Una parola controtempo / Lavoro

27 Luglio 2016

I volti disillusi che abbiamo avuto di fronte nei colloqui di gruppo e individuali per cercare di capire, attraverso le storie di vita, quali effetti stia producendo la precarietà lavorativa, non si dileguano col tempo. Né sono passeggere le immagini emergenti dai reattivi psicologici che abbiamo proposto a un campione rappresentativo di lavoratori precari. Forse perché quelle immagini si aggiornano senza tregua e quella condizione si estende ormai a più generazioni. Abbiamo scoperto che parlare di aspettative è diventato vietato e che funziona una sorta di autocensura tutte le volte che si tocca un tema che abbia a che fare con la progettualità. Un sentimento di fungibilità, di disposizione incondizionata ad ogni forma di impiego, è diffuso e pervade lo spazio dalla vita individuale a quella di gruppo. Ridotti a se stessi e alla propria solitudine, i giovani lavoratori precari sono una cartina di tornasole di che cos’è il lavoro, di quale significato abbia nella individuazione personale e nella costruzione di una vita.

 

C’è in questo scenario, però, un mondo emergente che non viene quasi mai considerato. Quegli stessi giovani che arrancano lungo gli impervi sentieri della precarietà, non mostrano di essere attratti dalla staticità delle forme tradizionali del lavoro. Cercano di esprimersi nella vita attiva, ma non vogliono farlo nello stesso posto per tutta la vita. Sono esploratori senza mappa in una contemporaneità rarefatta, ma non intendono rinunciare all’esplorazione come criterio permanente della propria esperienza di vita. Sarà perché il lavoro non c’è più nelle forme classiche, stabili e durature; sarà perché l’immaginario e i percorsi di crescita sono cambiati, ma appare evidente che le giovani generazioni non si identificano più, nella maggior parte dei casi, con il lavoro come destino dell’esistenza. Semmai c’è da chiedersi come mai le istituzioni di governo e il sindacato, che partecipano in modo assistenzialistico, quando va bene, del dramma della crisi del lavoro, non siano attenti a cogliere quella generatività intrinseca emergente dalle trasformazioni dell’immaginario e della dimensione simbolica del lavoro in atto ormai da anni. Potrebbe esserci lì la base per una prospettiva, per degli orientamenti e delle scelte in grado di attuare politiche e azioni per far fronte al blocco in atto, che si traduce in esclusione, ingiustizia ed emarginazione di intere parti di generazioni.

 

Se si ascoltasse quel potenziale, si potrebbero limitare le piccole grandi angosce alla base delle tante “false partenze” che gli esponenti di queste generazioni precarie sperimentano. È pieno di storie di false partenze verso mete perlopiù inesistenti il libro di Vitaliano Trevisan, Works, pubblicato da Einaudi Stile Libero. Su un sottofondo di dolore esistenziale si snodano le più svariate esperienze in quel contesto senza trama e socialità, se non per la comune distruzione del paesaggio e della vivibilità, che è il cosiddetto nord est italiano. La paura di tornare indietro è forse uno dei tratti caratteristici del rapporto con il lavoro. I contratti sono tutti a termine o funzionano i voucher come stratagemma per aggirare tasse e contributi. Lo spaesamento e le vite senza progetto fanno l’unica tessitura possibile in questo scenario in cui il lavoro come fonte di senso e significato per le donne e gli uomini appare solo un fantasma. 

 

 

 

O meglio, ad ascoltare bene i sentimenti e le storie di vita, alla parola lavoro si associano, nell’esperienza degli interessati, previsioni di disagi, inganni, trabocchetti, con soluzioni precarie definite spesso in lingua inglese, come fa notare Stefano Massini, in Lavoro, edito da Il Mulino, Bologna 2016. La parola lavoro, dice Massini, oggi è “spesso assaporata con un retrogusto ‘fish and chips’”.

 

La parola “lavoro”, connessa sempre più al sistema decisionale distante e sterminato proprio della globalizzazione, rappresenta qualcosa di distante da noi, e la sentiamo manovrata da entità estranee alla nostra cultura. Il lavoro si deterritorializza e si allontana dalle comunità che detenevano le culture e le competenze per generarlo e praticarlo, divenendo sinonimo di “confusione geografica”, di inafferrabilità dei fattori che lo determinano e generano e prendendo il marchio di “Made in altrove”. L’alienazione connessa al lavoro, paradossalmente è profonda sia dove il lavoro manca che dove ce n’è troppo. I campanelli di allarme per fermarci a pensare restano sistematicamente inascoltati, e non bastano a farci riflettere su quello che sta accadendo al lavoro neppure i tassi di suicidio degli operai in luoghi come la megafabbrica cinese di Shenzhen, dove sono assemblate le schede dei nostri smartphone. In quella fabbrica il tasso dei suicidi è diventato così alto che è stato necessario mettere sbarre alle finestre e circondare i tetti di reti. Il costo della manodopera è sceso al di sotto di ogni immaginazione: se fino a ieri la convenienza era di due dollari di paga giornaliera per un operaio cinese, già oggi i ragazzini operai vietnamiti lavorano per meno.

 

Né pare invidiabile, anche se certamente diversa, la solitudine lavorativa di tutti coloro che cercano di lavorare in proprio come free-lance nei paesi occidentali. Scrive Massini: “Percepita come sinonimo ora di ‘sforzo inutile’, ora di ‘ingiustizia sociale’, ora di ‘mal digerita sottomissione’, ora di ‘confronto impari con la tecnica’, la parola ‘lavoro’ porta su di sé i graffi di un’epoca confusa. Idolatrato dai nostri nonni e castamente amato dai nostri padri, oggi il lavoro ha finito da tempo di essere un luogo di aspettative o di conferme, caricandosi di tutte le possibili inquietudini di una suprema incognita”.  Il disincanto degli adolescenti verso il lavoro sembra pari solo all’attrazione fatale che hanno aspirando a carriere da calciatori o da veline, con relative attese di facili arricchimenti e manie di divenire famosi. Tra i giovani il diritto al lavoro e i diritti sul lavoro sono considerati solo degli accessori e la loro, nella maggior parte dei casi, è una disponibilità a fare di tutto senza alcuna sicurezza e condizione. La regressione civile che tutto ciò comporta non ha bisogno di sottolineature.     

 

 

 

Allo stesso tempo la leggerezza con cui spesso si sente parlare di lavoro e di disoccupazione non è quella di cui parla Italo Calvino nelle Lezioni americane. Si rasenta in molti casi la superficialità mista a rassegnazione sul tema del lavoro, o per vie del tutto ragioneristiche e contabili, o per vie idealistiche e frivole. Basterebbe ascoltare quanto scrive Primo Levi ne La chiave a stella per farsi aiutare a comprendere di cosa stiamo parlando quando parliamo di lavoro. Scrive Levi: 

“Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra; ma questa è una verità che non molti conoscono [...]”.

 

Poi sul rapporto con il prodotto del proprio lavoro, scrive: “Sul piacere di veder crescere la tua creatura, piastra su piastra, bullone dopo bullone, solida, necessaria, simmetrica e adatta allo scopo, e dopo finita la riguardi e pensi che forse vivrà più a lungo di te, e forse servirà a qualcuno che tu non conosci e che non ti conosce. Magari potrai tornare a guardarla da vecchio, e ti sembra bella solo a te, e puoi dire a te stesso ‘forse un altro non ci sarebbe riuscito’”.

E aggiunge: “Io credo proprio che per vivere contenti bisogna per forza avere qualche cosa da fare, ma che non sia troppo facile; oppure qualche cosa da desiderare, ma non un desiderio così per aria, qualche cosa che uno abbia la speranza di arrivarci”. 

 

La questione del lavoro non può essere separata, quindi, dai temi della creatività, cioè della possibilità di esprimere se stessi con attese di riconoscimento per vivere una vita sufficientemente buona; dai temi della giustizia sociale e da quelli dell’uguaglianza delle opportunità. 

 

Per queste e altre ragioni, a proposito dell’inserimento attivo dei giovani nel lavoro e nella società e per quanto riguarda il ricambio generazionale, le questioni sono tali da riporre al centro i temi dell’uguaglianza e del potere. Due tra i temi apparentemente superati e in buona parte rimossi nel tempo dell’individualismo esasperato e delle presunte sorti magnifiche e progressive del liberismo spinto all’estremo. Il fatto è che la questione del ricambio generazionale in posizione di vertice, ma non solo, non può essere consegnata a una disposizione di buona volontà o di attesa di comportamenti eticamente e politicamente corretti. A parte rare circostanze e ancor più rare personalità, non si è mai visto cedere spontaneamente potere e privilegi di grande o piccola portata da parte di chi li detiene. Anzi assistiamo ad una perseveranza sistematica di tenuta delle posizioni anche a fronte di evidenti fallimenti nelle scelte. Senza intervenire sulle regole non si liberano possibilità e la disuguaglianza tra privilegiati ed esclusi cresce. Si pensi solo alla distribuzione dei redditi e del lavoro. Per non parlare delle pensioni che, in molti casi, sono delle vere e proprie posizioni di accumulazione e rendita.

 

Quelle regole esigono un’azione politica e sindacale capace di riconoscere che l’esclusione crea problemi per tutti e non solo per gli esclusi. Un’altra questione riguarda la capacità non solo individuale ma organizzativa di inserire e allevare successori. Vi sono organizzazioni che premiano la capacità di crescere e allevare e regolano la rotazione e il ricambio in modo abbastanza preciso e definito. La generosità e la disponibilità spontanee devono essere guidate e incentivate. È necessario allora chiedersi che cosa si fa per gestire le organizzazioni perché siano luoghi di crescita e non solo di adempimento e di esecuzione. La disuguaglianza e l’esclusione hanno raggiunto livelli tali da creare una società bloccata. Non si tratta di intendere male il valore dell’uguaglianza perseguibile: quello che serve è un principio di giustizia sociale basato sull’obiettivo dell’uguaglianza delle opportunità e sulla differenza dei trattamenti in base ai valori espressi. Il punto di partenza è il riconoscimento del senso e del significato del lavoro. Se il lavoro non è solo il mezzo per guadagnarsi da vivere, allora è possibile accorgersi che il suo valore per noi esseri umani emerge al punto di connessione tra mondo interno e mondo esterno con la mediazione del principio di realtà. A fronte della ridefinizione e riorganizzazione del lavoro, bisognerebbe assumere il riconoscimento di questo valore come condizione per conoscere e intervenire rispetto a quello che insieme all’amore, secondo Freud, è l’esperienza più importante della vita.

 

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