, i giudizi, le interpretazioni. Al lettore stesso viene voglia di infittire la detection. Si intuisce che da qualche parte, tra le pagine dense e ordinate, si insinua un piccolo grande segreto. E che per condurlo in superficie occorre cercare là dove non ti aspetti, un’annotazione a margine, un tratto di colore, una parentesi apparentemente non necessaria. Come ogni lapsus esige e richiede.

Sfogli allora il libro a ritroso, ti affidi all’intuito. E se sei fortunato, il vuoto d’aria improvvisamente vibra, e infine si mostra. In questo caso, a pagina 110, persino facile a ricordarsi. 

A pagina 110, infatti, l’autore, Francesco Piccolo, invitato in casa di Caterina d’Amico, racconta un episodio di cui fu testimone diretto. Un «dialogo pazzesco» tra Ettore Scola e Giovanna Ralli. Niente Fellini e Visconti, quindi, ma una gustosa parentesi, una nota di colore, una divertita divagazione, un numero innumero alla plautina: «Le parole che sentivo erano di Giovanna Ralli che stava dicendo a Scola su per giù questo: tu non l’hai mai considerato fino in fondo, ma io ero pronta a scapparmene con te, a lasciare tutto. Ettore bofonchiava e diceva: ma che dici. E lei: non fare lo scemo, non trattarmi così».

Piccolo precisa di trovarsi seduto tra i due, che parlavano «come se io non ci fossi» e che lui, all’improvviso, non ha potuto «fare a meno di ascoltare».

Infine, «Giovanna Ralli si è accorta che c’era un altro essere umano lì tra loro che non avevano considerato ma aveva potuto sentire. Mi ha guardato e ha detto: noi scherziamo eh…». Quale reazione a tutto ciò «ho risposto, sfacciato: io sono entusiasta, fate finta che non ci sono». Per la precisione, «entusiasta di tutto quello che avevo sentito e che stava succedendo»

Non sembrano esserci dubbi. L’episodio è la raffigurazione di ciò che Freud ha denominato la scena primaria, ossia il bambino che assiste all’amplesso dei genitori. I due adulti instaurano una tensione carica di sensualità, parlando come se io non ci fossi, ovvero senza accorgersi della presenza di un altro essere umano, il quale non ha potuto fare a meno di ascoltare, e infine di essere entusiasta per tutto quello che aveva sentito e che stava succedendo. Tanto che quando la Ralli si accorge di Piccolo, fa come la mamma che si rede conto che il figlio sta spiando, si giustifica subito, noi scherziamo, eh.

Come annota Freud, la scena primaria rappresenta la fantasia di osservare il coito dei genitori direttamente dal grembo materno. Come se non bastasse, a pagina 259, l’autore racconta come i suoi genitori gli abbiano confessato di averlo concepito una notte a Roma, nel 1963, anno evidentemente fatale, «con le sale dei cinema che proiettavano chi Il Gattopardo, chi Otto e mezzo».

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Insomma, Francesco Piccolo è stato concepito dal cinema italiano. Lui è ossessionato da Il Gattopardo e Otto e mezzo, che guarda e guarderà per tutta la vita, perché è la visione capace di entusiasmarlo nell’assistere all’infinito all’amplesso dei genitori.

Cosa significa, al di là degli entusiasmi autoriali, questo piccolo grande segreto?

Ebbene, significa, e nel modo più profondo, lo stato allucinatorio in cui versa la cultura cinematografica italiana oggi. La fantasia allucinata del letterato votato al cinema per certificare la propria identità di figlio legittimo di quella tradizione. Il dovere di esprimersi da cui è divorato trova pace nella nevrosi, iper-edipica, di risultare un prodotto dei lombi illustri di ciò che un tempo si chiamava grande cinema italiano, e che oggi non c’è più (e quindi perché oggi dovremmo andare a vedere film italiani?). 

Non basta. Da tale allucinata fantasia deriva la mitizzazione di qualunque retroscena, qualsiasi dietro le quinte, ogni piccola e insignificante notizia. Tutto diventa mito, dal puerile litigio Fellini/Flaiano per il posto in business class sull’aereo per l’America, fino alle stupefacenti manie esoteriche di Nino Rota.

Dalla riduzione di ogni singola cosa a mito generatore, scaturisce ciò di cui si nutre il sistema culturale italiano nel suo complesso, ossia la sindrome dell’Archivio e del Museo.

Ogni minimo sussurro è degno di Archivio, e parimenti ciascuna figurina della filiera filmica, dell’ambiente cinematografico, deve avere il suo posto al Museo. L’Archivio del tutto/nulla dove qualunque dato o elemento che provenga dal passato, minuscolo o mastodontico, trovi il suo para-scientifico stupore; il Museo integrale del sommo cinema che non c’è più, e, soprattutto, non potrà più esserci, pena la svalutazione dell’intero impianto mitico.

La cultura cinematografica italiana, di cui il cinema stesso evidentemente fa parte, è oggi integralmente consegnata a tale mito ossessivo: la nevrosi perpetua innescata dalla fantasia della scena primaria. Il cui precetto recita: osservare l’amplesso del grande cinema che fu, possibilmente dall’interno, facendo parte degli spermatozoi alla deriva che quell’amplesso ha emulsionato. In breve, riconoscersi eredi sul ciglio dell’inettitudine che solo far parte dell’ambiente può sopire se non placare. Che non è la virtù del provinciale a Roma, perché Fellini e Visconti, per esempio, dell’ambiente semplicemente se ne infischiavano.

Tutto ciò implica una sottile ma costante svalutazione di tutte le motivazioni che nel ‘900 si dicevano politiche. Togliatti e il PCI chiedono a Visconti di realizzare Il Gattopardo per correggere, avrebbe detto Brecht, l’errore prospettico, tutto borghese, del romanzo di Lampedusa, ripiegato sulla interiorità decadente del protagonista, e Visconti invece scorge nel principe di Salina il suo alter ego, e segue giustamente tale ispirazione. Tra la ragione politica e le esigenze dell’Io, scrive Piccolo, non c’è partita. Lunga vita alle seconde. Anzi, la ragione ormai non è mai politica, ma solo ideologica. E così il dissidio si scioglie. L’uomo, l’artista è uomo più di tutti, deve ascoltare esclusivamente le urgenti esigenze dell’Io. I pazienti progetti della visione politica vanno dismessi perché ridotti a pura ideologia. Contano i diritti umani, l’identità, insomma, e non più quelli sociali, un’idea di mondo. 

Il libro di Francesco Piccolo – recentemente insignito del Premio Viareggio per la saggistica –è lo specchio della cultura cinematografica contemporanea che fa del passato una zavorra gloriosa, incasellandolo nell’Archivio e nel Museo. 

fa del passato una zavorra gloriosa, incasellandolo nell’Archivio e nel Museo.
Ma non sempre per fortuna è così. Quando esci dalla visione di Ennio, il film di Giuseppe Tornatore che celebra Ennio Morricone, non avverti che devi esprimerti e fare qualcosa, per restare fedele all’ossessione del passato che incombe, ma senti invece che puoi esprimerti, con la giusta pazienza, per restare fedele non solo a te stesso, ma anche alla società e al mondo che ti circonda.

E non è detto che debba farlo per forza artisticamente, per virtù di entusiasmo nevrotico. Ennio ti dice che puoi esprimerti comunque e ovunque, con l’applicazione e il talento, in ogni settore della società, politica compresa.

Dobbiamo ringraziare, così, Francesco Piccolo, per questa spietata radiografia delle fantasie edipiche incardinate nell’ideologia pietrificata del creativo contemporaneo. A lettura conclusa, almeno una cosa è certa: si può fare dell’altro.  

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