Speciale

Gli animali di Calvino 

23 Ottobre 2023

Di recente ho pubblicato un libro che si intitola Gli animali di Calvino. Il sottotitolo però è un po’ bizzarro: Storie dall’Antropocene. “Che c’entra Calvino con l’Antropocene?”, vi chiederete. Domanda legittima. Sicuramente non lo aveva mai sentito nominare: in fondo, se ne parla solo da una ventina d’anni. Il fatto, però, che il nome non esistesse quando Calvino scriveva non significa che non esistesse l’Antropocene. E secondo me lui se n’era accorto benissimo: pensiamo alle città continue (Leonia!), o all’inquinamento industriale e nucleare della Nuvola di Smog o di Marcovaldo

Ora, l’Antropocene ha molti volti: riguarda i paesaggi, gli habitat naturali, l’atmosfera, i cambiamenti climatici, le infinite disuguaglianze che dividono le popolazioni umane di fronte ai rischi ambientali. Però a soffrire nell’Antropocene è in generale la vita planetaria, la biosfera: tutta, dai microrganismi alla “megafauna carismatica”. Non si tratta solo di estinzioni, quella è solo la punta dell’iceberg. La vita nell’Antropocene è sfruttata, dislocata, manipolata, confinata—ed è anche, spesso, incontrollabile: pensiamo alle invasioni di specie “aliene” come i granchi blu o le formiche di fuoco. Calvino queste dinamiche le vede e ce lo fa vedere, e nel libro seguo la sua traiettoria narrativa per mostrare come alcuni dei suoi animali (la formica argentina dell’omonima novella, i gatti e il coniglio di Marcovaldo, il gorilla albino di Palomar, la gallina “di reparto” degli Idilli difficili) siano personaggi esemplari attraverso cui si rivela l’Antropocene. 

Il libro voleva parlare della vita umana e non umana nell’Antropocene facendo parlare Calvino, e perciò si concentrava su quei cinque animali. Ognuno di loro costituiva uno spunto per far luce su fenomeni che viviamo tutti noi, a volte senza nemmeno accorgercene. Però gli animali di Calvino sono tanti, e mica tutti ci danno un messaggio geologico. Calvino è pieno di animali. Pensa animali, scrive animali, li sogna, li evoca. E allora, anche invitata da Marco Belpoliti, ho provato a fare un esperimento mentale che vi invito a fare con me. 

L’esperimento è questo: immaginiamo Italo Calvino senza animali. Che cosa succede? Per primi spariscono i suoi libri d’esordio, a cominciare dai titoli: I sentieri dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo. Li seguono a ruota La formica argentina e una buona parte di Fiabe italiane, Marcovaldo e Cosmicomiche, incluso Ti con zero. I cavalli araldici e variamente bardati del Visconte dimezzato e del Cavaliere inesistente forse non sono così essenziali (anche se lo è Gurdulù, che in tutte le cose viventi si perde e si trova). Però senza animali Il barone rampante, storia di un uomo che vola, Cosimo, seguito da un cane che striscia, il bassotto Ottimo Massimo, si sfarina alle premesse: quel piatto di lumache. Le città invisibili smarriscono la felicità inconsapevole di Raissa, trainata da cani cavalli e uccelli, vivi e miniati; i pascoli, noti solo alle capre, di Cecilia, la «molto illustre città» in cui si mescolano i luoghi; le sfingi, le chimere, i draghi, le arpie, i liocorni, gli ircocervi, le idre, i basilischi e tutta la fauna immaginaria che sopravvive a Teodora, dove il dominio della specie umana passa per lo sterminio di tutte le altre; la natura una e bina di Marozia, città del topo e della rondine. Ma fermiamoci qui. Sotto il sole giaguaro non si illumina più, e perduti per sempre sono un bel numero di saggi, articoli di giornale, canzoni, traduzioni, reportage. Più di tutti però ci mancherebbe Palomar, dove animali troviamo dappertutto – e sono volanti, striscianti, ruminanti, fischianti, migranti, scacazzanti, dormienti, interi, squartati, liberi, rinchiusi, fraterni, simbolici, allegri, depressi, succubi, pronubi. Insomma, l’esperimento mentale ha dato un risultato chiaro e inequivocabile: non è possibile immaginare Calvino senza animali. Calvino è uno scrittore zoologico.

Lo stesso esperimento, è vero, lo si può fare con le pietre, le piante, la muta materia (in lui così inarrestabilmente parlante), i paesaggi e le città. Se «la fantasia è un posto dove ci piove dentro», nella fantasia di Calvino ci piovono dentro queste e infinite altre cose: la sua opera è per definizione e propensione «fuori del self» (Calvino 1988, p. 697; p. 733). Però qui si tratta di animali, e i suoi hanno una caratteristica particolare. Calvino infatti non si limita a parlarne o a farceli vedere, ma ci invita a vedere come loro vedono: come loro vedono se stessi e come vedono noi. Il che spesso ci aiuta anche a riflettere sugli animali che siamo. 

La sua avventura zoologica inizia presto. È il 1946 quando scrive alcuni articoli sull’Unità. “Le capre ci guardano” è il più noto: nell’estate del 1945 la Marina americana aveva deciso di fare test atomici al largo dell’Atollo di Bikini, e lui – giovanissimo ma al solito lucido e spiazzante – si chiede che cosa abbiano pensato le capre fatte saltare in aria sulle navi bersaglio, e aggiunge: «Come avranno giudicato noi uomini in quei momenti, nella loro logica che pure esiste, tanto più elementare, tanto più – stavo per dire – umana?» (Calvino 2001, vol. II, p. 2131). È già tutto qui l’umanesimo di Calvino: un umanesimo di lotta e non antropocentrico, dove l’antropomorfismo c’è, ma a ben guardare è una tattica di avvicinamento, una cerimonia di benvenuto in una terra comune, perché le differenze, in fondo, contano meno delle analogie. Lo dice soprattutto nel “Marxismo spiegato ai gatti”. È qui che viene fuori, dolcemente lapidaria, la sua filosofia: «Propendo – scrive – per una concezione dell’uomo come non staccato dal resto della natura» (Calvino 2001, vol. II, pp. 2133-2134). Sarà pure (e qui il suo darwinismo è imperfetto) un «animale più evoluto in mezzo ad altri animali» (Calvino 2001, vol. II, p. 2134), ma questo, ne deduce, ci obbliga a vedere una volta e per tutte quello che non vogliamo vedere. Per esempio, che gli animali che vivono con noi sono degli sfruttati. Però il cane e il gatto possono liberarsi e tornare a essere amici: basta riconoscere che il mito della loro “naturale” incompatibilità non è che un grande racconto volto a impedirne l’unione e l’emancipazione. Occorre un’educazione marxista anche per loro, sostiene: ed ecco qui il suo marxismo, più evoluto di quello di Marx.

Queste sono le premesse. Dopo però sarà tutto un volo, un proliferare, un affollarsi di presenze animali che sembrano uscite da un’arca: quella che secondo James Hillman popola la nostra anima da prima che ci dimenticassimo di essere animali noi stessi, tornando a ricordarcelo nei sogni e nelle fiabe.

Queste presenze in Calvino, è ovvio, non sono tutte uguali. Ci sono quelle che lo inquietano, lo sconcertano o semplicemente gli danno fastidio: pensiamo alla Formica argentina, che è la storia (vera) dell’avanzata inarrestabile nel Ponente ligure della Linepithema humile del Paraná, superorganismo perturbante e vischioso, «un nemico come la nebbia o la sabbia, contro cui la forza non vale» (e qui, nell’invasione di una specie aliena trasportata da traffici umani, forse addirittura dal padre di Calvino, io ci vedo l’Antropocene). Poi ci sono gli animali con cui invece solidarizza. Alcuni sono tragici, come Babeuf, il falchetto del Sentiero dei nidi di ragno. Le ali spezzate per impedirgli di volare, Babeuf viene ammazzato quasi per sfida dal suo stesso padrone. Il piccolo corpo viene scaraventato su un roveto, dove rimane a penzolare a testa in giù. E un’altra storia di guerra e di violenza è “La fame a Bévera”, in Ultimo viene il corvo. Qui il mulo del vecchio Bisma – detto così per via dei baffi alla Bismark – viene falciato dai nazisti insieme al padrone e poi mangiato cotto dagli abitanti affamati. Proprio lui, che un attimo prima, col muso chino e i paraocchi, «faceva osservazioni bellissime: lumache dal guscio rotto dagli spari che perdevano una bava iridata sulle pietre, formicai sventrati con fughe bianche e nere di formiche e di uova, erbe strappate che alzavano strane radici barbute come d’alberi» (Calvino 2003, vol. I, p. 255). 

 

Ma ci sono anche gli animali allegri, e in Ultimo viene il corvo ce ne sono tanti. Per esempio, quelli di “Un pomeriggio, Adamo”. Sono rospi, bisce, cetonie, formiche e porcospini: tutti al contempo esseri viventi e parole di un gioiosissimo racconto di creazione che si compie per mano di un ragazzo, Libereso/Adamo, sotto gli occhi di una ragazza, Maria-nunziata/Eva. «I tranquilli animali si avvicinano perché io gli dica il loro nome», scrive Borges in una poesia intitolata “La felicità” (Borges 1985, vol. II, p. 1183): e non c’è altro modo per dire il sentire immanente di aurora che provano Libereso e Maria-nunziata in mezzo a questi animali sconosciuti e nominati. Ancora, ci sono le creature imprevedibili del “Bosco degli animali” dove gli abitanti di un villaggio, per evitare un rastrellamento, si danno alla macchia insieme alle loro bestie. Nell’intrico dei rami e dei cespugli, appaiono e scompaiono galline e scoiattoli, conigli e ghiri, maiali e ricci, e un terribile gatto selvatico vendicatore.  

Nel Barone rampante poi, l’allegria dell’incontro diventa una storia d’amore e d’amicizia così ampia che riapre cammini profondi. Avviene, appunto, con Ottimo Massimo, un cane ribelle che non è solo un compagno di avventure e di spericolate battute di caccia, ma un compagno di specie: perché il cane, si sa, è l’amico d’infanzia dell’umanità. E questo ragazzo arboricolo, illuminista con bassotto e moschetto, non sta sfidando solo un padre inflessibile o un Antico regime, ma anche l’evoluzione. E allora torna pleistocenico sugli alberi, si fa cacciatore-raccoglitore, dando un’altra possibilità al genere di umani che, sempre insieme al cane, siamo diventati.  

Accanto al cane strisciante di Cosimo naturalmente ci sono i gatti ostinati di Marcovaldo. Questi, più che compagni di specie, lo sono di difficili coesistenze: cittadini paralleli di una città felina, aerea e sottile, che cerca intrecci possibili di commensalità con la città degli uomini, affamata di spazio e di potere (anche in questa divisione difficile degli spazi, per me, c’è Antropocene). E che dire ancora delle Cosmicomiche, dove l’altro animale è tensione e differenza, segno e desiderio? È così, anzi, che si flette l’arco dell’evoluzione: lo vediamo nella “Spirale”, storia del mollusco antidiluviano spinto dall’amore a formare la sua conchiglia.

E poi ci sono gli animali che lo smuovono e lo commuovono. Di fronte a loro, anche se non li capisce del tutto, Calvino sente che gli animali sono individui, e non generici esemplari di una specie o ombre di racconti. Sa che la loro mente è un universo complesso e a suo modo perfetto, aperto, mai finito, a caccia di segni, di giochi e di compagni. E sa che la loro intelligenza, come la nostra, è un modo di riflettersi del mondo, «un’occasione che il mondo ha per organizzare alcune informazioni su se stesso» (Calvino, Santschi, 1967). Questi animali sono soggetti, abitanti di un cosmo fatto di emozioni e informazioni, e qui l’Antropocene si rivela nella manipolazione che si fa della vita che incarnano. Uno di loro è il coniglio velenoso di Marcovaldo: piccolo e magro, con naso a triangolo, occhietti rossi, pelo bianco, le orecchie lunghe e abbassate. Triste e sconsolato nella sua solitudine farmaceutico-sperimentale, depresso da desiderare il suicidio, il coniglio è affamato di amicizia proprio come quest’umano strano, che lo afferra al volo e vorrebbe tenerlo con sé, forse per mangiarlo, ma anche solo per giocarci. Un altro è Copito de Nieve, il gorilla albino che il signor Palomar (ma è Calvino) incontra allo zoo di Barcellona. Nessuna delle creature che racconta ha la stessa inestinguibile sete di mondo di Copito de Nieve. Sua è la noia di un’apparente eternità, il vuoto siderale, lo spaesamento e lo sradicamento, la mancanza di compagni di altre specie, il desiderio di arrampicarsi, la voglia di alberi, di giochi, di giorni e notti vissuti e non inanellati in una sequenza aritmetica di minuti e di ore. Si parla di pathos della distanza per Calvino. Quello del gorilla albino è il pathos della distanza dalla giungla. Ma poi quanti altri animali in Palomar, ognuno impegnato in un’attività che rimanda a un mondo di storie evolutive: sono le tartarughe che si amano in giardino, i merli che si chiamano fischiando, gli storni con i loro codici di geometrie esistenziali, il bue macellato e il suo corpo fraterno, oggetto insieme di pietà e di desiderio. E ancora gechi, insetti, rettili, giraffe, piccioni. 

Sono tutti così diversi da noi eppure a noi così vicini, questi animali, da farci riconsiderare a uno a uno i personaggi di Calvino, a partire da Pin, con un nome che sa di alberi e di carrugi, anche lui piccolo ragnetto in cerca di un nido per non farsi schiacciare. Qfwfq, che sembra informe ma in realtà è infinitamente multiforme, e mentre parla in falsetto ci racconta il divenire animale dell’universo. E animale è Marcovaldo, avventuroso e resiliente. Animale è Palomar, che si mette lì, nello zoo insieme agli altri e si perde brontolando nelle sue elucubrazioni tassonomiche. 

Ma avrebbe senso compilare un bestiario calviniano? Alla luce di quanto detto, la risposta è no. Un bestiario infatti presuppone un sistema di simboli, una morale, un metalinguaggio e una cosmologia. Nei bestiari gli unicorni simboleggiano la castità e i conigli fertilità e lussuria, i cani la fedeltà e i gatti l’inganno. In Calvino non è così. Anche gli animali che diciamo fantastici per lui sono presenze concrete, come a Teodora la «fauna dimenticata» nelle biblioteche, a contrastare l’estinzione con l’immaginazione. Ma in Calvino gli unicorni sono né più né meno che unicorni: animali altrettanto bizzarri di quelli che vivono fuori dai libri. Anche i conigli, lo abbiamo visto, sono conigli: piccole persone che ti guardano negli occhi, direbbe Anna Maria Ortese. 

Natalia Ginzburg riporta una delle ultime frasi di Calvino. Colpito dall’ictus, la testa fasciata, in ospedale a Siena, la figlia Giovanna gli chiese: «Chi sono io?» – «Tu sei la tartaruga», rispose (Ginzburg 2001, p. 109). No, Antropocene o meno, non è possibile immaginare Calvino senza animali. 

 

Il testo è una traccia della lezione che Serenella Iovino terrà il 24 ottobre nell’ambito della rassegna Alfabeto Calvino, organizzata in occasione del centenario della nascita di Italo Calvino da Doppiozero e dalle Biblioteche di Roma dal 28 settembre 2023 al 20 febbraio 2024. Alcune parti sono riprese dalla voce “Animali” in Calvino A-Z, a cura di M. Belpoliti. Milano: Electa, 2023, pp. 310-313.

Riferimenti bibliografici

J. L. Borges, Tutte le opere, Milano, Mondadori, a cura di D. Porzio, 2 voll., Mondadori, Milano 1985.

I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti, Milano, 1988. Qui citato da Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, 2 voll., Mondadori, Milano 2001, vol. I, pp. 627-753.

I. Calvino, Romanzi e racconti, edizione diretta da C. Milanini, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, 2 voll., Mondadori, Milano 2003.

I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, 2 voll., Mondadori, Milano 2001.

Italo Calvino, Madeleine Santschi, “Italo Calvino. Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie”, in «Gazette de Lausanne», 127, 3-4 juin 1967, p. 30, citato in I. Calvino, Note e notizie sui testi, in Romanzi e racconti, cit., vol. II, p. 1992. 

N. Ginzburg, Non possiamo saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di D. Scarpa, Torino, Einaudi 2001. 

J. Hillman, Presenze animali, trad. it. di A. Serra e D. Verzoni, Adelphi, Milano 2016.

A.M. Ortese, Le piccole persone, a cura di M. Farnetti, Adelphi, Milano 2016.

S. Iovino, Gli animali di Calvino. Storie dall’Antropocene, Treccani, Roma, 2023. 

martedì 24 ottobre ore 11 
Biblioteca Ennio Flaiano

Animali
con Serenella Iovino

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