La rivolta dei coatti / Il mondo di chi ammira Trump

12 Ottobre 2016

Si dice: in Donald Trump, sia come personalità che come posizioni politiche, non c’è nulla di nuovo rispetto ai suoi omologhi europei – Nigel Farage, Marine Le Pen, Salvini e Grillo, Afd in Germania, Geert Wilders nei Paesi Bassi, ecc. Non a caso molti ne fanno un emulo di Silvio Berlusconi, segno che l’Italia politicamente fa scuola. In effetti Trump, come gli omologhi di cui sopra, sta dando un contributo americano a rompere un blocco storico, il quale ha retto sin da quando c’è il suffragio universale: il blocco conservatore

Un blocco non immediatamente comprensibile. È difficile capire che cosa accomuni la povera pensionata devota alla sua chiesetta da una parte e “il lupo di Wall Street” alla Scorsese dall’altra, il ricco puttaniere corrotto da una parte e l’eminenza ecclesiastica dall’altra, da noi il disoccupato del Sud da una parte e l’imprenditore milionario del Nord dall’altra, ecc. ecc. Che cosa li accomuna per votare lo stesso partito di destra? Qualche studioso ha provato a dare una risposta, ma non la valuteremo qui. Comunque questo blocco esiste.

Da decenni si ripete che una democrazia matura, sana, presentabile, si basa sull’alternanza: per certi anni governa la sinistra, per altri anni governa la destra, e così all’infinito. È la monotonia rotatoria tra la zuppa e il pan bagnato. In questi ultimi anni però questo schematismo sta saltando, a opera di quelli che vengono chiamati “populisti”. Quando chiedo a qualcuno che cosa veramente intenda per populismo, ottengo sempre risposte confuse. Per cui bandisco il termine populista e parlerò di “identitari incazzati” (e non “arrabbiati”, perché uso il loro linguaggio) dato che la rabbia è parte integrante dell’identità degli identitari. Qualcuno dice che alla classica opposizione sinistra versus destra si sta sostituendo o sovrapponendo un’altra opposizione: globalizzazione versus identitarismo. Di fatto, l’identitarismo sta minando il blocco conservatore (ma la sinistra non se ne avvantaggia, anche perché buona parte del suo elettorato ormai vota per gli identitari, come vedremo).

 

In effetti, sia la sinistra che la destra detta moderata, diciamo rispettabile (Sarkozy, Cameron, Merkel, Rajoy, i Bush, ecc.), hanno qualcosa di fondamentalmente comune: l’apertura. Sia la sinistra che la destra sono europeiste e fondamentalmente per il mercato comune. La destra classica, non meno della sinistra, è fortemente opposta a ogni isolazionismo identitario. La sinistra marxista attacca il mercato universale, ma per sostituirvi una visione altrettanto cosmopolitica; non a caso esalta l’immigrazione come libera circolazione non di capitali ma di esseri umani. Da una parte “proletari di tutto il mondo unitevi”, dall’altra “capitali di tutto il mondo circolate”. Anche se la destra conservatrice si imbelletta con temi e slogan nazionalisti, di fatto essa, in quanto liberista, non può essere veramente nazionalista. I lupi di Wall Street sono per il NAFTA e il TTIP, la City di Londra era per la permanenza dell’UK in Europa. Per questa ragione gli identitari – anche quando hanno una matrice di destra, come il Front National francese, o Viktor Orbán in Ungheria, o Trump – si oppongono sia alla sinistra che alla destra “rispettabile”.

Non stupisce perciò che il clan Bush appoggi Hillary Clinton. Il partito repubblicano aveva contrapposto a Trump una serie di candidati “decenti”, che lui ha sbaragliato. I Bush rappresentano l’apparato repubblicano che detesta Trump.

 

Chi sono i tifosi di Trump?

Gli esperti dicono che essi si caratterizzano per quattro tratti prevalenti:

  • Non hanno avuto un’istruzione universitaria. Insomma, in media hanno un livello di istruzione inferiore alla media.
  • Pensano di non avere alcuna voce in politica, di non essere ascoltati.
  • Vogliono creare una guerra intestina contro gli “outsiders”, ovvero gli immigrati, ma anche contro certe minoranze etniche, in particolare ispaniche e islamiche.
  • Vivono in zone del paese con un forte risentimento razziale, come nel Sud Est degli Stati Uniti, soprattutto nei confronti degli afro-americani.

In effetti tutti i grafici che ho visto sono convergenti: il voto per Trump è tipico delle persone con poca istruzione, di mezza età (50 anni età ideale), bianche, e tendenzialmente povere. A parte i “bianchi”, si ritrova per Trump quello che era l’elettorato tipico di sinistra anche americano. 

La galassia umana che vota Trump non è molto diversa da quella dei britannici che hanno votato per il leave al referendum; anche in questo caso, il voto anti-europeo si è concentrato tra i più anziani, i meno colti, i più poveri, gli abitanti nei piccoli centri e nelle campagne. 

Lo zoccolo duro di Trump sono i rednecks? Letteralmente, colli rossi. Sono uomini e donne bianchi degli Stati del Sud che vivono in piccoli centri, poco scolarizzati, semi-proletari, imbevuti di pregiudizi contro neri e omosessuali. Il redneck è attaccabrighe, arrogante, egocentrico e fanfarone. Credo che il concetto italiano che gli si avvicini di più sia il romanesco coatto. Non che tutto l’elettorato di Trump sia fatto di rednecks, ma ho la sensazione che ne siano i più rappresentativi. 

Alcune ricerche (Università di Chicago e Università del Minnesota) hanno mostrato che i supporter di Trump sono “personalità autoritarie” – come si dice in psicologia sociale americana – non più di quanto non lo siano i supporter degli altri candidati repubblicani; ma più di tutti gli altri si caratterizzano per una forte identità nazionalista, e per la sfiducia nei confronti di esperti, intellettuali e di chiunque venga percepito come élite. 

Insomma, Trump capeggia la rivolta di una massa poco colta e per lo più povera che detesta il glamour, il brillio di chi secondo loro domina il mondo: politici, intellettuali, persone intelligenti, che Hillary Clinton sembra incarnare. L’odio per Clinton non è solo, né essenzialmente, l’odio per una persona: è l’odio per un simbolo universale. Odio per la donna brillante che non si piega all’uso di slogan grossolani. Clinton incarna quella cultura globalizzata che tutti i colli rossi d’Occidente detestano, perché loro non vogliono appartenere al mondo che queste élite, poco a poco, stanno edificando. 

 

 

La lamentela degli elettori di Trump di non avere voce in capitolo è particolarmente interessante. Nessuno di noi, a parte i potenti e i grandi opinion leaders, ha voce in capitolo. Ma ciascuno di noi si trova dei portavoce. Leggiamo con entusiasmo i nostri beniamini, e sentiamo che non siamo soli, perché grandi firme dicono più o meno quello che pensiamo noi. Com’è che queste masse hanno dovuto aspettare una sagoma come Trump per trovare il loro portavoce? La ragione, credo, è che queste suddette masse pensano qualcosa di inaccettabile, di politicamente delinquenziale, ed è difficile quindi trovare qualcuno che osi farsene corifeo. I trumpisti sfidano la political correctness. E per political correctness si intende tutti i valori fondamentali dell’Occidente democratico.

Ad esempio, sia in America che in Italia incontro persone che mi dicono che la soluzione politica giusta ai conflitti islamici e nel Medio Oriente è di sterminare tutti gli arabi, uomini donne e bambini. Non lo dicono come battuta o esclamazione, ma come progetto politico del tutto fattibile. Spesso scopri che il tuo vicino di casa, quella brava persona che ti sorride sul portone, cova idee naziste, o di genocidio, o di discriminazione razziale. Ora, quale politico, in America o altrove, potrebbe farsi sponsor di idee così esorbitanti? Certo alcuni, senza farsi promotori espliciti di progetti sanguinari o ripugnanti, “fanno l’occhiolino”. Una delle grandi arti politiche è fare l’occhiolino. 

 

Per esempio, l’MSI era un partito fascista, ma i dirigenti non potevano dirlo, anche perché il partito fascista è proibito dalla legge. Dovevano fare discorsi “moderati”, ma ai loro militanti ed elettori “facevano l’occhiolino”. I militanti magari alzavano il braccio del saluto romano o gridavano “Viva il Duce”, loro invece non facevano niente, sorridevano. Facevano l'occhiolino. 

Questo vale anche oggi. I leader della Lega, ad esempio, non possono dire “aboliamo la libertà di culto per gli islamici, cacciamoli tutti dall’Italia”, perché viviamo in un contesto etico-filosofico in cui questo non è ammissibile; ma dicono e fanno una serie di gesti per cui significano ai loro fan “Avete ragione, l’Islam andrebbe proibito. Anche se non posso dirlo.” 

Ad esempio, vari partiti sono contro le unioni civili tra gay. Ma questi partiti sono votati da persone che pensano e dicono al bar cose del tipo “Gli omosessuali maschi bisognerebbe castrarli”, “Le lesbiche sono delle perverse a cui asportare le ovaie”, e simili. Alfano o Salvini non possono usare pubblicamente questo linguaggio, ma lasciano intendere che la pensano così.

Di rado si vota per un programma, si vota per gente “che mi assomiglia, che la pensa come me”.

Quindi, i supporter di Trump non si sentono ascoltati perché nel fondo esprimono qualcosa che la cultura occidentale dominante non può accettare.

Molte delle gaffe di Trump sembrano studiate apposta per conquistare queste masse “scorrette”. Si prendano le note misogine. Trump sa bene che ormai l’elettorato femminile è prevalentemente democratico – alle elezioni del 2012 il 55% delle donne votò Obama contro il 45% che votò Romney; quasi la percentuale inversa per gli uomini. Rincorrere il favore femminile sarebbe inutile: tanto vale invece dar voce all’elettorato maschile, con battute maschiliste. 

 

In questi ultimi decenni si sono prodotte delle mutazioni importanti del costume e della mentalità: l’emancipazione delle donne e la spinta verso l’eguaglianza totale tra i sessi; l’accettazione dell’omosessualità e il suo riconoscimento giuridico; la sensibilità sempre maggiore per il “verde”, nel cibo come nel paesaggio. Ora, questi vasti movimenti tellurici sono partiti da élite culturali, che poco a poco – attraverso media, cinema, romanzi, musica, ecc. – hanno finito con il convincere la massa. Ma non tutti. 

Tutte le grandi rivoluzioni culturali nella storia sono partite da élite per lo più istruite; queste rivoluzioni col tempo si impongono ai popoli, ma questi possono resistervi per secoli. Quando con Costantino l’impero romano svoltò verso il cristianesimo, solo il 10% degli abitanti dell’impero erano cristiani, e questa minoranza era mal sopportata dalla maggioranza pagana. Ci vollero secoli per cristianizzare le masse, soprattutto quelle rurali. Esempi simili si potrebbero moltiplicare. Alla fine le idee provenienti dalle élite si affermano solo dopo lunghe lotte e resistenze. Certi demagoghi si fanno carico di dar voce a queste resistenze; ed è proprio quello che fa Trump. I muri che questi demagoghi, in varie parti del mondo, vogliono costruire per fermare “le orde” degli immigrati, sono metaforicamente il modo in cui queste masse sognano di lasciare la storia fuori dal loro territorio; pensano al loro paese e alla loro forma di vita come a una fortezza contro la furia del tempo.

 

Così, dietro l’attacco all’establishment politico nel suo insieme si annida un attacco più profondo: il rigetto dell’intellettuale come tale. Sono proprio gli intellettuali di ogni tipo – e alcuni politici lo sono – ciò che l’identitario detesta: quelli che hanno imposto a tutti, loro inclusi, un’emancipazione delle donne “che le ha rese tutte puttane”, un rispetto “per i froci” che invece vorrebbero mettere alla berlina, un rispetto della natura “da snob” (nel film di Verdone Gallo Cedrone, il protagonista si candida a sindaco di Roma proponendo la cementificazione del Tevere per farne un’autostrada). La marginalità di questi elettori non è solo economica e geografica, è una marginalità direi filosofica: sentono la propria società sempre più permeata da principi che non sono i propri. La globalizzazione esige un aumento del livello di educazione della popolazione; ma è proprio questo livello quello che manca loro. Sentono che andiamo verso un mondo dove la scuola conterà sempre di più, e dove quelli che escono dall’Università di fatto guideranno il mondo. L’etica di fondo è decisa dalle élite colte. 

Assistiamo così allo sfaldarsi della distribuzione classica del voto tipica dell’Occidente, durata oltre un secolo, dove i ceti più poveri tendevano a votare per la sinistra, e i privilegiati per la destra. È il crollo della griglia marxista per interpretare il voto. 

Cosa ha portato i ceti meno favoriti all’identitarismo incazzato? Ho cercato di spiegarlo altrove (“Brexit. Il focolare dei poveri”). Detto in breve: il tesoro dei proletari non è più la prole, ma l’identità. Ovvero il quartiere o il paesino in cui si vive, il dialetto in cui si parla, gli amici e i vicini, i colleghi con cui si lavora gomito a gomito… La cultura invece è per sua natura globalizzante, ha vocazione internazionale, è delocalizzante. Al proletario questa dimensione internazionale è sbarrata; e dell’Internazionale proletaria non sa che farsene, dato che in essa si parlerebbe inglese, e lui di solito non parla inglese (in America si parla inglese, ma il loro inglese non è “corretto”).  È come se gli identitari incazzati in tutto l’Occidente dicessero: “ È vero, sono ignorante e vivo in un mondo ristretto, mediocre. Ma me ne vanto.”

 

Trump ha ripescato anche temi classici della destra americana: il taglio delle tasse e la difesa del Secondo Emendamento, quello che dà a chiunque il diritto di portare armi. 

Il diritto di chiunque a portare armi a noi europei sembra assurdo perché non capiamo veramente l’America. È che gli USA, a differenza degli stati europei, nati su base etnica più o meno omogenea, sono nati come paese coloniale, formato da immigrati e pionieri. Dopo ore di conversazioni con Vernon, ho capito il fondo di questa idea. Vernon è un veterano di Pearl Harbour dove fu affondato, e si è fatta tutta la guerra del Pacifico. Dopo è stato sempre più o meno povero, e sempre Conservative Republican. Mi diceva: “ È essenziale che ogni americano sia armato. Ammetti che tedeschi o giapponesi arrivino qui per dettar legge: allora ogni americano sparerà”. Si può sorridere di fronte ad argomenti del genere, ma questa immagine è quella vincente in America: il popolo in armi è un popolo libero. Dopo tutto, è quello che pensava Lenin: i Soviet dovevano essere armati. Diceva: “Il diritto è il proletariato in armi”. Per Lenin doveva armarsi solo il proletariato, per la destra americana tutti devono essere armati. È l’immagine di una Repubblica libera perché gli individui sono liberi, cioè armati. Non basta la difesa da parte dello stato. Nel fondo ogni americano conservatore è anarchico, gli sta stretta la tutela dello stato. Così, mentre in Europa anarchismo si associa a una forma di estrema sinistra, in America si associa di solito a una forma di estrema destra. 

 

 

Devo dire che, girando per l’Arizona e il Colorado, sono rimasto impressionato dal fatto che per lo più non ci sia nessuna inferriata alle finestre e non ci sia chiave alla porta. Chiunque potrebbe entrare in casa. Quando chiesi a una signora che viveva sola senza chiavi e griglie se non avesse paura di essere derubata, in tutta risposta mi mostrò il fucile che lei aveva in casa… Pensai allora che qualche ragione i sostenitori delle armi facili la avessero, che veramente in quegli stati la dissuasione del crimine funzionava. Poi, col tempo, ho capito. Il sogno segreto di questi sostenitori del Secondo Emendamento è di usarle, prima o poi, queste armi. Se lascio la porta aperta, questo potrebbe essere esca per il poveraccio che ha bisogno di mangiare; e la legge dice che posso sparare e uccidere se una persona mi entra in casa. Dico di armarmi per prevenzione, ma faccio in modo che poi debba usare davvero queste armi. Un liberal mette le inferriate e chiude la porta; il conservatore lascia la porta aperta e libere le finestre. 

 

Trump non è amato dai conservatori religiosi, che puntavano piuttosto su Ted Cruz. Un conservatore religioso in America ha due priorità: è pro-life (ovvero contro l’aborto legalizzato) ed è filo-isrealiano; e Trump non dà molte rassicurazioni su questi punti. Appare evidente inoltre che della religione non gliene importi granché. Trump – come Farage, Orbán, Salvini, Le Pen, ecc. – non esprime una reazione di matrice religiosa. Sarà allora decisivo quanti del Bible Belt non andranno a votarlo. 

 È vero che gli identitari incazzati si dicono anche difensori della religione, ma nel fondo non sono veramente religiosi. La religione cristiana è ecumenica, cosmopolita, interrazziale, e loro non lo sono affatto. Perciò Le Pen o Salvini o Trump si sentono più forti di papa Francesco. Perché esprimono l’opinione anche di tanti cattolici che vorrebbero ributtare a mare i rifugiati che approdano da noi, mentre il papa vorrebbe accoglierli a braccia aperte. Il punto è che nella visione identitaria l’essere cristiani non è credere profondamente in articoli di fede né rispettare le gerarchie ecclesiastiche: essere cristiano è come mangiare i piatti tipici locali o bere il vino DOC regionale, come parlare il dialetto o il vernacolo della zona, o cantare i cori folkloristici in costume. Si è cattolici o protestanti come lo erano i genitori e i nonni, ma il contenuto cattolico o protestante è svuotato. Conta l’appartenere, non l’agire secondo principi.

 

Il fatto politico più rilevante di questi anni, in quasi tutto l’Occidente, è che la sinistra – non importa se moderata o radicale – sta perdendo l’elettorato che da oltre un secolo la caratterizzava: il voto operaio e delle classi più sfavorite. Questo voto si orienta sempre più verso gli identitari incazzati. 

Quando si fa notare questo, tanti amici di sinistra ripetono per lo più sempre lo stesso argomento. Secondo loro, i poveri e i marginali votano per partiti “identitari” perché delusi dalle politiche dei governi di sinistra europei e americani. Insomma, l’operaio italiano voterebbe 5 Stelle o Lega perché deluso da Renzi, l’operaio francese voterebbe Le Pen perché deluso da Hollande, quello americano voterebbe Trump perché deluso da Obama, e così via. Ma la tesi non regge. Certo in alcuni paesi – in Spagna con Podemos, in Grecia con Syriza – la sinistra di opposizione ha ottenuto un notevole successo. Ma Spagna e Grecia restano casi alquanto isolati. In quasi tutti gli altri paesi, la delusione nei confronti dei partiti di sinistra al governo ha portato piuttosto suffragi ai partiti identitari o di estrema destra. Tutti i sondaggi dicono che SEL, ad esempio, non si avvantaggia affatto di un certo declino del PD. In America c’è stato il fenomeno Bernie Sanders, ma pare che i suoi sostenitori non fossero affatto proletari. La verità è che l’elettorato classico della sinistra – i più poveri, i meno istruiti, i meno cosmopolitici – vota per Trump, non per Clinton e tanto meno per Sanders. Questo è il punto fondamentale di cui la sinistra classica, eterna, di pietra, dovrebbe prendere atto.

 

In effetti per questo elettorato identitario incazzato Vendola e Renzi, Hollande e Mélenchon (presidente del Fronte della sinistra francese, d’opposizione), Sigmar Gabriel (presidente dell’SPD) e Katja Kipping (leader della Linke tedesca), ecc., sono come la zuppa e il pan bagnato, ancora una volta. Tutte le sinistre condividono un punto che questo elettorato aborrisce: esse sono sostanzialmente pro-europee, pro-euro, pro-immigrazione, insomma pro-globalizzazione. Questo elettorato non chiede più eguaglianza – pilastro di ogni sinistra, moderata o non – ma più chiusura nei confronti del mondo esterno. 

Perché i ceti più marginali sono sempre più insensibili ai temi dell’eguaglianza, in un’epoca in cui le diseguaglianze si ampliano? Per questi ceti marginali il nemico non sono i finanzieri di Wall Street e l’1% della popolazione che possiede gran parte della ricchezza mondiale, ma l’etiope che sbarca a Lampedusa o il povero messicano che riesce a passare in Texas. “Guerra tra poveri” si dice – una frase però che non spiega nulla. 

 

Il punto è che l’eguaglianza, il coefficiente di Gini, ecc., sono dati matematici sofisticati, che appaiono astratti. La gente comune vede certo che alcuni sono poveri e altri molto ricchi, ma l’identitario non stigmatizza la ricchezza, al contrario di quel che ha sempre fatto la sinistra. Perché i poveracci sognano di arricchirsi come Trump o Berlusconi, assunti come modelli. Tutta la rabbia si concentra sulla ricchezza che considerano illegittima, ovvero quella dei politici. Perché secondo questa telenovela, una cosa è arricchirsi con un’impresa – atto considerato ammirevole –

 altra cosa è “rubare”, ovvero impadronirsi di parte del bene pubblico. L’identitario incazzato non è anti-capitalista, è anti-potere-politico e, come abbiamo visto, anti-intellettuali. Non vuole più eguaglianza, vuole che gli venga restituito il maltolto, quello che politici e altri “truffatori” avrebbero sottratto. Questa tesi è l'anticamera di adesione ai dispotismi e ai fascismi: il nemico sono i politici, quindi occorre che un duce – ancor meglio se ricco – faccia fuori i politici “che rubano”. In effetti i politici sono eletti dal popolo, e sono tanto odiati proprio perché sono eletti dal popolo. Quindi, meglio che scelga un duce anziché il popolo. 

Questi ceti sfavoriti sono sensibili non all’eguaglianza, ma alla povertà. I conservatori americani che ho incontrato spesso dicono: “Si parla sempre della povertà dei neri. Ma della povertà dei bianchi nessuno parla.” Come la sinistra, reclamano sostegni ai poveri, ma poveri selezionati su base identitaria: i bianchi, i cristiani, ecc. In effetti, l’aiuto caritatevole ai più poveri è nella tradizione conservatrice. Da sempre i conservatori rimproverano alla sinistra: “Perché parlate di maggiore eguaglianza e non vi concentrate invece sui più poveri?” La lotta a certe povertà è non meno di destra che di sinistra. Ma per gli identitari incazzati i poveri di cui curarsi sono solo “i nostri”.

 

Alla fine di tutto questo si dirà: Trump, e gli identitari dalle varie forme, sono destinati alla sconfitta storica. È evidente che il pianeta, per ragioni tecnologiche ed economiche, va verso la globalizzazione, l’arroccamento identitario è un backlash, un rinculo viscerale senza sbocco. Questo in teoria è vero. Ma la storia non è mai lineare. Molto spesso i processi storici non vanno avanti, ma indietro (la storia sembra andare indietro perché non ha nessuna direzione determinata). Ad esempio, il secolo di guerre di religione, nel '500 e '600, non fu un andare indietro rispetto a un mondo razionalista che andava invece in senso opposto, verso la scienza e l’ateismo? E la rivoluzione iraniana del 1979 non è stata a suo modo un andare all’indietro che dura ormai da circa 40 anni? Non bisogna mai sottovalutare un movimento dicendo “è retrogrado, è composto dai perdenti della storia” – perché la storia spesso viene fatta proprio dai perdenti.

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