L’odio dei poveri

8 Aprile 2024

Povertà, ricchezza e lavoro sono dimensioni intrecciate. È lo statuto del lavoro all’interno dei rapporti di produzione che definisce, al contempo, sia ciò che è povertà sia ciò che è ricchezza. Li definisce in termini di potere. Povertà, quindi, non significa, assenza di reddito. Povertà significa impossibilità, determinata da una specifica condizione di subordinazione, di realizzare tutte le potenzialità che a ogni soggetto sono connaturate. È muovendo da questo punto di partenza, legato a una certa lettura del lascito marxiano, che Roberto Ciccarelli traccia, in L’odio dei poveri (Ponte alle Grazie, 316 pagine, 18 euro), un quadro delle politiche attraverso le quali il capitalismo neoliberale affronta la questione della povertà. 

FUORI DALLA LOGICA DELLA PRODUZIONE. 

D’altra parte, non è solo nell’analisi marxiana che la povertà è legata al lavoro. «Per ragioni opposte – scrive Ciccarelli – liberali e socialisti hanno condiviso l’idea per cui la povertà è una condizione legata alla produzione. I socialisti contrastavano la disumanizzazione di quelli che Marx chiamava i “poveri che lavorano” e lottarono per evitare l’impoverimento del lavoratore salariato e produttivo; i liberali volevano elevare il povero a un ideale della cittadinanza e rendere produttivo il suo lavoro. Il conflitto tra queste due posizioni è giunto a una mediazione nello Stato sociale, dove l’integrazione dei poveri nella società avviene attraverso il lavoro e dipende dal mercato. Questa idea è stata integrata con il disciplinamento sociale che sanziona i comportamenti irregolari e premia quelli virtuosi».

Per andare oltre questa impostazione Ciccarelli richiama il Marx dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica: «La forza lavoro per un lato è la miseria assoluta come oggetto; per l’altro è la possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività». Centrale diventa la nozione di forza lavoro. Nei rapporti sociali di produzione che la vedono agire dialetticamente con il capitale, la forza lavoro ha una dimensione duplice: oggettiva e soggettiva, miseria assoluta come oggetto e insieme possibilità generale della ricchezza come soggetto e come attività. «Il problema della forza lavoro – specifica Ciccarelli – è come attualizzare la sua potenza diversamente». È un richiamo esplicito alla centralità della soggettività operaia affermata, nella storia del marxismo italiano, dalle correnti operaiste e post operaiste. Richiamo netto: «Nel rapporto antitetico della produzione capitalistica va fatta una scelta che orienta il punto di vista attraverso il quale osserviamo il problema della povertà. Viene prima la forza lavoro del capitale. Questa priorità permette di definire politicamente la povertà perché individua un conflitto tra chi può e chi non può in un unico campo: quello della potenza nello stesso mondo e nella stessa storia. In quanto facoltà la forza lavoro non è intesa solo come proprietà dell’individuo che lavora, ma come una soggettività, risultato di una prassi non limitabile a un rapporto di lavoro specifico perché coinvolge tutte le espressioni della cooperazione tra umani e viventi».

La povertà non è soltanto una condizione di «miseria assoluta come oggetto» alla quale la forza lavoro è costretta dentro i rapporti di produzione capitalistici, è anche, sempre, potenza: «La forza lavoro – scrive Ciccarelli – è la facoltà che riapre la differenza nella continua duplicazione dell’antitesi con il capitale. […] Tale differenza non è riconducibile a un fondamento, o a uno scopo, né può essere rinchiusa in una gabbia d’acciaio. È l’infinito che si esprime nella storia ed è lo scarto che porta il divenire a rompere le identità cristallizzate». Nel divenire storico si realizza «una dialettica tra la miseria assoluta e la ricchezza del possibile in cui il lato negativo della povertà coesiste in maniera contraddittoria con quello affermativo di una prassi che trasforma». Non c’è alcuna determinante storica, alcun rapporto di subordinazione, che possa annullare del tutto la potenza della vita, «infinito che si esprime nella storia». La via dell’insubordinazione resta sempre aperta.

AMARE IL MONDO

«La trasformazione di una povertà in una ricchezza – annota Ciccarelli – non è il risultato della creazione di una totalità fusionale in una famiglia, nella classe, nello Stato o nella Nazione, ma della scissione da una incapacità , individuale e collettiva, di fare qualcosa di nuovo e di ricco. Ci odiamo perché non riusciamo a essere creativi per qualcuno o per qualcosa e restiamo all’interno delle identità costituite. La sedimentazione dell’odio dipende dalla povertà delle alternative di inaugurare una nuova vita». Una visione all’interno della quale la contraddizione centrale si sposta dal terreno strettamente produttivo per abbracciare tutti gli ambiti in cui l’esistenza di rapporti che creano dislivelli di potere impedisce di «inaugurare una vita nuova». Il fuoco dell’analisi e dell’azione politica si sposta alla vita intera, in una visione che toglie centralità non solo alla fabbrica, ma anche all’umano. Il reale intero è coinvolto in un unico destino, unificato nella possibilità di resistenza che «riapre la differenza» rispetto alla logica del dominio che segna i rapporti di produzione in atto: «Rovesciare la rappresentazione della povertà, fuggendo dall’odio praticato e da quello subito, avere coscienza della condizione del quinto stato, amare il mondo, significa prospettare un’altra idea di classe, oggetto di molteplici oppressioni e soggetto di possibile resistenza, un “divenire corivoluzionario” tra soggetti differenti. L’itinerario non è lineare né scontato. La leva del cambiamento resta, ieri come oggi, l’esercizio della facoltà della forza lavoro dei suoi usi possibili». 

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DIRITTO ALL’INSURREZIONE

Passo decisivo per liberare non solo la forza lavoro ma la vita tutta intera dal rapporto con il capitale è scollegare il reddito individuale dal lavoro. «Nell’ordine sociale – argomenta Ciccarelli – la possibilità di riconoscere alla forza lavoro un reddito sganciato dalla produzione del lavoro-merce, e connesso alla potenza di creare tutti i valori del mondo, è l’equivalente del diritto all’insurrezione nell’ordine politico. Nel XIX secolo tale diritto è stato esercitato da chi ha rivendicato il diritto al lavoro. Nel XX secolo si è manifestato nella richiesta del salario come variabile indipendente dalla produzione. Nel XXI secolo l’idea dell’insurrezione potrebbe essere esercitata attraverso un diritto al reddito di base incondizionato, perché ciascuno ha il diritto a esistere e la sua forza lavoro è produttiva in ogni dimensione della vita al di là dei rapporti di lavoro in cui è inserita». 

Dagli Usa all’Europa, oggi l’aspirazione a un diritto incondizionato all’esistenza si manifesta in maniera latente e contraddittoria nella rivendicazione di redditi minimi e di sussidi contro la povertà a carico della fiscalità generale. Ovvero, niente di ciò che sarebbe necessario per sovvertire gli equilibri di potere che, producendo povertà, negano la vita. Eppure anche questo niente, nota Ciccarelli, è sufficiente a innescare un’opposizione fortissima: «Basta un solo centesimo dai bilanci pubblici per attualizzare un timore che fa tremare la città degli uomini: liberare il desiderio di sganciare il reddito dal lavoro, da quello che c’è e soprattutto da quello che non c’è». Il vero obiettivo delle politiche del lavoro neoliberali non consiste nel ridurre al minimo redditi di sostegno e sussidi. La strategia di contrasto al desiderio latente di liberare gli individui dai vincoli dei rapporti di produzione è molto più raffinata e passa attraverso la pretesa di condizionare sostegni e sussidi a che cosa? … al lavoro, vale a dire esattamente a ciò da cui gli individui dovrebbero invece slacciarsi per essere liberi. A te che non hai lavoro o lo hai perso – è il discorso neoliberale – io do un sussidio o un reddito di cittadinanza o un assegno di inclusione, ma tu in cambio accetti di integrarti nel mercato del lavoro esattamente così com’è; e me lo dimostri, che accetti di stare dentro l’ordine delle cose, con la tua buona condotta, cioè facendo tutto quello che io ti dico di fare perché tu possa trovare un lavoro in un contesto di rapporti di potere che non va toccato, altrimenti io ti penalizzo, prima riducendoti il sostegno e poi togliendotelo del tutto. Un ricatto che scambia libertà (possibilità di andare oltre l’esistente) per sicurezza. Un ricatto che Ciccarelli definisce «scandalo». Uno scandalo che è la «radice politica dell’odio dei poveri».

WORKFARE

Lo scandalo, argomenta Ciccarelli, si articola operativamente nella complessa struttura del Workfare, uno Stato sociale conservatore orientato al lavoro. «Il Workfare è una cultura, una politica e un’istituzione. Va interpretato come una specifica politica sociale che richiede ai beneficiari di lavorare e iscriversi obbligatoriamente a un programma di formazione professionale; come la forma attuale dello Stato e dei suoi rapporti con il capitale; come la leva politica con la quale influire e trasformare la morale dell’individuo sulla base di un’idea tossica di emancipazione fondata sulla priorità del lavoro e su un malinteso benessere della società». Una struttura complessa, il Workfare, in continuità con la storia del Welfare. Se infatti quest’ultimo «ha garantito il compromesso tra i princìpi sociali e la discrezionalità degli interessi capitalistici, il Workfare li ha spostati verso la promozione del mercato nella società». Essenziale, in entrambi, rimane la centralità del lavoro. La messa al lavoro diventa il principale strumento per disciplinare ogni forma di contraddizione rispetto all’ordine dato dei rapporti di produzione. «Le politiche di Workfare – scrive Ciccarelli – non servono a eliminare la povertà , ma a governare la vita dei poveri attraverso la loro cooperazione forzata, ottenuta tramite un regime del ricatto nella divisione sociale e razziale del lavoro e della disoccupazione». In questo meccanismo le politiche sociali neoliberali non differiscono, sia che si tratti, per rimanere all’Italia, del reddito di cittadinanza promosso dal secondo governo Conte sia che si tratti dell’assegno di inclusione varato dall’esecutivo presieduto da Giorgia Meloni. La funzione disciplinatrice resta la stessa, intatta nel suo orientamento non solo a mantenere equilibri di potere non negoziabili, ma anche e soprattutto a far introiettare a livello generalizzato la legittimità di quegli equilibri.

PROBLEMA POLITICO

ll Workfare è, allora, un problema politico. Si tratta di andare oltre per creare un altro sistema di rapporti sociali. «La critica del Workfare – arriva a concludere Ciccarelli – è parte di una politica generale il cui scopo è garantire a ciascuno il diritto di esistenza indipendentemente dal lavoro. Tale diritto andrebbe collegato a uno statuto dei diritti sociali che intesti a ciascuno sin dalla nascita beni, servizi e diritti fondamentali, come una casa, un patrimonio, l’accesso al lavoro retribuito e ai servizi pubblici indipendentemente dall’impiego. Il diritto di esistenza non può prescindere inoltre da una drastica diminuzione del lavoro necessario e del suo orario; da un ripensamento dell’istruzione e della ricerca unendo lo sviluppo della capacità intellettuali e manuali; dalla promozione dell’autonomia delle facoltà individuali e collettive; da una riforma universalistica dello Stato finanziata dalla tassazione, nazionale e sovranazionale, dei patrimoni e dei profitti realizzati dalle industrie inquinanti e dalle multinazionali tecnologiche». La logica autoritaria e repressiva del Workfare andrebbe rovesciata «con gli strumenti dell’educazione alla potenza comune degli oppressi, quella che incoraggia l’affermazione di virtù civili ispirate all’indipendenza e alla cooperazione», secondo una linea di riscoperta del pensiero della liberazione tesa a rovesciare il Workfare nella direzione di un «Commonfare delle libertà uguali e delle proprietà comuni». Una critica radicale della cittadinanza orientata a rompere il ciclo neoliberale e a invertire il suo senso politico.

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