Maestri, guru, ingegneri / Conversazione con Paolo Fabbri

4 Luglio 2016

 

Dopo l'intervento di Giusi Marchetta pubblichiamo oggi il secondo intervento legato all’incontro Che cos’è un maestro? promosso dal progetto Hangar Piemonte e da da doppiozero: l’11 luglio, a Torino, un’occasione di confronto e riflessione sulla figura dei maestri, sulla comunicazione oggi dei saperi pratici e teorici a partire dal racconto di alcune esperienze concrete dei partecipanti in realtà non istituzionali. 

 

 

Con Paolo Fabbri si parla bene di molte cose, dall’ultimo libro sul pensiero cinese antico al sorriso enigmatico dei suoi cani, dalle nuove edizioni degli scritti di Benveniste alle avventure di Tex, dagli Zombie a Pinocchio, passando per gli artisti contemporanei, la poesia sperimentale, i contorsionismi della comunicazione politica, le strategie militari vecchie e nuove, i terrorismi, i capricci della moda e, ossessione fondamentale, i destini della semiotica.

 

Paolo ha seguito le sorti della scienza dei segni sin dai suoi esordi, da quando a metà degli anni Sessanta teneva seminari su media televisione e pubblicità a Firenze, ma anche corsi sulla sociolinguistica nell’esordiente Centro studi semiotici di Urbino, seguendo a Parigi i corsi di Barthes, e diventando presto il principale collaboratore di quello che è stato il suo vero e forse unico maestro: il rigorosissimo, e geniale, semiologo lituano-francese Algirdas Greimas. Vive fra l’Italia e la Francia, dialogando fittamente con i principali intellettuali della seconda metà del Novecento (Lyotard, Guattari, Baudrillard, Virilio, Calvino, Eco, Balestrini, Stengers, Jullien, Latour…), svolgendo l’incarico di Direttore dell’Istituto italiano di cultura di Parigi, e trovandosi assegnata la legion d’onore. Ha insegnato in università di mezzo mondo, da Bologna, Palermo, Venezia e Milano a Parigi, appunto, all’America Latina, l’Australia, il Giappone, la Spagna, la Turchia e chissà quante ne sto dimenticando. In questi densissimi decenni d’attività, ciò che non ha mai mancato di fare è insegnare, non solo nei corsi universitari ma anche con la direzione di un gran numero di tesi di dottorato, e le relative fittissime chiacchierate, formando centinaia di allievi in moltissimi centri di ricerca. Uscirà a fine anno da Mimesis un volume che raccoglie una trentina di conversazioni con alcuni di questi suoi allievi. Si apre domani a Albi, nel Sud della Francia, un bel convegno in suo onore su “Utopies et formes de vie”, che riunisce un gran numero di amici, colleghi e, appunto, soprattutto allievi.

 

Resta il fatto che il termine ‘allievo’, con Paolo, è del tutto incongruo, per non parlare del concetto di maestro, che ha sempre interpretato in modo tanto denso quanto irrituale, dove la patente generosità delle idee offerte in dono ha per meno evidente corrispettivo una richiesta continua di rigore intellettuale e di etica profonda della ricerca. “Il vero maestro – ricorda spesso – è quello che indica i libri da non leggere: non dà le dritte giuste sulle cose da consultare ma sul tempo da non buttar via leggendo cose inutili. Per me Greimas aveva soprattutto questo ruolo. Io ogni tanto mi perdevo in testi di filosofia, di psicanalisi, di sociologia, e lui mi ripeteva sempre: ‘a che ci servono queste cose?’ Era un maestro rigorosissimo, e lo rimpiango moltissimo anche per questo”. Così, per Paolo il semiologo è sempre al lavoro, e inevitabilmente, dato che in qualsiasi circostanza della vita sociale e privata si ritrovano di continuo epifanie del senso, o, per dirla difficile, meccanismi di significazione. Cosa che non può non imbronciare chi ama tener separati lavoro e svago, ma che riempie di rinnovata euforia l’animo di chi è capace di seguirlo sino in fondo. Diventa normale, a un certo punto, non aver più chiaro di chi è un’idea, se tua o di Paolo, come per esempio adesso che sto scrivendo, ma è del tutto ininfluente, stando al gioco, doverlo stabilire.

 

Insomma, conversare con Paolo Fabbri sulle forme attuali della trasmissione del sapere, sull’essere maestri e allievi oggi, sulla fisionomia che prendono in quest’epoca babelica le attività di formazione intellettuale è quasi inevitabile, mi verrebbe da dire naturale. Paolo è stato allievo fedele e scapestrato, è tuttora maestro esigente e munifico, e nello stesso tempo studia con passione e straordinaria capacità interpretativa le trasformazioni della cultura contemporanea, dentro e fuori i media, nuovi o vecchi che siano. Dai media, per entrare nel merito, bisogna difatti passare.

 

 

Proporrei di cominciare con una battutaccia: cercando ‘maestro’ su Google viene fuori per prima cosa una carta di credito, o, per l’esattezza, di  debito. Il maestro ha a che fare con commerci d’idee…

 

“Il mio problema non è tanto la trasmissione del sapere in generale, di un sapere già dato, o come direbbe Kuhn di una scienza normale da trasferire tale e quale da un individuo che ce l’ha a un altro che non la possiede ancora. La questione è semmai l’economia generale di una teoria entro cui compiamo, in gruppo o individualmente, i nostri specifici lavori di ricerca. In altre parole, per me la questione dell’insegnamento è legata al problema della ricerca, e la ricerca va ineluttabilmente in alcune direzioni di approfondimento che sono dovute a occasioni socialmente rilevanti, a questioni, diciamo così, di opportunità sociale della disciplina. Insomma, il problema non è l’insegnamento, o l’apprendimento, in sé, ma il contesto specifico in cui accade, intellettuale o meno. Insegnare (o apprendere) che cosa? grazie a quali opportunità, strumenti, interessi generali, circostanze culturali?”.

 

 

Ho l’impressione che ci sia oggi un’opposizione tra due tipi di contratto tra maestro e allievo: uno di tipo pedagogico tradizionale (quindi dall’alto verso il basso) e uno, che mi sembra sia quello che tu hai sempre voluto portare avanti, di natura paritetica. È l’idea dei pari, tipica della scienza settecentesca, una cosa che ti ho sentito dire spesso e che poi ti ho visto praticare altrettanto spesso...

 

“Il maestro non è qualcuno che educa, o che informa, ma semmai uno con il quale, accanto al quale e grazie al quale poter proseguire nella ricerca: non tanto insegnare a farla ma percorrere insieme, se pure con ruoli differenziati, le medesime direzioni di lavoro. E secondo me la pratica della ricerca è proprio quella lì, cioè la relazione paritetica, è quella per cui stiamo ricercando tutti quanti. Detto ciò, la dimensione paritetica non è per nulla scontata, meno che mai spontanea, ma va costruita, come tutte le relazioni. Per poter fare in modo che ciò accada c’è per esempio un presupposto, quello che chiamerei l’affidamento, senza il quale nessuna trasmissione di conoscenza appare possibile. Da un lato, c’è il sapere imposto per autorità, frequentissimo e del tutto ininteressante. Dall’altro c’è l’idea del fidarsi dell’altro, del grado di affidabilità: che è reciproca: l’allievo deve innanzitutto fidarsi del maestro, ma anche il contrario, il maestro deve saper scegliere di chi fidarsi veramente, e sino a che punto”.

 

 

Gianfranco Marrone, Paolo Fabbri (Misano, luglio 2013)

 

Questo presupposto dell’affidamento, però, e dunque dell’autorevolezza – che ha tante gradazioni interne – mi sembra che sia uno dei modelli che sempre di più oggi stia entrando in crisi. Per una serie di motivi. Da un lato oggi domina il maestro ‘ingegnere’, che è quello dell’attuale accademia, cioè uno che conosce benissimo la burocrazia e porta avanti quelli che la rispettano come lui: è l’idea della burocratizzazione sia della ricerca sia della trasmissione del sapere. Opposto all’ingegnere c’è il guru, ossia la star dei festival. La mia impressione è che l’università faccia sempre più burocrazia, il che non è una novità, e che la trasmissione del sapere, a livello di grandi numeri, si sia spostata nei festival, dove c’è il guru, cioè il grande nome o presunto tale (che i media ovviamente pompano), con schiere di persone innamorate e paganti che vanno ad ascoltarlo. Mi sembra che il maestro si stia dividendo in queste due figure, nessuna delle quali – immagino – dovrebbe piacerti…

 

“Si è vero, ma, lasciando da parte le burocrazie, assai tristi, il guru fa soltanto informazione; il maestro, quello di cui stavamo parlando, dovrebbe fare invece formazione. È una distinzione decisiva: l’informazione è quella cosa che richiede un minimo di tempo e un massimo di spazio; mentre la formazione è il contrario, deve avere parecchio tempo e molto meno spazio. Con l’informazione si sta en plein air, cioè nei festival, per una mezzoretta. Con la formazione si sta chiusi dentro una stanza e si lavora insieme per giornate intere, che è poi la logica degli stage, delle riunioni, dei piccoli seminari. Quindi questa opposizione tra il guru, che fa informazione, e il maestro vero, che partecipa a una formazione, andrebbe mantenuta. Naturalmente, per riprendere la figura del cosiddetto ingegnere, è divertente quando i guru vanno all’università e si comportano da star in un contesto iperburocratico. Un cortocircuito apparente, che in realtà fa chiudere il cerchio: ingegnere e guru sono due facce del medesimo sistema attuale di falsa trasmissione del sapere.

 

 

Tornando alla questione dell’affidamento reciproco maestro-allievo, oggi c’è il problema di Wikipedia, cioè la retorica del sapere collettivo che non ha un’autorità di riferimento e che si costituisce da sé, per così dire dal basso: è un altro nodo di questa specie di rete che stiamo provando a ricostruire.

 

“Lì si possono ricordare le riserve che hanno avanzato Eco e molti altri: ‘attenzione a questa gigantesca enciclopedia!’. Eco aveva addirittura sostenuto che siamo come nell’Alto Medioevo, ossia nel periodo in cui la gente non aveva più fonti, non aveva ancora ritrovato i grandi classici,  e prendeva per buono tutto ciò che per prima capitava a tiro. Paragonando la nostra epoca all’Alto Medioevo, Eco voleva sottolineare che non abbiamo più nessun controllo delle fonti possibili. Una volta il lavoro fondamentale dell’insegnamento consisteva nel controllo delle fonti, e magari nel loro confronto. Io credo che questo oggi sia vano, come altrettanto vano è dire che la cultura è un’enciclopedia che ha il formato deleuziano della patata, perché a questo punto non si capisce assolutamente niente. Forse il problema oggi è altamente selettivo. L’affidamento consiste nel fatto che quando un maestro indica che cosa conta e che cosa non conta, l’allievo ci creda e di conseguenza l’orientamento della ricerca vada nella direzione di ciò che conta. Ecco, il momento dell’avviamento mi sembra centrale. Quando tu parli e gli allievi vanno su Wikipedia per vedere se c’è corrispondenza con quanto hai detto, questa cosa può andar bene qualche volta, magari per controllare delle date, ma non come forma di verifica assoluta. Sarebbe bene che gli allievi si fidassero del fatto che quando il maestro parla, e trasmette conoscenze, ha preventivamente selezionato in maniera pertinente quello che è rilevante e quello che irrilevante.

La questione si potrebbe allargare. Wikipedia si fonda sull’idea dei memi, metafora biologica secondo la quale nella cultura si diffondono contenuti qualsiasi, anche banali, in modo virale, senza controllo e soprattutto senza ragioni intrinseche. Ma oggi a essere perplessi sull’esistenza stessa dei memi sono innanzitutto i biologi, quelli che praticano la cosiddetta ‘code biology’, i quali hanno messo in crisi l’idea che la singola informazione stia nei singoli geni. Così, l’idea di Dawkins del gene egoista è una scempiaggine e, del resto, neanche Dawkins credeva all’idea di poter costruire, sulla base dei geni, il modello dei memi; tant’è vero che lo ha ritirato subito. Ma ci hanno creduto tutti quelli che pensavano al formato enciclopedico. Perché se l’enciclopedia è fatta di elementi separabili, dotati di un contenuto definito, allora i memi vanno benissimo, sarebbero unità tutte equivalenti. I biologi sono oggi i primi a sostenere invece che la vita non è fatta di elementi singoli che si accumulano (che è una specie di modello lessicale), ma di quelli che chiamano codici (noi li conosciamo dagli anni Sessanta), e cioè di strutture complesse, testualità variabili, discorsi che si intrecciano e si traducono vicendevolmente. Un modello strutturale che è l’opposto del modello enciclopedico”.  

 

 

Due problemi. Il primo è che mi pare di capire che tutto questo si collega a un’altra grande retorica, che è quella della condivisione. Mi sembra che il modello classico della trasmissione del sapere sia stato sostituito da quest’idea della condivisione, che poi è una condivisione, appunto, di elementi lessicali, di contenuti unici e separati, la quale, però, a suo modo funziona. Dall’altro lato, la cosa che più mi colpisce, perché vedo che ci stai insistendo, è questo problema della fiducia, che è delicato, perché, come sai bene, è il lavoro dei media: i media costruiscono figure a cui credere. La domanda spontanea allora diventa: come costruisce la propria fiducia il vero maestro?

 

“Sappiamo benissimo che la credibilità comporta sia dimensioni cognitive sia dimensioni affettive, di tipo passionale. Da un lato, ti riconosco quello che sai. Anche quando Socrate dice ‘so di non sapere’, gli allievi gli riconoscono che sa di sapere di non sapere, gli riconoscono cioè un qualche contenuto di conoscenza. Dall’altro lato, è chiaro che quello che abbiamo chiamato il guru richiede la famosa passione senza opposizioni, come la chiamava Descartes, e cioè l’ammirazione incontrastata. Il guru, in qualche misura, chiede di essere ammirato, ed è chiaro che i media pompano moltissimo l’ammirazione del pubblico. L’idea dell’affidamento di cui parlavo è il contrario dell’ammirazione, perché è chiaro che, sotto sotto, ci vuole il riconoscimento del valore: sia il riconoscimento del valore dell’oggetto scambiato, e cioè del sapere, sia il riconoscimento del valore non tanto della singola persona (altrimenti si ricade nel fenomeno del guru) ma della relazione con questa persona. Credo che questo sia importantissimo e non vada sottovalutato, cioè il valore del contratto di scambio o di condivisone fra allievo e maestro. Questo valore può essere stabilito socialmente (il babbo è il babbo, il colonnello è il colonnello) oppure contrattualizzato. Naturalmente con tutti i rischi di perdita di fiducia, di crisi della relazione, di allontanamenti, di avvicinamenti, che mi pare siano la regola di qualunque gruppo che funzioni. Cioè esiste, se vuoi, tutta una ‘politica’ nell’essere maestro, una capacità nel saper gestire relazioni prima ancora che trasmissioni. Cosa non facile”.

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