Bruno Latour. Politiche della natura

16 Aprile 2017

RAI Educational – Enciclopedia Multi-Mediale delle Scienze Filosofiche

(Parigi, Ecole des Mines, 31 gennaio 2001)

 

Sergio Benvenuto: Ci può parlare del suo progetto di ricerca? 

 

Bruno Latour: Il progetto, a cui sono da sempre interessato, non è semplicemente un progetto di filosofia della scienza: le scienze sono un elemento importante, ma quello che mi interessa maggiormente è di reperire i modi di produzione della verità, i modi di produzione della veridizione, il modo di dire il vero, sia nella teologia, sulla quale ho passato molto tempo prima di occuparmi di filosofia, sia nel diritto, dove ho dedicato quattro anni a un lavoro sui giuristi, sia nel campo della tecnica (ho atteso per parecchi anni in una scuola di ingegneria alle tecniche di fabbricazione). Dunque le scienze si inseriscono in questo progetto come un elemento, non come il fine essenziale del mio lavoro. La filosofia della scienza è per me un mezzo per abbordare i problemi della veridizione. I problemi della veridizione sono più estesi della scienza e la includono: fortunatamente i modi di produzione della verità non si possono ridurre alla produzione scientifica. 

Il progetto nel suo insieme è, se si vuole, quello di un’antropologia filosofica. Io sono al tempo stesso filosofo e antropologo. Questo mi permette di definire l’antropologia che mi interessa come un’antropologia del mondo contemporaneo e moderno, in cui le forme di produzione della verità hanno un ruolo essenziale, centrale. Prima c’era un’antropologia filosofica per gli altri, un’antropologia delle culture, non c’era un’antropologia della natura, nel senso in cui è intesa oggi da antropologi come Philippe Descola. Quello che ho tentato di fare è un’antropologia filosofica dei moderni. Dunque l’idea essenziale è di arrivare a una definizione del moderno che non presupponga il progresso. È una questione che discuteremo a proposito del post-moderno. Che cos’è la modernità, se si rinuncia a comprendere il mondo contemporaneo in termini di progresso? In altre parole, siamo in una situazione in cui il moderno rappresenta l’avvenire del pianeta, attraverso l’estendersi dei modi di verità scientifici, tecnici, economici? O al contrario ci troviamo in un periodo di antropologizzazione della scienza, della tecnica e dell’economia, e in questo caso avremo un’antropologia diversa, un diverso modo di definire gli altri e di definire noi occidentali? È nell’insieme di questo progetto che si può inserire la filosofia della scienza. 

 

Sergio Benvenuto: Un’obiezione al suo progetto, che ricorre spesso, è di essere relativista. Lei accetta questa etichetta di relativismo? 

 

Bruno Latour: A quelli che mi classificano come relativista rispondo: sì, grazie a dio! La mia posizione è relativista, come lo sono tutte le scienze, tutte le morali, tutte le politiche democratiche. Relativismo è la capacità di stabilire relazioni che sono in genere impreviste, cambiando punto di vista, capacità resa possibile dagli strumenti scientifici, dalle procedure democratiche e dal ragionamento morale, cose che ci consentono di metterci al posto degli altri. Dunque, la qualifica di relativista non deve essere sentita come un’accusa, ma rivendicata come perfettamente legittima. Come diceva David Bloor molto tempo fa, il contrario del relativismo è l’assolutismo. Nessuno – credo – nelle nostre società democratiche rivendica la possibilità di essere assolutista. Dunque la questione del relativismo è una questione sempre mal posta, nel senso che quando si parla di relativismo, si intende in realtà l’assolutismo del punto di vista, cioè si ha di mira l’indifferenziazione che toglierebbe alle persone accusate di relativismo la possibilità di collegare un punto di vista con un altro. Non ne ho ancora visti di veri relativisti, non so che aspetto abbiano: si dice esistano da qualche parte e costituiscano una minaccia per la democrazia e per la scienza. Secondo me sono un fantasma, ma se esistessero, affermerebbero proprio l’indifferenziazione. Dunque a mio avviso, attribuire la qualifica di relativisti a costoro è un errore, perché il loro presupposto è al contrario l’assolutismo del punto di vista, quel punto di vista collaterale che non permette di stabilire una relazione con gli altri.

 

Sergio Benvenuto: Generalmente si oppone il relativismo non tanto all’assolutismo, quanto all’universalismo. Si può dire allora che il suo punto di vista è universalista? 

 

Bruno Latour: Respingo l’idea che il relativismo si opponga all’assolutismo. L’universalismo è sinonimo di relativismo, è la capacità di stabilire delle relazioni, relazioni che permettono di spostarsi da un punto all’altro per quadrettare, misurare e saldare l’insieme delle relazioni. Dunque la vera opposizione non è tra relativismo e universalismo, ma tra un relativismo disposto a pagare il prezzo per l’istituzione dell’universale – cioè capace di dislocarsi effettivamente, stabilendo relazioni tra un punto e l’altro – e un universalismo che non ha mai pagato il prezzo della sua espansione, un universalismo, in fondo, ideologico, che in genere è la semplice estensione del punto di vista occidentale all’insieme del pianeta. Se si prende l’esempio della meteorologia, si resta colpiti dalla differenza. La meteorologia istituisce infatti parecchi universali: le costanti di tempo, le costanti di peso ecc. Dunque sono in gioco parecchi universali all’interno della rete di relazioni e dei collegamenti che la meteorologia rende possibili. La meteorologia è un' organizzazione, un' istituzione estremamente potente, che si può studiare perfettamente con i metodi empirici della storia e della sociologia della scienza. 

Quindi l’opposizione che si istituisce tra universalismo e relativismo è un’opposizione puramente ideologica, che permette di paralizzare l’avversario solo per un attimo. Bisogna trovare un avversario veramente sprovveduto perché resti in imbarazzo di fronte a questa domanda. In realtà, come i lavori di storia della scienza miei e di molti altri hanno mostrato, il relativismo o il relazionismo – come piuttosto si dovrebbe dire per essere precisi –, di cui sono sostenitore, è proprio quello che permette di stabilire relazioni tra punti di vista fin qui incommensurabili. Dunque la differenza (tanto etica, quanto filosofica) è importante: sono gli universalisti che pagano il prezzo della commensurabilità, dello strumento di misurazione e della sua messa a punto, che permette di stabilire le relazioni, e non coloro i quali pensano che il lavoro sia già stato fatto. In questo caso il problema non si pone per niente, perché il lavoro è già stato fatto, l’universale è lì, e non è necessario porsi il problema di istituire relazioni tra punti di vista incommensurabili. 

 

Sergio Benvenuto: Pagare il prezzo, lei dice. Ma che cosa vuol dire pagare il prezzo, e in che senso c’è un universalismo che paga il prezzo e un altro che non lo paga? Qual è il senso di questa metafora? 

 

Bruno Latour: Pagare il prezzo è un’espressione letterale. Può voler dire: prendere in considerazione la rete [le réseau] che ci autorizza a collegare un orologio con la meteorologia del tempo attraverso il pianeta, per mezzo degli orologi atomici satellitari della Commissione internazionale del tempo. Questo complesso di rapporti [réseau] costruisce effettivamente un universale che si può conoscere e misurare. Molti lo hanno studiato. Se non si vuole pagare il prezzo che comporta mettere in gioco le costanti della fisica, costanti altrettanto importanti di quelle temporali, ci si inibisce la possibilità di istituire un confronto e la commensurabilità dei diversi strumenti. Qui abbiamo dunque un esempio perfettamente chiaro. Se si dice, “sì, ma ci sono delle costanti di tempo, indipendenti da ogni prezzo, che sono già date”, si dimentica l’altra forma del relativismo e di universale, quella che accetta, per stabilire la commensurabilità, di pagarne il prezzo: fabbricare gli strumenti, renderli commensurabili, creare le istituzioni che assicurano l’invariabilità delle unità di misura, creare dei corpi di ispettori, organizzare dei congressi, ecc. Coloro che mi accusano di relativismo sono sempre gli stessi che danno per scontati i risultati delle scienze. Allora evidentemente a debito c’è sempre questo paradosso che non permette di fare nessun passo avanti nelle questioni di sociologia e di filosofia della scienza: i miei avversari hanno due sistemi di contabilità. Una contabilità in cui di tanto in tanto mettono a debito l’insieme dei mezzi pratici per produrre la scienza: laboratori, strumenti, ricercatori, riviste, tutto il complesso delle cose necessarie alla produzione viene iscritto a debito, mentre a credito iscrivono i risultati delle scienze (l’universalità è uno di questi). Quando invece fanno domanda di sovvenzioni, presentano i loro programmi di ricerca, chiedono finanziamenti per i grandi acceleratori, tentano di interessare il pubblico con una campagna per la ricerca astronomica, ecc., a quel punto si ritrovano iscritti nella colonna del credito gli strumenti, i ricercatori, le riviste, e tutto l’insieme dei mezzi materiali per la produzione della conoscenza. Allora il malinteso nasce dal fatto che quando gente come me – storici o sociologi della scienza – sostiene che bisogna prendere in considerazione l’insieme dei mezzi necessari alla produzione scientifica, ci viene risposto che così attacchiamo, indeboliamo o limitiamo la capacità di sviluppo delle scienze. In altri termini vuol dire che nella prima contabilità quelli che ci ascoltano pensano che parlare di mezzi materiali di produzione della scienza sminuisca l’attività scientifica, nella seconda al contrario – ogni scienziato lo sa perfettamente – ci vogliono laboratori e strumenti, ci vogliono ricercatori e istituzioni, per fare della buona scienza. 

Dunque il malinteso è completo perché i nostri avversari non si preoccupano troppo di studiare il lavoro scientifico – bisogna riconoscerlo. Anche se sono scienziati, fanno una sorta di propaganda ideologica, usando per lo più, riguardo alle loro attività, un sistema di contabilità che si può riassumere così: più si reclamizzano e si esibiscono i mezzi materiali della produzione scientifica, più la scienza è esatta. E d’altro lato usano un sistema completamente diverso, che si fonda su ragioni di cui parleremo forse tra poco, in cui si dice: ci sono da una parte i mezzi della scienza, i ricercatori, gli strumenti ecc. e dall’altra i risultati e questi due ordini di cose non si devono contaminare. Io penso che si tratta in fondo di un’impostura, o di un’incapacità di comprendere e di accogliere nel mondo contemporaneo l’attività scientifica. Penso che per ragioni politiche non si è trovato ancora il modo di accogliere nella filosofia, o almeno non nella filosofia politica, il lavoro scientifico, si sono accolti i risultati delle scienze, non il lavoro scientifico, si è accolta la scienza, ma non la ricerca. In genere io vedo un’opposizione tra scienza e ricerca, che in Francia è assai netta. C’è una filosofia della scienza, ma non c’è una filosofia della ricerca, O almeno non c’era, prima che cominciassimo i nostri lavori. 

 

Sergio Benvenuto: Penso tuttavia che il rimprovero essenziale che si muove al relativismo, anche di altro tipo, è che il risultato finale della scienza è l’obiettività, la descrizione di un reale che vale per tutti, cioè di un reale unico a cui la scienza si avvicina, ma che resta sullo sfondo, assolutamente prospettico. Lei è d’accordo con questa critica? 

 

Bruno Latour: No, perché penso che nessuno è più realista di me nella definizione dell’obiettività. Io penso che i miei avversari o comunque le altre filosofie della scienza sono meno realiste, in tutti i sensi di questo termine, di quella che ho sviluppato io nel corso degli anni. La capacità di estendere a tutti i campi le condizioni dell’oggettività, purché si sia disposti a pagarne il prezzo, – bisogna sempre includere il prezzo, i costi della ricerca, i costi per la conservazione delle istituzioni e degli strumenti – è presa in considerazione, rispettata, analizzata, studiata molto meglio da noi che pratichiamo i science studies, che da quelli che passano subito ai risultati. L’idea di un mondo comune – torneremo su questo tema del mondo comune che è molto importante – la capacità di costruire un mondo comune, è in migliori mani quando è nelle mani di realisti come me, che in quelle di coloro che per ragioni politiche che non hanno niente a che vedere con la comprensione della scienza, fanno la distinzione tra mondo della scienza da una parte e mondo politico dall’altra. È una questione molto importante. Penso che nel complesso sia un problema di definizioni, ma ci sono gli epistemologi, quelli che studiano le pratiche scientifiche, come Duhem e Foucault per esempio, che sono interessati allo studio delle dinamiche interne alla scienza, poi ci sono quelli che io chiamo polizia epistemologica, che in fondo usano una definizione politica delle scienze per risolvere i problemi che sorgono nella discussione politica, in particolare per chiudere la discussione politica. Ci ritorneremo. Poi ci sono quelli che fanno epistemologia politica. È questo che io considero il mio lavoro: studiare la costituzione o l’organizzazione comune che ripartisce il potere tra poteri della politica e poteri della scienza. Questa epistemologia politica – ne parlo nello stesso senso in cui si parla di filosofia politica – molto importante e, direi, poco rappresentata, l’epistemologia politica come studio del modo in cui sono ripartiti i compiti tra politici e scienziati, interessa in definitiva un ristretto numero di persone. 

Se si considera la questione del relativismo, il falso dibattito in cui i relativisti fanno la figura di anti-realisti, di gente moralmente pericolosa, perché non si potrebbe più stabilire la differenza tra il bene e il male, si vede che è un affare di polizia epistemologica, che non si fonda sullo studio preciso di nessuna scienza e nemmeno sulla lettura dei lavori di ricercatori come me. Si tratta soltanto di fare paura, sono operazioni di polizia che hanno la funzione di mantenere tutta una serie di barriere. Se si consultano invece lavori di specialisti dell’epistemologia politica, vi si trovano descrizioni molto precise della ripartizione dei poteri tra scienziati e politici. Io penso che la filosofia della scienza, la filosofia della ricerca, guadagnerebbe molto, se si arrivasse a introdurre la distinzione tra polizia epistemologica ed epistemologia politica. 

 

Sergio Benvenuto: Per esempio Popper, il filosofo più influente oggi in Italia, fa parte della polizia epistemologica?

 

Bruno Latour: Ne è un perfetto esempio. Popper ha costruito tutta la sua filosofia della scienza su ragioni politiche. Nei suoi libri questo è assolutamente chiaro: ci sono solo pochi sparsi elementi che potrebbero resistere a un’analisi storica o sociologica del lavoro scientifico. Dunque sarebbe epistemologia nel senso di Duhem o del Poincaré epistemologo o di Foucault. Popper ha lavorato essenzialmente al problema di costruire una definizione delle scienze che permettesse di fare un certo lavoro politico, di impedire con eccellenti ragioni naturalmente, eccellenti ragioni che rispetto assolutamente, la manomissione delle scienze da parte del marxismo e del nazismo. La filosofia della scienza è ancora ossessionata dagli anni Trenta. Se si guarda a Bachelard, a Popper, a Lakatos, a tutti i grandi personaggi della filosofia della scienza, si vede che è ancora segnata da una battaglia che ha avuto le dimensioni di una tragedia. Se fossi vissuto a quell’epoca probabilmente avrei reagito come loro – o almeno credo. Allora trovare una filosofia della scienza capace di impedire la confisca della scienza da parte del nazismo e del marxismo era molto importante e perfettamente comprensibile a quel tempo, ma non più nel nostro. Ottanta o settanta anni dopo, abbiamo a che fare con problemi del tutto diversi, con una scienza il cui potere si è ampiamente diffuso all’interno della vita corrente, in tutti gli aspetti della quotidianità, sia mediante la tecnologia, sia mediante il dibattito sulla crisi ecologica. Dunque, se è certamente importante ricordare i conflitti e gli scontri in cui si sono impegnate figure come Popper e Lakatos, tuttavia per me non hanno un interesse attuale, ma puramente storico. Tutto ciò non ci permette di capire i problemi della mucca pazza, dei pianeti extraterrestri, della clonazione degli embrioni, ecc. Noi viviamo oggi in un periodo completamente diverso, dunque perché ci portiamo dietro una filosofia della scienza che ha settant’anni? È un problema grave. Come possiamo sperare di costruire la nostra politica, la nostra epistemologia politica, in base a una situazione di settant’anni fa? In Francia circola una battuta sui militari francesi che sono sempre in ritardo di una guerra: i filosofi della scienza sono in ritardo di due. 

 

Sergio Benvenuto: Ha una risposta alla domanda: perché questo ritardo?

 

Bruno Latour: No, confesso che non so dire perché. Forse perché la situazione è stagnante. Comunque non comprendo perché, adesso che abbiamo accumulato centinaia di libri, o almeno un centinaio di libri interessanti sulla pratica scientifica, continuiamo a vivere con un equipaggiamento mentale e intellettuale così povero. Non comprendo perché, mentre uno scienziato nel suo laboratorio non accetterebbe di lavorare con uno strumento che data da più di cinque o sei anni, perché lo considera superato, noi per parlare di scienza continuiamo a servirci di un armamentario mentale che è quello di Popper settant’anni fa o addirittura quello di Voltaire duecento anni fa, come se si potesse parlare di scienza nell’epoca contemporanea con termini così datati. C’è una specie di debolezza, di cui il caso Sokal è un esempio sorprendente, un ritardo – diciamo – veramente incredibile nel modo in cui gli scienziati pensano la politica delle scienze, un rapporto con la politica talmente arcaico che in un certo senso è diventato difficile anche soltanto aprire la discussione. 

 

Sergio Benvenuto: Qual è la sua opinione sul caso Sokal?

 

Bruno Latour: Ho imparato molto dal caso Sokal, perché ho capito fino a che punto era decaduta la grande tradizione del razionalismo, il declino che aveva subito la grande tradizione, legata ai valori della ragione, in cui mi sono formato anch’io, come lettore di Bachelard e di tutto il grande pensiero filosofico francese. Vedere l’esaurirsi di una grande tradizione filosofica e morale è stata per me un’esperienza estremamente importante, anche se mi ha un po’ addolorato. Credo che tutti abbiamo tratto profitto dal caso Sokal per chiarire un complesso di questioni, in particolare sul relativismo, sul realismo ecc. Direi che i nostri avversari, se così vogliamo chiamarli, non ne hanno approfittato altrettanto. Sono rispetto a noi in una posizione asimmetrica, perché continuano a pensare che la scienza, l’attività scientifica, possa essere espressa in termini di universalità, di obiettività, senza lavorare affatto, senza pagare il prezzo di una descrizione, che ricominci sempre da capo, delle controversie scientifiche, senza pagare il prezzo di rifare la storia delle scienze, senza pagare il prezzo di una nuova comprensione, da parte del pubblico, del lavoro scientifico ecc. Dunque ho imparato molto dal caso Sokal, su cui ho scritto un intero libro, L’espoir de Pandore. Penso che sia stato un caso interessante e che in fondo Sokal abbia avuto ragione di scatenare questo dibattito. Mi rammarico che lui non ne abbia tratto profitto. 

 

 

Sergio Benvenuto: Il suo lavoro viene messo in rapporto con il “programma forte”, sviluppato da ricercatori come Barnes, Bloor, Hübner. Lei si riconosce in questo programma, o la sua ricerca ha comunque delle particolarità che la distinguono nettamente dal programma forte?

 

Bruno Latour: Mi ci riconosco perché ho imparato molto dal “programma forte”, in particolare da Bloor, da Barnes e da tutta quella tendenza a gettare sul lavoro scientifico uno sguardo ispirato appunto alla tradizione scientifica, e dunque a ritornare al metodo empirico, al metodo descrittivo applicato al lavoro scientifico. Questo è, io penso, il contributo indispensabile e veramente appassionante del “programma forte”. Detto questo, la mia posizione è stata fin dall’inizio divergente dal “programma forte” sulla definizione del sociale, perché con la definizione del sociale adottata da Bloor e Burns non si può fare niente. Dunque il “programma forte” è, come ho detto altre volte, un buon inizio, un eccellente punto di partenza, che poi subisce subito una battuta d’arresto, poiché usa, per spiegare lo sviluppo delle scienze, una definizione del sociale che è la stessa che ne dà la polizia epistemologica, mediante la ripartizione dei compiti tra politica e scienza. 

 

Sergio Benvenuto: Qual è questa definizione?

 

Bruno Latour: Una situazione tipica del “programma forte” è questa. Si dice per esempio: voi credete che un risultato concernente l’azione di una certa proteina sia dovuto all’influenza del mondo esterno, che permette di zoomare con approssimazione crescente su quella proteina. Niente affatto. È dovuto all’influenza più o meno deleteria di un gruppo di colleghi, di abitudini professionali, di paradigmi, per riprendere l’espressione kuhniana. Dunque si costruisce una linea – e tutto il “programma forte” è paralizzato da questa linea –, secondo cui più fattori sociali, politici o fattori comunque dipendenti dal sociale avete, più vi allontanate dall’empirico, e più vi spostate sul piano dell’empirico, meno fattori sociali avete. In altre parole siete messi di fronte a una scelta che si presume drammatica: è veramente la proteina che determina lo sviluppo di questa branca della scienza o il lavoro e l’influenza dei colleghi? E un attimo dopo vi viene chiesto: Lei crede alla realtà del mondo esterno? Se rispondete di sì, ma non del tutto, perché non è così semplice, allora siete accusato di essere un costruttivista sociale, che nega l’obiettività della scienza. E così il caso si sviluppa. È questo che mi sembra completamente aberrante fin dagli esordi del “programma forte”. Ho avuto con David Bloor una discussione molto interessante e rivelatrice da questo punto di vista sul “Political Journal”. Per lui evidentemente c’è una scelta da fare, per decidere tra l’influenza dell’esperimento e l’influenza sociale. Questa è precisamente una posizione di tipo kantiano: la struttura dell’argomento non è cambiata per niente rispetto a Kant; soltanto le categorie dello spirito umano, le categorie dell’io trascendentale, sono state sostituite dal sociale. Ci troviamo dunque in una situazione assolutamente tipica: l’influenza del sociale è in contraddizione con la determinazione empirica e bisogna scegliere. Il programma di ricerca, che ho messo a punto con i miei colleghi, è invece di andare lontano quanto si vuole – empiricamente, teoricamente e filosoficamente – per mostrare che questo modo di porre il problema è inesatto, aberrante dal punto di vista filosofico, inesatto dal punto di vista storico e non permette di fare nessun passo avanti dal punto di vista politico. Voler dare una spiegazione sociale dell’attività scientifica non ha senso. Ho scritto almeno sette o otto opere per mostrare che l’analisi sociale delle scienze non ha senso. Ciò non impedisce ai lettori che non leggono – per ragioni che sarebbe interessante studiare – di tornare a farmi sempre la stessa accusa: Lei è un costruttivista sociale. No, io non sono un costruttivista sociale, con il sociale non si costruisce niente. Costruttivista sì, costruttivista sociale non vuol dire nulla. Non c’è niente da fare, si ripresenta sempre la stessa situazione, per ragioni che ho studiato negli altri due libri sui Moderni. L’obiezione non regge, la discussione non riguarda i problemi empirici, ma dipende dai problemi politici. Questo mi ha indotto a riaprire il problema in Politica della natura con una antropologia del mondo moderno. Poiché nessuno arriva a situare la differenza tra società ed empiria altrimenti che su questa linea, su cui bisogna to go to war, come dicono gli inglesi, bisogna fare una scelta di campo, e ho sviluppato questo argomento di antropologia del moderno. 

 

Sergio Benvenuto: Qual è la sua opinione sulle tesi di Kuhn e specialmente sulla sua tesi dell’incommensurabilità dei paradigmi scientifici?

 

Bruno Latour: Rispetto profondamente Kuhn come storico della scienza, ma penso che come filosofo della scienza è una vera catastrofe. Rappresenta una forma di kantismo leggermente migliorato. Quello che non è cambiato tra Kant e Kuhn è l’ontologia: in entrambi troviamo l’opposizione completa, assolutamente classica, stabilita da Kant, tra le categorie dello spirito umano e il mondo. Dunque penso che Kuhn è molto interessante e importante come storico per la documentazione delle rivoluzioni scientifiche. L’argomento della incommensurabilità non vale niente per un relazionista il quale sa che, comunque sia, l’incommensurabilità è sempre vinta dal costituirsi di relazioni. Mi riferisco alla Sua prima domanda sul relativismo. E d’altra parte penso che gli argomenti a sostegno della nozione di paradigma non reggono a una analisi più minuta. Dunque siamo in questa situazione che Kuhn è per me un grande maestro e al tempo stesso il papa di una chiesa alla quale non appartengo. 

 

Sergio Benvenuto: In che senso lei dice che Kuhn è kantiano?

 

Bruno Latour: È kantiano perché il paradigma sostituisce le categorie dello spirito umano. Semplicemente ci sono parecchie forme dello spirito umano, categorie culturali che filtrano l’accesso alla realtà. Ma c’è anche una footnote, una nota a piè di pagina, in cui Kuhn indica l’altra possibilità, quella autentica: cambiare veramente filosofia, tradizione filosofica, uscire da Kant, per passare alla metafisica, all’ontologia, dicendo: ogni volta che si cambia paradigma si cambia mondo. Evidentemente non vuol dire che si cambia veramente mondo nel senso ontologico, vuol dire semplicemente che si cambia visione del mondo, dunque si resta all’interno di Kant, nel limite assai stretto di una scelta tra l’empirismo da un lato e l’analisi delle categorie che filtrano la nostra rappresentazione del mondo, del mondo empirico. 

 

Sergio Benvenuto: Che cosa pensa del relativismo di Feyerabend, del suo anarchismo metodologico?

 

Bruno Latour: Mi dispiace dover dire male di un collega, ma penso che Feyerabend, contrariamente a Kuhn di cui parlavamo poco fa, non ha in un certo senso reso un buon servizio alla causa della scienza. Kuhn ha reso evidentemente enormi servizi, perché ha avviato tutta una serie di analisi dell’attività scientifica. Cambiando soltanto la filosofia o l’ontologia di Kuhn si possono conservare tutti i suoi argomenti. Una volta che si è rimossa l’incommensurabilità del paradigma, il virus kantiano, si può fare con Kuhn una vera storia delle scienze. Feyerabend è rimasto sempre in una posizione critica, che del resto rivendicava assolutamente sotto il nome di anarchismo metodologico. È una specie di protestante, che vuole mostrare sempre le debolezze dell’empirismo. Ma battersi indefinitamente contro l’empirismo, mostrando che le cose sono più complesse, è utile fino a un certo punto: allo stato attuale del dibattito sulla scienza direi che ha solo un valore decorativo. Detto questo, mi continua a piacere molto la sua frase sulla necessità di separare la scienza dallo stato. Bisogna riconoscere a Feyerabend che questa frase enuncia un grande progetto politico. Ma penso che non si possa ricavare da Feyerabend un metodo né di storia delle scienze, né di politica scientifica, cosa che si può fare invece con Kuhn. 

 

Sergio Benvenuto: Come si situa lei in rapporto alle tesi di Ian Hacking? In particolare qual è il suo approccio all’opposizione tra obiettivismo e costruzionismo, di cui abbiamo un poco già parlato? 

 

Bruno Latour: Penso che Hacking – il quale del resto, è diventato nostro vicino perché da qualche settimana insegna al Collège de France, cosa abbastanza straordinaria per un americano – è un grande maestro, perché è capace al tempo stesso di fare storia della scienza, sociologia della scienza e filosofia della scienza, dunque è il padre o almeno lo zio di tutte queste discipline e ha un ruolo estremamente importante nel mantenere la continuità. Detto questo, il problema filosofico, questa volta, di Hacking, è che mantiene la distinzione – comprensibile nel suo progetto, ma che ha perduto per noi la sua validità – tra i natural kinds, le cose esistenti che tratta con un metodo pragmatista molto interessante, rinnovato in una specie di operazionalismo molto efficace, e i social kinds, oggetti come le false malattie. Hacking ha studiato molto le malattie socialmente fabbricate. Questo vuol dire che per lo studio del falso e per lo studio del vero usa metodi grosso modo diversi dal “programma forte”, che aveva il grande vantaggio di esigere una simmetria di metodi tra lo studio rispettivamente dei natural kinds e dei social kinds. Sfortunatamente questo problema non interessa Hacking. Hacking si interessa ad altre questioni: quello che lo interessa veramente sono le scienze perché è un filosofo e uno storico delle scienze. Con lui il mio disaccordo è limitato a un punto che sembra insignificante, ma che per me è importante. Se cominciamo con il trattare con metodi differenti i natural kinds e i social kinds, perdiamo una posta molto importante nelle controversie attuali: non sappiamo in che ambiente viviamo, se si tratta di natural kinds o di social kinds. Non si sa dunque precisamente come bisogna trattarli. Perciò la separazione in certo senso ossessiva in Hacking tra natural kinds e social kinds non è utilizzabile dal mio punto di vista. 

 

Sergio Benvenuto: Qual è il lato di Hacking che la interessa? 

 

Bruno Latour: Mi interessano tutti e due, ma quello che mi fa problema è la loro separazione. Leggo con passione i suoi libri sulla medicina, sulle personalità multiple, sulle statistiche. La sua produzione è straordinaria. Non c’è niente da dire. Ma poi se si vuole usarlo nelle questioni di politica scientifica, si trova che la sua utilità è debole, perché funziona solo se si sa in anticipo che si tratta di social kinds che possono essere decostruiti, mostrando che sono socialmente costruiti; mentre quando ci si rivolge ai natural kinds li si tratta sotto quella forma di rinnovato pragmatismo che Hacking ha rimesso in onore. Dunque tutto ciò è interessante, ma la separazione tra i due generi è disgraziatamente, come in Bloor, in Barnes e anche in Kuhn, erede del kantismo. Questa filosofia della scienza continua a svilupparsi sotto l’influenza del kantismo e rifiuta di prendere sul serio il problema dell’ontologia, il problema di conoscere le operazioni di cui si parla. Qual è il ruolo della storia umana nelle cose di cui parliamo? Questo è il grande problema che interessa la mia tradizione, la tradizione di Whitehead, di Bergson, della Stengers, tutta una tradizione che non fa distinzione in fondo tra epistemologia e ontologia. Questo è il grande problema. E poi la difficoltà con Hacking è che ha elaborato una definizione del sociale che è una definizione debole, come quella di Bloor o come quella di Kuhn. Il sociale è ciò che rinvia sempre al lato dell’arbitrario, al lato del simbolico, al lato dell’umano, della costruzione sociale. 

Dunque, per riprendere la sua domanda precedente, se si ha questa visione del sociale, non si può fare sociologia della scienza, non si può spiegare la scienza. Hacking è vittima, per così dire, della sociologia, perché ha ereditato una definizione del sociale, che come Kuhn e per le stesse ragioni, come Bloor e per le stesse ragioni, non può assorbire o “incassare” l’attività scientifica, perché quella definizione stessa del sociale dipende da una politica epistemologica. Si vedono molto bene queste difficoltà quando si osservano nei particolari le spiegazioni che danno eccellenti storici come Kuhn o Hacking delle ragioni per cui si sviluppa o non si sviluppa una scienza. I loro studi sono impeccabili, le loro ricerche d’archivio sono ammirevoli, non c’è niente da aggiungere, li ammiro e non sono capace di arrivare al loro livello di competenza, ma nel tipo di spiegazione sociale che mettono in opera, si avvalgono di una sociologia molto debole, debole perché batte sempre sul lato dell’arbitrarietà. Evidentemente più si insiste su questo lato, più si indebolisce la qualità dell’oggettività scientifica. Si è sempre nell’alternativa o di aumentare le caratteristiche sociali, abbassando la verità scientifica, o di aumentare la verità scientifica, abbassando il sociale. È questa situazione di bilancia che bisogna analizzare, per mostrare che è falsa. 

 

Sergio Benvenuto: A proposito di una storia delle scienze concreta, può tornare al suo studio sul dibattito scientifico tra biologi, tra Pasteur e Pouchet nel suo libro Les microbes, guerre et paix

 

Bruno Latour: Se vuole. Il mio non è un libro di storia della scienza, come quelli di Hacking o di Kuhn, che sono grandi maestri. L’oggetto del mio interesse in questo caso è completamente diverso: si tratta di trovare appunto il modo di non usare la nozione classica del sociale per spiegare un segmento di scienza, ma tentare di fare un esperimento di sociologia, di spiegazione storica. Che cosa avviene allora? Invece di intendere il sociale come composto di un certo numero di entità fisse, si modifica la definizione del sociale, in modo da includervi il microbo. Invece di avere un sociale come lista chiusa di elementi corrispondenti ai poteri, alle lotte per l’influenza tra gli uomini, ai paradigmi, alle rappresentazioni di interessi sociali ecc., si inventa un modo di descrizione che permetta di includere nella definizione del sociale degli esseri non umani, o in altre parole di far passare la descrizione sociologica dallo studio del sociale allo studio delle associazioni, di fare il passaggio che ho effettuato ne I microbi, con mia grande sorpresa tradotto in italiano sotto questo titolo, passare da una definizione del sociale a una definizione di associazione. L’esempio che ho scelto, perché si estende su un periodo sufficientemente lungo, è quello di Pasteur. Di Pasteur tutto è stato pubblicato, e questo mi ha risparmiato il lavoro d’archivio e l’uso di metodi che non conosco, con cui non sono familiarizzato. Nel caso di Pasteur siamo davanti a un magnifico esempio di quello che voglio dire. Se si prende Pasteur e si tenta di trovare, per esempio, delle spiegazioni sociali allo sviluppo dei suoi lavori sulla generazione spontanea – Jeremy Garrison lo ha tentato –, se ne trovano, ma sono veramente poca cosa in rapporto alla massa dei suoi lavori sulla generazione spontanea. Questo è veramente un buon esempio, poiché le spiegazioni sociali in termini di potere, di influenza, di ideologia, chiedersi se Pasteur fosse darwiniano o antidarwiniano, se la generazione spontanea urtasse le sue convinzioni di cattolico, sono tutte questioni che non ci permettono di andare molto lontano nella comprensione del metodo di Pasteur. Meglio è studiare, in base a una diversa definizione del sociale, le pratiche che separano Pasteur dal suo tempo, portandolo a creare un nuovo laboratorio a trecento metri da qui, all’École Normale, e a costituire una nuova definizione di esperienza, nell’ambito della nuova disciplina da lui inventata, la microbiologia, in polemica con uno dei suoi avversari, Pouchet, completamente sparito, in seguito, dalla storia della scienza, ma assai importante al suo tempo, grande professore a Rouen, che praticava metodi sperimentali completamente diversi da quelli di Pasteur, che aveva una definizione della biologia e del suo ruolo, un modo di definire la scienza completamente diverso da quello di Pasteur, che aveva una concezione della società completamente diversa da quella di Pasteur, che aveva infine un diverso modo di concepire il modo di intraprendere e di finanziare l’attività scientifica. Sarebbe troppo lungo rifare qui tutto il ragionamento in dettaglio, ma se non si comincia a opporli e a cercare una spiegazione sociale per Pasteur e una spiegazione sociale per Pouchet, ma semplicemente a sviluppare le associazioni, cioè a guardare il mondo, non il mondo nel senso di Kuhn, ma il mondo vero, questa volta, il mondo reale, il mondo degli esseri, degli attanti, come diciamo, si trovano associate le reti [réseaux] costituite rispettivamente da Pasteur e da Pouchet. Allora le famose differenze, che coloro che ci accusano di relativismo pretendono che non siamo in grado di cartografare, saltano agli occhi. Differenze che sono anche dell’ordine di ciò che si potrebbe chiamare il sociale, poiché, evidentemente, Pasteur lavora a Parigi, Pouchet in provincia – e questo è un fatto sociale – Pasteur è cattolico e Pouchet protestante ecc.; ma poi la forma delle provette è un fatto sociale? Evidentemente no! Invece la definizione del vivente, che per Pouchet non è specifico, mentre per Pasteur dev’essere specifico, perché è l’elemento che vuole arrivare a coltivare, costituisce una differenza enorme. Dunque se si tenta di ricostruire la rete [réseau] di Pasteur e quella di Pouchet, si trova che sono veramente incommensurabili. La prova che sono incommensurabili è che dal momento in cui risponde alla sfida, lanciata in un certo senso da Pasteur, di sottoporre gli esperimenti a una commissione nominata dall’Accademia, Pouchet si sgonfia, se mi passa l’espressione, e abbandona il terreno a Pasteur. Dunque l’incommensurabilità è costruita da Pasteur: è lui che rende i suoi propri lavori incommensurabili con quelli di Pouchet.

 

Sergio Benvenuto: In questo caso almeno lei accetta la tesi di Kuhn sull’incommensurabilità dei paradigmi. 

 

Bruno Latour: No. È esattamente l’inverso dell’argomento di Kuhn. L’incommensurabilità è costruita a poco a poco da Pasteur, esplicitamente. È lui che rende incommensurabili i due tipi di esperienza. È buffo perché non è un rapporto simmetrico: ogni volta che Pouchet propone degli esperimenti, Pasteur li riproduce e vince contro Pouchet; mentre Pouchet, che ha una concezione completamente diversa del metodo sperimentale, rifiuta di ripetere gli esperimenti di Pasteur o li riproduce così male che i risultati non sono compatibili con quelli ottenuti da Pasteur. La cosa interessante è che i due dispositivi [réseaux] diventano incommensurabili, mentre non lo erano all’inizio. All’inizio, come ho mostrato nella grande conferenza della Sorbona che ho più volte riprodotta, con il materiale di Pasteur, con le esperienze di Pasteur, i paradigmi sono commensurabili. Le due grandi domande di ideologia, di biologia sull’origine della vita pochi anni dopo sono diventate incommensurabili. Perché? Perché la discussione si è interamente spostata sulla questione che Pasteur ha reso topica, pertinente, che è il modo di coltivare unicamente nel laboratorio della rue d’Ulm, quei famosi predecessori dei microbi e della microbiologia. 

 

Sergio Benvenuto: Ma in definitiva perché ha vinto Pasteur? 

 

Bruno Latour: Pasteur ha vinto e, come ho più volte mostrato, la sua vittoria continua nella misura in cui, come ha detto bene Isabelle Stengers, siamo eredi di Pasteur, viviamo nel mondo di Pasteur. Così torniamo alla prima domanda sull’universalità che paga il prezzo e sull’universalità che non paga il prezzo. Se si smettesse oggi nei laboratori di microbiologia di praticare le operazioni di fecondazione e di sterilizzazione che sono state inventate da Pasteur a qualche centinaia di metri da qui, centocinquant’anni fa, Pasteur perderebbe, cioè voi perdereste la capacità di mantenere in esistenza degli esseri che corrispondono alla definizione che egli ne ha data, degli esseri assolutamente specifici e ciò nonostante coltivabili. Dunque si può, a volontà, bloccare con la sterilizzazione, o mettere in movimento con la fecondazione, un certo processo. Sembra una domanda di buon senso, lo riconosco, chiedere: ma alla fine chi ha vinto? Ma la verità è che non c’è fine, perché bisogna continuamente esercitare l’apparato concettuale della metrologia scientifica, per tenere in vita il programma di ricerca di Pasteur. 

 

Sergio Benvenuto: Ma la gente comune, come pure gli epistemologi di polizia, come lei li chiama, pensano che in definitiva ha vinto Pasteur perché i microbi esistono, come è vero che la terra è rotonda anziché piatta, in quanto è realmente rotonda. 

 

Bruno Latour: Esistono, nessuno contesta la loro esistenza, esistono e sono appunto “associati”. Tutto il metodo che ho esposto con un esempio assolutamente semplice, ha precisamente come scopo di ricollocare gli attori al loro posto nella descrizione di questo apparato o rete [réseau]. Certo che i microbi esistono! E si tratta di microbi assolutamente specifici, che hanno modificato profondamente con la microbiologia l’industria: l’industria della birra, quella del vino, ecc. Noi siamo usciti così dal modello kantiano. In un modello kantiano bisognerebbe scegliere: i microbi li ha costruiti Pasteur di sana pianta in riferimento al suo paradigma e con i suoi riflessi professionali, o esistono veramente? Si vede bene come questa alternativa non ha per noi alcun senso, è completamente irreale rispetto alla questione fondamentale: i microbi sono ormai “associati” come membri di pieno diritto di un nuovo apparato o rete di associazione [réseau d’association], di cui Pasteur è soltanto uno degli elementi. Dopo Pasteur noi viviamo in un altro mondo, che abbiamo ereditato da lui con la domanda: che cosa facciamo quando facciamo scienza? In altri termini oggi c’è una storia delle scienze, prima non c’era una storia delle scienze, c’era soltanto una storia degli scienziati, chiusi nella loro torre, con le loro rappresentazioni, e il mondo fuori intatto. La grande differenza tra il programma di ricerca in cui sono impegnato e il modello kantiano dei miei colleghi, è che il mondo che ci interessa è il mondo reale con quello che vi accade, il mondo con la sua storia. Perciò il nostro riferimento è Whitehead più che Kant. È una storia, se si vuole: che cosa succede al microbo e a Pasteur associati alla fine del XIX secolo? È una storia congiunta nella quale troviamo insieme la trasformazione di Pasteur, la trasformazione dei microbi e – fenomeno più massiccio – una trasformazione di tutto il XIX secolo. Studiare il XIX secolo senza Pasteur non avrebbe senso. Come non avrebbe senso studiare oggi, senza la “mucca pazza”, la fine del XX secolo. Tra gli esseri che costituiscono il sociale bisogna mettere anche i microbi. Il termine “sociale” dovrebbe essere sostituito e per marcare la sostituzione adopero il termine di “collettivo” [collectif]: collettivo che appunto non è una colletta [collecté], che non costituisce ancora un mondo comune, ma è già costituito da associazioni. Questo collettivo include ora come membri a pieno titolo dei microbi che hanno una loro storia, perché i microbi di Pasteur, come sanno perfettamente gli storici della scienza, hanno un’esistenza molto breve. Già dalla fine del XIX secolo prende il loro posto l’enzimologia, seguita dall’immunologia. I microbi che Pasteur aveva scoperto, vent’anni dopo in un certo senso erano spariti, poiché la loro disposizione, la loro azione erano diventata oggetto di studio sia per l’enzimologia, che in fondo è una biochimica, sia per l’immunologia. Ma durante il breve periodo – diciamo tra il 1850 e il 1880 – in cui il microbo esiste così come viene definito da Pasteur, è reale, prodotto appunto da Pasteur. Proprio perché Pasteur fa della buona scienza, il microbo esiste veramente e cambia la società del XIX secolo. Dunque tutti questi problemi e il modo di parlarne non hanno assolutamente niente a che vedere con il programma kantiano – dico kantiano per semplificare – di una separazione, di una scelta che bisognerebbe fare per sapere se è veramente il microbo a esistere o è Pasteur. Pasteur è là e il microbo è qui e proprio perché Pasteur è là il microbo è qui. Non so se i gesti della mano possono chiarire il cambiamento di paradigma, nella filosofia questa volta, ma è proprio questo che io cerco. 

 

Sergio Benvenuto: Quando lei parla del mondo si ha l’impressione, che non so quanto sia esatta o quanto sia vera, che lei pensi a un mondo storico, a un mondo concreto. Noi viviamo in un mondo di microbi e non è importante sapere se i microbi esistano senza l’uomo. Ma se prendiamo un altro esempio, quello dei dinosauri che sono esistiti prima dell’uomo, evidentemente esistono oggi nel nostro mondo perché c’è un’industria del cinema, dei libri, ecc. che sfrutta il tema dei dinosauri. Dunque essi fanno parte del nostro mondo. Ma la cosa che lei sembra trascurare è che fanno parte del nostro mondo perché esistevano già prima di noi. Dunque fanno parte di una storia della natura prima dell’uomo, che è diversa dalla storia degli uomini e dunque della tecnica, che si appropria solo in un secondo tempo di questi oggetti che esistono in sé. 

 

Bruno Latour: Ma la storia non è storia degli uomini!

 

Sergio Benvenuto: Appunto...

 

Bruno Latour: La storia non è storia degli uomini. Tra le cose che ho detto fin qui non ho mai parlato di uomini, ho parlato di associazione e sarebbe veramente una bizzarra filosofia della storia quella che ci impedisse di prendere sul serio la doppia realtà che ci sta davanti. I dinosauri esistono prima dell’uomo solo a partire dal XIX secolo. Se non si è capaci di fare una filosofia della scienza che sia in grado di tenere insieme questi due fenomeni, cioè che il dinosauro esiste indipendentemente e assai prima dell’uomo solo a partire dal XIX secolo, vuol dire che non si è abbastanza forti. Se non si è capaci di tenere le due cose insieme non si è abbastanza forti, vuol dire che si possiede una filosofia della storia assai primitiva. Sono situati rispetto al momento in cui sono stati scoperti e poi sono situati rispetto alla storia naturale, come ho mostrato in un capitolo de L’espoir de Pandore. L’argomento è un po’ tecnico, ma non richiede più di cinque minuti, veramente non è più complicato che studiare un puzzle o un paradosso della fisica quantistica o le leggi dell’equilibrio nella chimica. Veramente non è un problema difficile. Si vedono bene i due estremi. Se si dice che i dinosauri sono sempre esistiti e si dimentica ancora una volta l’insieme, il dispositivo che ha permesso all’insieme delle tracce di venire all’esistenza – questo collettivo diventa pubblico a partire dal XIX secolo – lei sarà d’accordo che così si tralascia una grossa parte di quello che sono i dinosauri. Se si dice che i dinosauri sono stati inventati di sana pianta, nel XIX secolo, da una banda di fantocci si tralascia anche in questo caso qualcosa di importante nella scoperta dei dinosauri, ma niente ci obbliga a questa scelta. Assolutamente nulla ci obbliga a questa scelta. D’altronde si vede bene ora che, grazie a eccellenti storici della scienza, in particolare su questi problemi di paleontologia, le risorse intellettuali, le risorse filosofiche, le risorse museografiche esistono. Basta visitare a New York, nel Museo di storia naturale, la magnifica presentazione dei dinosauri appunto, nella quale la revisione della storia, la costruzione dei dinosauri fanno parte di una riflessione sulla disciplina, senza diminuire minimamente la realtà dei dinosauri. Non si può immaginare di condannare il complesso dei rapporti tra quelli che scoprono i dinosauri, la creazione dei dinosauri e la loro divulgazione, non si può anatomizzare la discussione, esigendo dai paleontologi una scelta che li paralizzerebbe. D’altronde ho scritto un articolo proprio su questo problema dei dinosauri, nella fiction, per mostrare il ridicolo di essere obbligati a scegliere: o parlare dei dinosauri di centocinquanta milioni di anni fa, o parlare dei dinosauri del Museo di storia naturale. I paleontologi nella loro totalità sarebbero ridotti al silenzio. Sono necessarie tutt’e due le cose. La ragione per cui non comprendiamo questo problema non ha niente a che vedere con la pratica scientifica. È una ragione politica che riguarda il modo in cui abbiamo organizzato in Occidente il potere politico. Perciò rifiuto assolutamente di definire questo problema come un problema di filosofia della scienza. La scelta comminatoria tra il dinosauro di centocinquanta milioni di anni fa e il dinosauro di oggi costruito dagli uomini non resiste a un’analisi di storia della scienza. 

 

Sergio Benvenuto: Quali sono concretamente le politiche che impongono la scelta che lei chiama kantiana tra la doppia realtà?...

 

Bruno Latour: Ho detto all’inizio che il mio interesse non è diretto alla filosofia della scienza. Penso che ci siano un sacco di questioni importanti nella filosofia della scienza, ma che nel loro insieme le grandi questioni del relativismo, del realismo ecc,. non si pongono o non si risolvono nell’ambito dell’epistemologia, perché l’epistemologia è a sua volta inclusa in un progetto politico, di polizia epistemologica o di epistemologia politica, che è quello della ripartizione dei modi di discussione in una democrazia. È un argomento che ho affrontato negli ultimi due capitoli de L‘espoir de Pandore e anche l’altro mio libro Politiques de la nature, tradotto in italiano come Politica della natura, al singolare, nel suo insieme tratta proprio di questo. Dunque evidentemente è il problema più difficile, ma non è affatto un problema di epistemologia. La cosa più importante è capire che mentre nessuno di questi grandi problemi nasce da un’analisi empirica delle pratiche scientifiche, al contrario ogni volta che io o i miei colleghi ci siamo chinati a studiare empiricamente il lavoro degli scienziati, quei grandi problemi spariscono, si rivelano assolutamente non pertinenti. Allora bisogna chiedersi perché ritornino sempre. Ritornano – a questo problema ho dedicato le mie ricerche negli ultimi cinque o sei anni – per ragioni costitutive, che riguardano il modo in cui è organizzato il dibattito politico. Potremmo dire in termini filosofici che si tratta della divisione dell’esperienza in qualità primarie e in qualità secondarie, che Whitehead chiamava “biforcazione della natura”. L’argomento richiede che ci si soffermi a spiegarlo, perché è difficile. Non è difficile empiricamente, perché non descrive attività scientifiche, è difficile perché siamo abituati a separare l’epistemologia, che si occupa del problema della rappresentazione [représentation] della realtà nelle conoscenze, dalla politica che si occupa della rappresentanza [représentation] degli interessi in Parlamento o in un’istanza pubblica. Dunque abbiamo una teoria epistemologica della rappresentazione [représentation] e una teoria politica della rappresentanza [représentation]. Quello che ho tentato di fare in Politica della natura e nel libro sui Moderni – Nous n’avons jamais été modernes – è stato di costruire il concetto di qualcosa che si ponesse al di sopra dell’epistemologia e della politica, che io chiamo costituzione, e ho fatto come se questa costituzione fosse stata scritta, cioè come se qualcuno avesse redatto una costituzione nel senso giuridico, per stabilire una ripartizione delle forze o una ripartizione del potere, una separazione dei poteri, che affida una parte del collettivo all’epistemologia e una parte alla politica. Ma la perversità di questa costituzione che definisce veramente l’Occidente, che definisce l’essenza del moderno, secondo me sta nel fatto che ha operato la ripartizione in modo da rendere impossibile la politica. Questa ripartizione attinge il suo argomento dal Gorgia platonico, che in un certo senso è la scena primitiva in cui avviene questa separazione, in particolare attraverso l’opposizione tra episteme dal lato della scienza e politica o sofistica dall’altro. Tutti gli schemi, tutti i cliché usati nel caso Sokal hanno la loro origine nelle dimostrazioni del Gorgia. Non si è fatto nessun passo avanti in duemilacinquecento anni, ma si è perduto lo stile, l’energia, le metafore, la bellezza ecc. Si è perduto qualcosa senza guadagnare niente. In questa situazione la ripartizione è tra le qualità primarie di cui è costituito il mondo e le qualità secondarie, per riprendere l’espressione classica della filosofia, cioè l’insieme delle rappresentazioni soggettive che gli uomini si fanno del mondo. Questa definizione data dal XVIII secolo, data da Locke, da un’età che non è quella dei Greci, ma la uso per semplificare le cose. Si dichiara che il mondo comune che è l’oggetto proprio della politica è già costituito, nel senso che noi abbiamo già nelle qualità primarie der Stoff, il materiale di cui è fatto il mondo. E in più abbiamo le qualità secondarie. Le qualità secondarie sono soggettive, sono etiche, a volte sono religiose, ma in ogni modo ci separano. È evidente allora la perversità di questa costituzione che pretende di costituire un mondo comune. Ma questo mondo comune è già costituito nel caso delle qualità primarie, che sono d’altronde invisibili agli attori ordinari e note solo agli scienziati – come quando dico che tutto questo materiale intorno a me è fatto di atomi invisibili, ma che sono la vera sostanza del mondo. Ma le qualità primarie hanno un’altra peculiarità strana: sono prive di significato soggettivo, sono senza valore. Dunque la partizione, che Whitehead chiama “biforcazione della natura”, è una politica del tutto particolare nella quale io dico: il mondo comune è già costituito sotto la forma della natura, e io sono già in possesso delle qualità primarie, quindi so come è composto, so che è invisibile, che non ha valore etico soggettivo, mentre d’altro lato ho delle interpretazioni soggettive ed etiche, sensate e sensibili – diciamo vissute – del mondo, che sono le qualità secondarie, prive di rapporto con la realtà, che restano mere rappresentazioni nel senso della soggettività o della rappresentanza di interessi. 

 

Sergio Benvenuto: In che senso questa distinzione è politica?

 

Bruno Latour: Il mio contributo in Politica della natura consiste nel dire che anche questa distinzione è politica, perché da un lato si dice che la politica si occupa di rappresentazioni soggettive, di interessi divergenti, ecc. ma dall’altro intanto, per fortuna, c’è la riserva – alimentata dalla scienza – di universalità, di obbiettività, di indiscutibilità, che proviene dalle qualità primarie e si fa questo ragionamento incredibile: si pensi a che cosa sarebbe la politica se soltanto si potessero sostituire le qualità secondarie con le qualità primarie. Ci si troverebbe subito d’accordo. La politica dell’Ovest, la definizione occidentale della politica, che è un’aberrazione dal punto di vista di ciò che la politica dovrebbe essere, è un’aberrazione costruita esplicitamente nel Gorgia – l’ho mostrato molto precisamente in due capitoli del mio libro sul Gorgia. L’aberrazione consiste nel dire: se soltanto la politica sparisse completamente! Se si arrivasse a sostituire dappertutto le qualità secondarie con le qualità primarie, alla fine si troverebbe un accordo: sarebbe come una zoomata sul mondo comune [...]. 

 

Sergio Benvenuto: Questa distinzione dipende o almeno è stata rinforzata dalla distinzione di Hume tra fatto e valore?

 

Bruno Latour: Si intersecano. Ma è un discorso da riprendere nella terza parte.

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