Pensare la nostra epoca / François Jullien: Essere o vivere

5 Ottobre 2016

Pochi pensatori come il sinologo e filosofo François Jullien sono più fecondi nel fornirci la scatola di attrezzi concettuali per pensare la nostra epoca globalizzata e frammentata. Da più di trent’anni naviga nelle acque in cui la cultura dell’Occidente incontra quella cinese, dove la filosofia greca (e la sua variante cristiana) si confronta con la tradizione di matrice confuciana. Dal faccia a faccia deriva in primo luogo una chiarificazione dei presupposti, degli a priori, su cui le nostre convinzioni si fondano, delle rive in cui scorrono i nostri pensieri, secondo l’immagine del Wittgenstein di Della certezza. Il confronto con una forma d’intelligibilità costituitasi in piena autonomia (a differenza di quella indiana o araba) rispetto all’Occidente produce un effetto di spaesamento: la lingua cinese ha ignorato alcuni delle nozioni basilari della nostra filosofia (Essere, Verità, Dio, Libertà, Tempo …), ne ha sviluppate altre che non hanno attecchito nell’“Europa dagli antichi parapetti” (Rimbaud). Siccome il pensiero non può che sfruttare le risorse che la lingua mette a disposizione, emergono scarti concettuali, non differenze, che ci consentono di abbandonare l’universalismo pigro con cui l’Occidente continua a guardare il resto del mondo. Il libro ora tradotto per le edizioni Feltrinelli, Essere o vivere, ci fa accedere al cantiere sempre aperto della riflessione di Jullien: venti capitoli, dai titoli disposti in forma oppositiva (un concetto versus un altro), aprono nuove direzioni di ricerca nella terra che si stende “tra” le culture. 

 

Il lavoro di “decostruzione” dall’esterno (forse, il solo efficace) accresce la consapevolezza delle nostre mancanze, ma le mancanze non sono di per sé difetti. Così, da noi la filosofia, a partire da Parmenide, ha pensato il reale in termini di Essere; le cose sono enti isolabili dotati di proprietà distinte, ogni entità è sostanza, argomenta Aristotele, composta di materia e forma (eidos, l’idea di Platone diventata principio immanente), ed è la forma ad assegnare le caratteristiche agli enti. Si apre qui una diramazione del pensiero, si produce una “piega” che traccia i solchi nel campo del pensabile: a venire esclusa è la possibilità di pensare il reale come processo di continua trasformazione, come fa invece la cultura cinese. Per essa, la forma è solo il provvisorio arrestarsi di un flusso da cui non è isolabile, è solo in trasformazione; e la forma non viene attribuita a una causa esterna al fenomeno, ma a una “propensione” immanente, già implicata in essa. Propensione ci fa uscire dal regime della causalità, tanto caro al nostro sapere (scire est scire per causas), anche scientifico, e dunque dell’“esplicazione”, per introdurci in una logica della costante implicazione. Il che da subito sgombra il campo non solo dalla messa in scena di un Dio che sia “causa” del mondo, ma anche dalla valorizzazione del soggetto, dotato di Libertà e Volontà, che progetta, si prefigge dei fini in nome di ideali da conseguire, e con la sua Azione trasforma la realtà. La Cina, già dai testi relativi all’Arte della guerra, non affida la sua strategia dell’efficacia alla genialità del comandante, al coraggio dell’eroe, non glorifica l’attivismo del soggetto individuale; l’abilità del comandante (e oggi del manager) sta invece nel lasciare evolvere il potenziale di situazione a proprio vantaggio, secondo il principio di Laozi, “agire senza agire”: non restare in attesa o confidare in altro (Dio o chi per lui), ma sfruttare la situazione perché l’effetto desiderato sfoci dalla sua naturale evoluzione. 

 

Quel che è apprezzabile del Saggio si presenta in negativo: non il possesso di facoltà o la pratica di virtù, ma la disponibilità, cioè il fare vuoto in se stessi per mantenersi aperti, “insapore”, così da restare in sintonia con il processo in corso, con le possibilità che la via, il tao, offre. In Cina, il pensiero della disponibilità ha fatto dello svuotamento della mente la condizione stessa della conoscenza, senza bisogno di ricorrere al dubbio per eliminare idola: il “conoscere” cinese non è tanto farsi un’idea di, quanto rendersi disponibile a. L’Europa ha misconosciuto la risorsa della disponibilità proprio perché ha sviluppato, rileva Jullien, un pensiero della libertà. La libertà esige uno strappo che faccia uscire dai vincoli che la situazione impone; grazie al suo potere di negazione (l’hegeliana potenza del negativo), il soggetto promuove l’ideale per rottura dell’ordine del mondo, non per “apertura” ad esso. Se è vero che il contrario della libertà è la servitù, il suo contraddittorio è la disponibilità, che dispiega un rapporto armonioso con l’ordine delle cose, un rapporto non di emancipazione, ma d’integrazione. Invece di staccarci dal processo in corso per rendercene indipendenti, tale disponibilità ci mette in fase con esso; nel mondo non siamo gettati, come voleva Heidegger, pagando un debito impensato con la tradizione ebraico-cristiana, ma siamo accolti, ad esso ci affidiamo fin dall’origine. La Cina ignora il senso del tragico, come pure l’esigenza di redenzione o di salvezza, non si pone la nostra ossessiva domanda sul Senso dell’esistere. Ma, ignorando l’invenzione occidentale della libertà, la Cina non ha conosciuto il filosofo o l’intellettuale che, per definizione, è “colui che pensa diversamente” ed oppone la resistenza del pensiero alla logica del potere. La modernità ha creduto di aver finalmente conquistato la “terra della verità” (Hegel) nel momento in cui ha trovato il suo fondamento nell’Io, nella certezza indubitabile del Soggetto che pensa se stesso prima di pensare un mondo ridotto a Oggetto della sua indagine. È su questo sfondo che l’Occidente ha potuto inventare la libertà come autonomia, capacità di dare leggi a se stessi, prendendo distanza dalle leggi della natura; il soggetto morale, attesta Kant, impone a se stesso regole, universali e necessarie come quelle che reggono la natura. La saggezza cinese non impone norme, chiede invece di stare in sintonia con la regolazione che scandisce dall’interno il processo del mondo, di adeguare ad esso il “corso della condotta”, a seconda del momento, ogni volta singolare e diverso.

 

Ph Josef Hoflehner.

 

Proprio per aver privilegiato la Volontà libera del Soggetto che si esprime in Azione, alla filosofia sono sfuggite quelle piccole trasformazioni che non fanno evento, non assumono rilievo e passano silenziose. Abituati a pensare la vita (e non il vivere) come il segmento fra i due estremi del nascere e del morire, fatichiamo a cogliere l’invecchiare (al più ne facciamo un ente, uno stato, la vecchiaia appunto), perché è tutto in noi che invecchia senza sosta; eppure, vivere significa invecchiare, diceva Bergson, uno dei pochi ad aver cercato di uscire dall’ontologia verso una logica fluida e processuale. Analogamente, siamo in difficoltà a comprendere una separazione amorosa: percepiamo l’evento che fa scalpore, il fragore di una lite, ma restano inavvertiti i primi silenzi, i quasi niente di minime divergenze che, scavando sordamente il loro letto, sfociano poi in estraneità e indifferenza. Il pensiero cinese è attento a distinguere l’inclinazione che dal minimo, dal locale, porta gradualmente al globale, e dall’infimo porta all’infinito; ci insegna a individuare gli indizi di una trasformazione, prima che giunga ad affioramento, quando il fenomeno esce appena dall’impercettibilità, allo stadio del “sottile”. Non si vede la spiga crescere; poi, un mattino, ci si accorge all’improvviso che è matura e pronta per essere tagliata. Sono proprio le trasformazioni silenziose a essere efficaci, ben più delle azioni eclatanti, che fanno sensazione e producono audience, ma che, dipendenti dal progetto del soggetto, si prestano alla rappresentazione teatrale e allo spettacolo. Che cos’è una “cura” in psicoanalisi se non appunto una trasformazione silenziosa che si fa strada lenta, fino a rendere di nuovo percorribile la vita psichica, a provocare uno sblocco che consente di riprendere la via? 

 

La scelta greca ancorata nell’ontologia porta ad attribuire l’essere a quanto è determinato, definito da bordi che lo proteggono dall’inconsistenza dell’illimitato, dell’apeiron (quello di Anassimandro, che il Platone del Filebo condanna). Lo specifico del filosofare greco è assegnare: conferire a ogni cosa il suo specifico “in sé”, la “proprietà” che attribuisce identità e consistenza. Ma se usciamo dal pensiero dell’Essere, con il conforto del pensiero cinese, soprattutto taoista, l’attenzione non si fissa più sull’“ente”, ma sull’evanescente. Il Tao, fondo indifferenziato delle cose, non rientra nel registro dell’essenza-presenza, è troppo tenue perché lo si possa definire: mantenendosi nella fecondità del virtuale, del possibile in attesa di attuazione, il Tao resta al limite del sensibile, allo stadio dell’appena percepibile. Nulla meglio del vento lo rappresenta: imponderabile e inconsistente, e per questo tanto più animante, il “vento” si propaga in modo insinuante e diffuso; il suo registro si apparenta a quello dell’“aria” (di un volto) o dell’“atmosfera” (di un luogo, di un’epoca), di tutto ciò che diremmo evasivo. Il vento è la modalità propagatrice per eccellenza, la corrente che attraversa da parte a parte e si diffonde; è quanto accade quando si spande, silenziosa e inavvertita, l’influenza che si esercita fra individui. Proprio perché il suo tratto specifico è di essere insinuante e sfuggente, l’influenza è difficile da fronteggiare: sfugge alla distinzione fra attivo e passivo, è dell’ordine della “pregnanza”, non della presenza, è qui ma senza essere propriamente. 

 

A differenza dell’azione, localizzabile nel tempo e nello spazio, espressione dell’autonomia e del volere del soggetto, l’influenza abita un confine indistinto, resta fluida e vaga. La sua diffusione non segue la via diretta ma quella obliqua; di nuovo, il modello è l’arte militare che in Cina predica di evitare lo scontro frontale, quello che in Grecia aveva il suo emblema nel duello tra le falangi. Quest’ultima ha pensato in modo analogo anche il confronto fra gli uomini, nei tribunali o nelle assemblee della polis; dal faccia a faccia del dialogo, hanno cominciato a dire i sofisti, dallo scontro di argomenti contrapposti, l’uditorio è chiamato a decidere per il sì o per il no. La mediazione del discorso, dell’arte oratoria ignota alla Cina antica, ha lo scopo di persuadere (i Greci ne hanno fatto una divinità, Peithò), magari di con-vincere, vincere insieme nella scoperta della verità; la forza delle ragioni messe in campo è l’unica alternativa al ricorso alla violenza, al potere del più forte. La Cina, non avendo attribuito rilevanza al dialogo, neppure ha conosciuto una delle condizioni che rendono possibile la democrazia. Non avendo scorto nella Volontà quella forza con cui il soggetto si determina, senza che nulla dall’esterno lo costringa, neppure ha rintracciato nella Volontà popolare il sostegno della convivenza civile. 

 

Il pensiero cinese è stato invece attento ad altri fenomeni che, al pari dell’influenza, non rientrano né fra le facoltà del conoscere, né fra le virtù dell’“azione”, entrambe attributi di un io-soggetto. La fiducia, ad esempio, non si conquista mediante volontà o intelligenza, dipende solo in parte da noi, sfugge alla nostra presa. Più che il soggetto, riguarda la situazione implicata; più che all’azione, attiene allo svolgimento di un processo, non riguarda l’individuo ma la relazione annodata, il “tra” che si stende fra gli uomini. La fiducia rientra nell’implicito, cammina in penombra, una volta instauratasi accade da sé, per propensione, non è pianificabile; c’è bisogno del ritiro, di zone di discrezione e di silenzio, per concludere affari come per annodare relazioni feconde. La trasparenza di chi vuol dire ciò che pensa, solo la verità e nient’altro che la verità, suona indecente alla cultura cinese: compromette infatti la regolazione sociale, limita l’efficacia per condizionamento. La Cina non ha sviluppato un’arte del dialogo, una dialettica in cui gli opposti si affrontano, nel duello in cui si misurano argomenti; la parola è tanto più efficace quanto più procede in modo obliquo, si dissemina per deviazioni continuate, di sbieco. Come nello Zhuangzi, il maggiore dei testi taoisti, la parola si mantiene disponibile, non cerca di dire ma di lasciar passare.

 

È ancora l’immagine del vento a soccorrerci, e “Vento(i)” è anche la più antica rubrica poetica della Cina: una bella poesia non fa parola del sentimento provato ma lo evoca obliquamente per lasciarlo trasparire, ne diffonde l’influenza. Tutto, in essa, è allusivo: della donna abbandonata (o del funzionario esiliato) non si “dice” la malinconia, si dice che davanti alla sua porta è cresciuta l’erba (poiché nessuno viene più a trovarla), o che la sua cintura è diventata larga (non ha più voglia di mangiare). In pittura, il pennello del letterato evita di tracciare l’architettura del tempio: dipingerlo come oggetto significa perdere l’atmosfera che ne emana. L’artista esegue lo schizzo dei “monti” e delle “acque” – le tensioni che animano il paesaggio – e lascia intravedere la figura di un monaco, nell’ombra di una valle boscosa, mentre taglia la legna, indizio del tempio nelle vicinanze. Il linguaggio pittorico cinese è essenzialmente correlante: un tratto ne richiama un altro per opposizione-compensazione, il “pieno” chiama il “vuoto”, il “denso” chiama il “rado”; e quando si dipinge la montagna si dipinge anche l’“acqua”, per dare consistenza al paesaggio. Come il pittore, il pensatore cinese evidenzia l’ordine interno alla realtà, la coerenza che fa “tenere insieme” gli opposti. La “ragione” cinese (il termine li) non equivale al logos di Aristotele, non implica la costruzione di argomentazioni, né a quello di Platone, non edifica un ordine ideale a cui far corrispondere un mondo recalcitrante. La grafia del termine li allude alla venatura della giada di cui il tagliatore di pietre segue la conformazione con lo scalpello: “Per quanto dura sia la giada, basta trovare la ragione dei suoi strati per riuscire a scolpirne un pezzo senza difficoltà: questo si chiama ragionare”. La nervatura o la fibra interna alla materia, come la venatura della pietra, la grana della foglia o della pelle costituiscono la ragione immanente che organizza gli esseri; queste linee di separazione sono altrettante linee di forza entro le quali scorre il flusso/energia che percorre l’universo. 

 

Ph Josef Hoflehner.

 

Il soggetto non è considerato nella sua auto-sufficienza, non è l’Io penso cartesiano o kantiano che pone il mondo come oggetto contrapposto, gettato davanti a sé (“ob”- “iectum”, gegenstand). L’io è da sempre in rapporto all’altro ed è sempre immerso in una situazione, in un campo tensionale, dice Jullien, facendo ricorso al lessico di una fisica del continuo. Al soggetto della conoscenza o della morale, che isola una “natura” da indagare “oggettivamente”, mediante astrazioni e modelli ideali, la Cina replica ponendo in primo piano la connivenza: connivere dice il latino, cioè intendersi “con un cenno degli occhi”. Invece di porre a distanza e di costruire nel pensiero, si presta attenzione all’intesa, che si tesse giorno per giorno e senza neanche pensarci, che trattiene nell’aderenza, nell’attaccamento al mondo o, meglio, al paesaggio. Se il sapere mi aiuta a conoscere un paese, osservandolo a distanza, la connivenza sorge quando il rapporto che intrattengo con il mondo si converte in intesa e comunicazione tacita: e si può “vivere di paesaggio”, suggerisce il titolo di un recente libro di Jullien. È quanto hanno espresso i pittori-letterati cinesi cercando di cogliere la dimensione di spirito che emana dalla fisicità delle cose; qui “spirito” non rimanda all’apertura mistica verso un altro piano della realtà, ma alla decantazione, come quando si parla dello spirito del vino o di un profumo: il paesaggio si affranca dalla limitazione del sensibile ed evade, esalando un’aura, dalla sua forma tangibile. 

 

La nostra lingua-pensiero, che rende rigide le differenze (come ben sapeva Hegel), è attenta a eliminare l’equivoco, cioè la confusione di aspetti che andrebbero invece distinti, ma fatica a cogliere l’ambiguo, le situazioni in cui non si è ancora aperta la frontiera fra gli opposti. L’amore è equivoco: esprime sia l’eros greco, esperienza di aspirazione e di conquista, sorta dal desiderio che vorrebbe appagare la mancanza, sia l’agape cristiana, il dono di sé che non nasce da un vuoto, ma dall’effusione di una pienezza. Il termine “amore” mantiene un qui pro quo fra i due, ed è per questo che l’Occidente ha potuto fare dell’Amore un mito, elevarlo ad assoluto, per poi ridurlo al tema banale e ciarliero che conosciamo. Ma quando cerco di esprimere la condizione affettiva suscitata dal paesaggio, sorta dall’implicazione originaria nel mondo, torno al di qua della separazione tra gioia o tristezza, le due cose restano sottilmente intrecciate. L’ambiguo è ciò che non si lascia dividere, è il tra della loro non-separazione: il tra non ha alcun “in sé”, non ha non ha essenza né proprietà: sfugge evasivamente alla presa dell’ontologia. 

 

La filosofia ha trascurato a lungo il tra evasivo della transizione continua, quella che dà consistenza al vivere. E così si è affidata all’“al di là” (il meta della meta-fisica), alla “vera vita”, dice Platone nel Teeteto, questa sì dotata di piena realtà, affrancata dall’ambiguità del divenire. Jullien ritrova qui un’osservazione di Michel Serres, sono le preposizioni a costruire nel pensiero: al contro, all’ob da cui deriviamo oggetto e ostacolo, al sub del soggetto-sostanza, ecco sostituirsi il tra, il per. Non a caso, anche il pensiero serresiano si rivolge a quanto la filosofia ha tralasciato, il molteplice, il complesso, l’informe fluido e flou, e lo affidandosi alle sfumature della topologia, per leggere nelle varietà del paesaggio il modello della realtà intera. La virtù del “tra” e dell’“attraverso”, rileva Jullien, consiste nel non rimandare ad altro, come fa l’al di là, nel mantenersi disponibile, evasivo, per lasciar passare. Così, la prerogativa del paesaggio è di aprire un tra fra gli elementi che non sono più solo componenti, ma sono diventati correlanti; è tra i vettori “montagne-acque”, così i cinesi chiamano paesaggio, che si distende la dimensione di spirito, tra l’Alto della montagna e il Basso dell’acqua, tra la stabilità dell’una e il fluire dell’altra, tra la forma compatta e la trasparenza informe. E il paesaggio diventa emblema di un’arte del vivere: non più oggetto da osservare a distanza, ma “mondo” in cui evolvere, sviluppando l’intimità di una relazione. Anche l’intimo nel rapporto tra soggetti consente di evitare la logica oppositiva, quella dell’Amore che sprofonda nel possesso dell’Altro o nel baratro del desiderio che, soddisfatto, diventa delusione. L’intimo non smette di rinnovarsi nel corso dei giorni, e si mantiene come un fondo che non ha fondo, come quei “niente” di una parola che non cerca più di “dire” ma si affida al silenzio per lasciar passare.

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