“Elle” di Paul Verhoeven / La versione del padre

24 Marzo 2017

Come si sarebbe avvicinato alla storia di Michèle uno di quelli che si vendono nel mercato audiovisivo contemporaneo come “cineasti dell'eccesso”? Che film avrebbe fatto, poniamo, un Gaspar Noé, uno i cui film si attaccano a quell'implacabile determinismo (cfr. Irreversible) che piace tanto ai fasci? Semplice. Una volta individuato il trauma, ovvero il coinvolgimento di Michèle ancora bambina nell'alquanto veterotestamentario crimine del padre (il quale entrò nelle case di una via di Nantes, una a una, per sterminarvi tutti i bambini presenti), Noé avrebbe detto: bene, questa subisce un trauma infantile, quindi da grande ha le fantasie di stupro e, avendo lei due palle così, le mette in pratica.

 

Paul Verhoeven con Isabelle Huppert sul set del film. 

 

Verhoeven, che per conoscere le donne non ha bisogno né di videocamere intravaginali (quelle usate sempre da Noé in Enter the Void) né di altre protuberanze, tutte sostanzialmente irrilevanti, capisce bene che Michèle non è una che si fa stuprare perché ha subito traumi da piccola. Michèle è una che, già in tenerissima età, è stata piazzata dal padre in quello che è il luogo della perversione più tipico possibile: essere, come diceva Lacan, strumento del godimento dell'Altro. In occasione della strage degli innocenti in cui a lui piacque, psicoticamente, sostituirsi a Dio (quell'Altro che più Altro non si può), lei infatti lo aiutò a bruciare gli oggetti delle piccole vittime. Basta questo a far conseguire la volontà di farsi stuprare? Ovviamente no. Il fatto è, piuttosto, che Michèle da lì in poi orienterà tutta la sua esistenza a dimostrare indirettamente al padre ergastolano, ignorandolo senza pietà, che no, lei in quella strage non fu davvero coinvolta. Lei non centra. Dunque niente trauma. 

 

Elle, come la sua protagonista, cerca di neutralizzare il trauma rendendolo onnipresente. Comincia in medias res con uno stupro che lei subisce e da subito, e per tutto il film, minimizza sistematicamente: nell'ottica di una la cui intera vita ruota intorno al rendere onnipresente il trauma in modo da renderlo indifferente, non può esserci spazio per nessuno stato “normale” che qualche trauma dovrebbe venire a perturbare. Non c'è nessuna quiete che preceda la tempesta. E a minimizzare quella violenza è il regista stesso: ogni tanto il malfattore mascherato arriva, stupra Michèle e se ne va, ma in fondo il suo film si concentra su tutt'altro, ovvero sulla fitta rete di rapporti che stringe insieme i personaggi. 

Rendere onnipresente il trauma, per Michèle, significa cercare costantemente quella zona grigia, nella quale piacere e dolore smettono di essere contrapposti, che è il godimento, quel non-so-che perennemente in eccesso, che sta sempre dove non dovrebbe stare, e che nulla come il conflitto riesce a materializzare. Ma Michèle cerca costantemente godimento e conflitto solo per vanificarli, solo per ribadire nei confronti di entrambi una sostanziale indifferenza.

 

La scena più esemplare, in questo senso, è quella in cui Michèle va di propria iniziativa a scovare e a conoscere la nuova compagna dell'ex marito: con una excusatio clamorosamente non petita, va a riappacificarsi per un conflitto che non è mai esistito, e che peraltro nulla sembrava far presagire che dovesse minimamente deflagrare. Per lei, il godimento è al massimo una finzione che sta dentro ai videogiochi, che lei produce con successo: per nulla attaccata ad esso in sé e per sé come invece la madre (la quale infatti, in punto di morte, sembrerà fingere agli occhi della figlia), Michèle si attacca al godimento solo nella misura in cui esso è uno strumento indispensabile per raggiungere il vero fine, che è quello di ostentare una fondamentale indifferenza al godimento.

 

 

Poi, però, il padre muore. E muore, suicidandosi, dal non reggere il pensiero che Michèle stava andando a trovarla – al punto che lei stessa sussurrerà al suo cadavere "sono stata io ad averti ucciso". Fino a quel momento, il padre era indispensabile affinché lei potesse ignorarlo: affinché cioè la sua stessa esistenza potesse essere un continuo "sono io stessa a limitare quel godimento di cui tu, padre che non fu mai un padre, non hai saputo fornire un limite". Ma una volta morto? A chi indirizzare questa rivendicazione? Sparito quel paradossale schermo, ecco che Michèle si imbatte immediatamente nel trauma nudo e crudo: un cervo che di punto in bianco le attraversa la strada, e la fa andare a sbattere. Urge dunque una nuova protezione. Solo allora emerge la fantasia di stupro. Prima che muoia il padre, di farsi stuprare non ne ha nessuna voglia, anzi adotta ogni precauzione possibile, e si innamora del bellimbusto che sembrava difenderla dallo stupratore.

 

Ma non appena viene palesata la coincidenza tra i due, si creano i presupposti affinché, dopo la morte del padre e solo allora possa balenare l'idea che facendosi strumento del godimento dello stupratore, quest'ultimo possa utilmente fungere da strumento a propria volta. Quello che le serve, è infatti qualcuno che la aiuti a mettere in scena la solita mascherata: convocare quella zona grigia tra piacere e dolore che è il godimento, sostanza propria del trauma, solo per esorcizzarlo. E chi potrebbe prestarsi a un ruolo di simile doppiezza, meglio dell'uomo mascherato che si è mostrato al contempo perpetratore della e difensore dalla violenza? Se in superficie Michèle si fa strumento del godimento di lui, più profondamente lo destabilizza, perché godendo dell'esorcismo del godimento stesso, lei si sottrae dal ruolo di vittima in cui lui vorrebbe confinarla. E così lei rende lui uno strumento.

 

Ma se mascherata è, quali sono gli occhi per cui viene messa in scena? Elle è interamente strutturato intorno a questa domanda. Si apre coi rumori dello stupro su schermo nero, seguiti dalla prima immagine: un gatto che osserva il crimine, udibile fuori campo. Da subitissimo dunque ci viene detto che lo stupro in sé conta meno dello sguardo per cui verrà inscenato. Di chi è questo sguardo? Lo si scopre nel climax, non prima di tutta una serie di indizi che hanno sotterraneamente costellato il racconto: la prima volta che lo stupratore viene ferito, è perché Michèle gli fa cadere una culla addosso; più avanti, la violenza consenziente ha luogo in un seminterrato al di sopra del quale dorme, ubriaco, il figlio di Michèle... e infine, una soggettiva in movimento proprio del medesimo figlio (che in qualche modo “riempie” il posto vuoto segnalato già dalla primissima inquadratura dallo sguardo del gatto), che di lì a poco ucciderà lo stupratore.

 

Tutto ciò ci conferma che gli occhi in questione sono proprio quelli di quel ragazzotto incapace di diventare uomo, succube della giovane moglie, e con un bisogno così disperato di presumersi padre che sceglie di credere suo un figlio di un colore della pelle sfacciatamente diverso. Perché il perverso, dice sempre Lacan, si fa strumento del godimento dell'Altro affinché la Legge venga posta in essere: per colmare, cioè, lo scarto tra un'originaria alienazione dal godimento operata da un padre che non arriva ad assumere fino in fondo la funzione paterna, e invece una compiuta separazione da esso, ottenuta arrivando fino al fondo della funzione paterna, che assunta pienamente può finalmente garantire l'accesso regolato al godimento. In poche parole: la consapevolissima Michèle non lo sospetta nemmeno, ma se si fa stuprare è affinché l'inettissimo figlio diventi uomo e assuma fino in fondo la funzione paterna, al punto da non avere nemmeno più bisogno del suo bébé, dimenticato in macchina nel prefinale come fosse un autoradio qualsiasi. Affinché ciò in cui il padre fu tragicamente mancante sia invece assicurato dal figlio.

 

 

Il merito principale di Elle è quello di avere costruito un inconscio a un personaggio totalmente privo di inconscio come Michèle, caso di perversione da manuale. E lo fa, appunto, distribuendo e trovando il modo di evidenziare subdolamente, a lato della narrazione, gli indizi che, come accennato poc'anzi, uno dopo l'altro vanno in direzione del finale intervento risolutivo da parte del figlio. Istillando questo sottotesto, viene creata una sorta di zona grigia della causalità: il film non arriva certo a dire che Michèle si sia di proposito fatta stuprare per istigare l'intervento del figlio, tuttavia, trova il modo di suggerire una sorta di generica plausibilità per quest'ipotesi, ad esempio inquadrando il figlio che dorme mentre la madre si intrattiene con il partner mascherato nel piano di sotto. 

 

Simili libertà con le cause e con gli effetti possono permettersele solo coloro che seguono la scia delle cause e degli effetti fino in fondo, e cioè fino a scoprire l'intrinseca inconsistenza di questa scia, a mille miglia da ogni puerile determinismo: segreto radicalmente inaccessibile ai Gaspar Noé di turno, ma perfettamente chiaro ai pochi superstiti depositari dell'arte del cinema classico. Il sesso, il dolore, il conflitto, l'orrore, perfino un cervello aperto: l'eccesso non manca di certo, ma al contrario dei Gaspar Noé di turno Verhoeven non lo mette su un piedistallo, beandosi della puerile soddisfazione di fornire un duplicato sensibile del corpo, del godimento, del trauma, nella loro tremenda opacità. Piuttosto, dell'eccesso il cineasta olandese se ne sbarazza sempre con lucida e sbrigativa efficienza, la stessa che la regia dispiega in ogni scena prosciugando dialoghi e situazioni fino all'osso, sacrificando ogni cosa sull'altare di un implacabile dinamismo. Perché quello che conta è innanzitutto la densa tessitura dei rapporti tra i personaggi. Il resto conta meno. L'eccesso, il godimento, è una mera illusione prospettica priva di sostanza propria, un'illusione su cui ruota l'intera vita di Michèle, ma che non arriva mai ad avere una consistenza maggiore di quella effimera, appunto, dell'illusione. Ed è per questo che la sdrammatizzazione, l'alleggerimento attraverso la risata, è sempre dietro l'angolo.

 

Verso la fine, Michèle fa in modo che l'ex marito scrittore e il collega Kurt, creatore di videogames attaccato alla mitica “giocabilità”, si trovino e inizino a collaborare. Ciò che accomuna la penna e il joystick, la scrittura e la tecnica, è il reggersi sul godimento fallico, quello che la Legge e il linguaggio rendono possibile regolandolo. Ma è proprio il godimento fallico, e dunque il principio paterno-maschile della Legge, a risultare espulso dal microcosmo solo femminile che viene a formarsi sui titoli di coda, tra la protagonista e la sua amica del cuore. 

Come i veri cineasti classici, Verhoeven ci mostra ciò che la società, senza davvero saperlo, sogna. E quello che sogna è il porsi in essere della Legge, e quindi del godimento fallico, e allo stesso tempo il suo rifiuto. L'affermazione della Legge, Michèle la lascia pur sempre a un altro (il figlio), mentre la esclude dal suo strano nucleo anti-famigliare. To have the cake and eat it too.

 

Una versione leggermente diversa di questo articolo è apparsa su Filmidee #18; ora anche nel volume, a cura di Daniela Persico e Alessandro Stellino, To the Wonder - Gli ultimi visionari, Agenzia X, Milano, 2016.

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