Conversazione con Roberto Latini / Un “Teatro comico” jazzistico

20 Febbraio 2018

Nel Teatro comico di Carlo Goldoni (1750) realizzato al Piccolo Teatro di Milano con la regia di Roberto Latini si incontrano due fra i più importanti spettacoli che il secondo Novecento abbia dedicato all'enigma della Commedia dell'Arte e alla sua inesauribile capacità di dialogare con gli attori, che ne rigenerano le tecniche, e con gli spettatori, che ne riconoscono all'impronta convenzioni e allusioni contraddicendo le storiche soluzioni di continuità delle sue pratiche. Mi riferisco al leggendario Arlecchino servitore di due padroni diretto da Giorgio Strehler al Piccolo (la prima versione è del 1947) e al Ritorno di Scaramouche (1995) di Leo de Berardins. Il ricordo degli attraversamenti goldoniani di Strehler è reso qui palpabile da immagini e citazioni, mentre la lezione attoriale di Leo de Berardinis vive nelle persone degli attori. Elena Bucci, Marco Manchisi e Marco Sgrosso (tutti presenti nel Teatro comico) hanno infatti indossato per la prima volta la maschera durante le prove del Ritorno di Scaramouche, e lo stesso Latini si è formato assimilando il magistero di Leo alla scuola romana di Perla Peragallo. 

 

Questo intreccio fra espressioni d'arte e percorsi d'artista si situa lungo la traiettoria tracciata da un incontro non effettuato fra i due Maestri. Nel 1996 (appena un anno dopo il Ritorno di Scaramouche) Leo de Berardinis, allora direttore del Festival di Santarcangelo, invitò infatti Strehler a partecipare quale ospite d'onore a questa vetrina del teatro di innovazione. Fra i due si svolse una lunga ed entusiasta telefonata, durante la quale vennero affrontate diverse questioni, ma che, nonostante la calda intesa fra gli interlocutori, non approdò a nulla di concreto. L'episodio mi è stato confermato dall’attrice Valentina Capone e dal compianto Paolo Ambrosino, dal 1993 al 2001 organizzatore e insostituibile alter ego pragmatico di Leo de Berardinis. Nel 2008, dietro mia richiesta, Ambrosino mi ha scritto, a proposito della telefonata, una densa lettera della quale riporto le considerazioni conclusive: “Credo che Leo abbia telefonato a Strehler per sentire un suo parere e invitarlo a due giornate dedicate all'argomento [la Legge sul Teatro] all'edizione di Santarcangelo di quell'anno [1996]. […] C'era bisogno di una riunificazione delle arti sceniche, e finché non si riformava la lirica non si potevano fare altre riforme. Solo che questa riforma di un'arte alta ma popolare non poteva essere disgiunta da una riforma generale delle arti dal vivo. Non so se questo fosse un argomento di partenza della famosa telefonata ma di sicuro era una questione vitale per Leo che aveva l'esigenza di ripartire da capo”. (Paolo Ambrosino cit. in Gerardo Guccini, Seguendo la ricerca di Leo de Berardinis intorno all'unicità dell'arte teatrale: l'avvicinamento a Strehler, Mozart e le maschere, in “Atti & Sipari”, n. 8, Aprile 2011, pp. 20-21). 

 

Mi è sembrato utile far precedere il colloquio con Latini da questa nota per comunicare allo spettatore che il Teatro comico ora in scena al Piccolo, oltre che uno spettacolo ritmato dallo svolgimento delle tematiche goldoniane, è anche un echeggiamento della meravigliosa e molteplice storia del teatro italiano. (G. G.)

 

Ph. Masiar Pasquali.


Questo spettacolo è ricchissimo di citazioni e riferimenti. Sulla destra del palcoscenico c'è addirittura un monumentale Arlecchino raffigurato in una posa che ricorda Ferruccio Soleri. Durante le pause della commedia in commedia, questa grande struttura – elemento fondamentale della dinamica scenografia di Mario Rossi – si flette in posizione orizzontale al modo d'una sbarra di passaggio a livello. Nel mentre squilla una campanella, come a dire: “Intervallo! Adesso si sta senza maschera”. Ma numerose sono anche le allusioni ad altri spettacoli di Strehler: le silhouette degli attori, che si muovono sullo sfondo illuminato, riprendono una soluzione registica di Così fan tutte; poi ci sono i voli di Ariel, una tempesta in scena e la voce registrata di Giulia Lazzarini... 

 

Fra i livelli attraverso i quali leggere il nostro incontro con Carlo Goldoni e Il teatro comico c'è soprattutto la storia che l’opera di Goldoni ha avuto al Piccolo Teatro. Alla consapevolezza di ciò che il testo rappresenta nel percorso del suo autore, possiamo aggiungere anche la “coscienza consapevole” scaturita dalle prove. E cioè l'accumulo e la continua selezione di richieste, proposte, idee. Il normale processo creativo che avviene sulla scena, non può infatti prescindere dalla natura speciale del luogo in cui lo spettacolo prende forma e vita. In questo caso: la sede storica del Piccolo, la sala di via Rovello. Il nostro spettacolo domanda l’appuntamento con un pubblico che ha visto e conosce l’Arlecchino servitore di due padroni di Goldoni-Strehler, ma anche altri lavori dello stesso regista, o comunque si è formato attraverso i codici culturali del teatro strehleriano. Sia gli attori che gli spettatori, quando si trovano in questo luogo, ricordano che lì c'era Soleri, lì la Lazzarini prendeva il volo. Allora, lo spettacolo include presenza e immagini con le quali il pubblico farebbe comunque i conti.

 

L'impressione è che tu abbia voluto inscenare un rito di accettazione rivolto al teatro. A “questo” teatro.

Quando io sono stato invitato a presentare un progetto e ho proposto Il teatro comico, la risposta che mi è stata data è “allora lo facciamo al Grassi, perché noi Goldoni lo facciamo al Grassi”. Vuol dire che Goldoni “si fa” al Grassi.

 

Cioè, Goldoni al Grassi si fa da sé.

Esattamente.

 

Però, oltre a Strehler e all'Arlecchino servitore di due padroni, nel passato di questo spettacolo, c'è anche Il ritorno di Scaramouche di Leo de Berardinis. Uno degli spettacoli, che assieme all'Arlecchino strehleriano, ha più contribuito a rinnovare l'attenzione di attori e studiosi intorno alle tecniche dell'improvvisazione comica.

È uno spettacolo fondamentale che ho visto, e in cui recitavano attori che ora sono anche in questo: Elena Bucci, Marco Sgrosso e Marco Manchisi. Il rapporto con il Ritorno di Scaramouche non si è risolto in citazioni, ma nell'averne coscienza: è impossibile sottrarsi alla sua dimensione di scavo e ricerca. Per andare avanti bisogna sapere guardare indietro, non dico andare indietro, ma sapere perfettamente quali sono stati quei lampi e quelle immaginazioni, che hanno rimesso in moto un livello di comunicazione possibile con il teatro dei comici dell'arte.

 

Qui, però, c'è un protagonista che, nel lavoro di Leo, era del tutto assente: Goldoni. 

E dentro Goldoni si resta. Non ci sono parole al di fuori del Teatro comico. Leo faceva nascere il testo da contaminazioni letterarie, improvvisazioni e momenti di scrittura, qui stiamo attenti a restare nel testo, non per rappresentarlo, ma per mostrare quanto abbiamo raccolto standoci dentro.

 

Certo, le parole sono quelle di Goldoni, però vengono adattate al tuo lavoro sulla voce e sull'attore, tanto da rispecchiare fasi e momenti della tua esistenza artistica.

Sì, le parole vengono distillate, alcune hanno un silenzio intorno: sono delle parole silenti, rimandano a un senso che resta silenzioso, altre no, ma questo credo sia naturale. Per capire il rapporto dell'attore con il testo bisogna pensare che la domanda viene prima della risposta, e che le parole, a teatro, sono appunto la risposta. La domanda che ci siamo posti è: cosa ci dice una lezione di teatro come quella di Goldoni? Come si intreccia alle nostre vite? Non abbiamo voluto semplicemente “citarla”, ripetendola ancora una volta, ma ne abbiamo ricavato apparizioni e pensieri che si svolgono nella bellezza e nella semplicità dell'immaginazione. Pirandello, nei Giganti della montagna, dice che il teatro è “un arsenale di apparizioni”. È una delle definizioni più belle che si possano trovare in tutta la letteratura teatrale.

Goldoni va affiancato alla dimensione delle “apparizioni”. Le sue lezioni debbono potersi aggiungere a scene e immagini che abbiamo già visto, e insegnarci a vederle in modo nuovo, non soltanto con occhi di spettatori, ma attraverso un immaginario comune. Le lezioni di Goldoni sono diventate coscienza collettiva.

 

Ph. Masiar Pasquali.


Fra le scene già viste – e già vissute – che vengono affiancate a Goldoni, c'è qui una citazione dalla Didone metastasiana. Didone, nello spettacolo, fa capolino due volte. Dapprima, i suoi versi costituiscono l'esercizio di declamazione con cui la “cantatrice” Eleonora tenta di farsi assumere dalla compagnia. È un piccolo e intenso momento di teatro nel teatro in quel grande teatro nel teatro che è il Teatro comico. Goldoni attribuisce questi suoi versi di stile bernesco a Lelio, il poeta morto di fame che tenta di farsi rappresentare dalla compagnia. Poi, tu, al microfono, fai teatro dei versi di Metastasio. È come se entrasse in scena l'opera seria: distillata, concentrata, potente, emozionale, assoluta.

Tratto i versi come li farei al di fuori di Goldoni, ma proprio per questo, senza spiegarla, faccio anch'io una lezione che si affianca a quella goldoniana. Eleonora è lasciata sola, nessuno le dice che cosa fare e come farlo. In quel momento, Orazio è addirittura presente come manichino. Io ho aggiunto a questa umiliante esposizione al ludibrio in cui Eleonora viene infatti irrisa da risate registrate, alcuni versi della Didone abbandonata che, per me, rimandano alla lezione di un grande Maestro. Sì, ci sono aspetti biografici in questi recinto goldoniano. Negli anni in cui ho frequentato a Roma la scuola di Perla Peragallo, Leo è venuto due pomeriggi.

 

Uno di questi ci tenne tutti su quattro versi della Didone abbandonata di Metastasio: “Vado... Ma dove? Oh Dio!/Resto... Ma poi... Che fo?/Dunque morir dovrò/Senza trovar pietà?” Non li ho mai più riletti e me li ricordo da allora. È come se Leo, passando alla scuola di Perla 28 anni fa, mi avesse detto: “Questi mettiteli in tasca e poi, chissà, ti torneranno utili”. Ed è bello che mi siano tornati utili proprio in questo spettacolo in cui ho potuto chiamare attori di Leo. Elena, Marco e Marco mi venivano a vedere alla scuola di Perla, ed io li seguivo al Quirino, all'Argentina, in tanti altri teatri... Ora, nella compagnia ci sono loro, ci sono attori che hanno già lavorato insieme a me come Savino Paparella e Francesco Pennacchia, c'è Marco Vergani con cui siamo incontrati da tempo, e c'è Stella Piccioni che viene dalla scuola del Piccolo e si è intonata a noi come a noi a lei. Insomma, un gruppo eccezionale.

 

Oltre ai versi della Didone abbandonata, c'è, qui, un altro elemento che richiama i tuoi precedenti lavori: la presenza del drammaturgo in scena. Nell'Ubu Roi, eri un drammaturgo in scena che, un po' Pinocchio e un po' Amleto, spostava il gioco grottesco di Jarry verso momenti di ritualità tragica. La scena in cui facevi roteare uno scheletro incatenato al collo, resta fra le “apparizioni” indimenticabili del mio personale arsenale di spettatore. Ora sei Orazio. E anche qui, c'è un segno funerario: si sente uno sparo e sulla camicia del capocomico compare una grande macchia rossa.

Leo de Berardinis diceva che l'attore reagisce alla scena, non agisce la scena. Quindi, per realizzare la sua parte, l'attore deve averne assimilati i temi in modo talmente profondo e sicuro da poterli variare, reagendo a quanto accade durante le prove. La tecnica della variazione è un concetto jazz che ho affidato a Orazio. Ma chi è Orazio? Per me, non è il personaggio goldoniano. L'Orazio di Goldoni dice, presentandosi a Lelio: “Sostengo la parte di primo amoroso, e sono il capo della compagnia” (Atto I, Sc. 11). Ho lasciato solo “capo della compagnia” e tolto “primo amoroso”. C'è una piccola incongruenza. Se Orazio fosse il primo amoroso dovrebbe essere lui a fare Florindo, e non dovrebbe essere necessario cercare l'amoroso ancora mancante. Orazio è quello che sta giù dal palco, che non si unisce alla compagnia, che spiega il nuovo modo di recitare e che fa discorsi, trovando in Eugenio una specie di Ariel che lo aiuta a esporre il suo pensiero. Ma se dice lui stesso le parole di Arlecchino, che in questo Teatro comico non viene mai, allora Orazio si allontana anche dalla parte di direttore di compagnia, e diventa un Arlecchino aumentato...

 

E, infatti, di Arlecchino ha le movenze e la maschera...

La battuta, a taglio effettuato, è questa. “Sostengo la parte di direttore della compagnia”. “Sostengo la parte” non lo sono. Il Teatro comico mostra una compagnia che fa le prove del Padre rivale del figlio. Oggi ci possiamo permettere di mostrare una compagnia che fa le prove delle prove del Padre rivale del figlio. Possiamo aggiungere un livello, che renda ancora più autentici in momenti di nudità e svelamento. Il rapporto fra il recitare con maschera o senza maschera è uno di quei temi che abbiamo assorbito per realizzare, pur restando dentro il testo, le nostre variazioni jazzistiche. Orazio, quando fa Arlecchino, è senza maschera, gliela tolgo, ma gli metto il microfono che è un'altra forma di mascheramento. Questa volta acustico. La sua voce è modificata. Ma non nella Didone abbandonata: lì non ci sono effetti. Tutte le altre volte, il microfono, così come lo usa Orazio, è sempre una maschera. Allora, maschere, maschere acustiche, maschere nude. I livello meta-teatrale che vorrei aggiungere al Teatro comico contiene il meta-teatro venuto dopo, che non possiamo dimenticare e far finta che non sia esistito.

 

La battuta modificata – “Sostengo la parte di capo della compagnia” – sottintende che, chi parla, in realtà, non è il capo delle compagnia. È una battuta che lo stesso Goldoni avrebbe potuto utilizzare, non tanto nei testi, quanto nella vita. Goldoni era l'autore, seguiva la messinscena, ma i capi veri erano altri: i nobili proprietari dei teatri, i capocomici... 

Le variazioni dicono molto del tema. Proprio da lì vengono, dalla sua assimilazione.

 

La diversità d'Orazio è confermata – e forse segnalata – dal costume. Il solo che sia nero. Il solo che si macchi di una chiazza che fa pensare al sangue.

E che ogni sera sarà diversa. È proprio la sindone della mosca. Orazio è nero come la mosca: è esso stesso mosca. Lo spettacolo inizia con una rielaborazione del lazzo della mosca. Lazzo reso celebre da Soleri e Dario Fo. Qui, la mosca viene presa e lasciata, lanciata in aria, passata da una mano all'altra come se fosse la palla di un giocoliere. Il ronzio registrato la rende presente. Un personaggio. Così, quando viene mangiata, possiamo immaginare che continui a volare nello stomaco finché esplode.

 

Ph. Masiar Pasquali.


Qual è il rapporto fra Orazio e gli altri personaggi?

Sono sempre nella tentazione, un po' pirandelliana, di dire che gli altri personaggi esistono. Si immaginano l'un l'altro e immaginano Orazio. Loro esistono. Settecenteschi, antichi, museificati, ma esistono, mentre Orazio non c'è: è una loro immaginazione, oppure, all'opposto, tutto lo spettacolo è una sua immaginazione. Orazio li immagina e, per immaginarli, ha bisogno di togliere loro la maschera. All'inizio dice, “alzate la tela”, e alzare la tela, per me, equivale a dire “abbassa la maschera”.

 

Questo tuo Goldoni pirandelliano sembra avere creduto che gli attori fossero in cerca d'autore. Così ha risposto, con l'opera e la vita, ad una richiesta che, forse, era solo una visione. Gli attori non volevano un autore: volevano commedie nuove che attirassero il pubblico.

È come se avesse detto, sono qua. Volete l'Autore? Eccomi. Durante l'ultima prova ho integrato una battuta di Orazio con una frase che, anche se non ci avevo pensato, corrisponde alle tue osservazioni sul “drammaturgo in scena”. Tutto questo, dice riferendosi allo spettacolo, si fa “Grazie al cielo e grazie a me”. Anche questa osservazione, del resto, rientra nel pensiero di Goldoni. 

 

Ci sono almeno altri due elementi, che assieme al metamorfico Orazio/mosca/drammaturgo in scena, strutturano le variazioni su tema dello spettacolo. Potremmo chiamarli: la “Maschera sottratta” e la “Maschera aggiunta”. La prima è Arlecchino, che appare dominante al livello scenografico, mentre sparisce dal gruppo degli attori. La seconda è Pulcinella, che Goldoni non tratta, mentre qui s'intreccia al personaggio di Lelio.

«Ieri sera son cascado in canale» racconta Arlecchino a Orazio nel primo atto. Dietro a quella battuta c’è lo sconcerto del personaggio per essersi ritrovato in acqua senza sapere perché. 

È stato Goldoni a buttarcelo, facendolo cascare dal palchetto dove si esibivano le maschere…

Ed è straordinario, rispetto alla carriera e alla storia teatrale di Strehler, che egli, nel dopoguerra, in una fase iniziale del suo percorso, abbia avuto l’intuizione di riconciliare Arlecchino e Goldoni attraverso una manomissione fenomenale e fondamentale insieme: modifica il titolo originale Il servitore di due padroni, in cui il protagonista ha nome Truffaldino, in Arlecchino servitore di due padroni, restituendo alla maschera la centralità perduta.

Se Goldoni si lanciava consapevolmente verso l’ignoto, in tempesta, recitando “alla moderna”, due secoli dopo, Strehler, per procedere, torna a recuperare un topos e ripesca Arlecchino – e con lui una parte di storia del teatro italiano – da quel canale di Venezia in cui era cascato.

Sapevo che intorno alla figura di Arlecchino si sarebbe giocata una partita importante anche nel nostro spettacolo. Ecco perché il ruolo non appartiene a un solo attore, ma a tutti; è come se tutti fossimo Arlecchino, perché tutti ci prendiamo in carico quell’andare in tempesta che Goldoni aveva scelto come proprio destino artistico. 

 

E proprio il movimento ondulatorio della tempesta viene oggettivato dal palcoscenico mobile, su cui gli attori si spostano facendolo abbassare o innalzare da una parte e dall'altra. A un certo punto si ha l'impressione che questo marchingegno rappresenti le forze della Storia – per cui si passa dal “vecchio” al “nuovo” – e che gli attori, in preda al flusso, procedano uniti come su una contemporanea “nave dei folli”.

Sì, nel primo atto dello spettacolo, la compagnia di comici guidata da Orazio si trova per qualche minuto in balìa dei flutti e dei venti, sulle note di una composizione musicale (Van den Budenmayer, Concerto in mi minore di Zbigniew Preisner, n.d.r.) in cui sono cantati alcuni versi del secondo canto del Paradiso di Dante “O voi che siete in piccioletta barca…”. L’ho scelto perché mi sembra questo il modo con cui Goldoni, se si fosse espresso in forma poetica, avrebbe potuto spiegare ai suoi attori il “traghettamento” dalla Commedia dell’Arte al nuovo teatro moderno. 

Sulla scena, una pedana in bilico riproduce la sensazione di precarietà, di ondeggiamento della barca, la necessità di mantenere una linea di galleggiamento utile a tutti.

In qualche modo è anche un riferimento alla “Barca dei comici”, alla fuga del giovane Goldoni per mare, in cerca di sé e della propria vocazione teatrale.

Ma la pedana è anche il palchetto dei comici dell’arte che si è fatto incerto, privo delle sicurezze che la recitazione “all’improvvisa” garantiva agli attori…

All’inizio della seconda parte dello spettacolo riprendo la metafora del mare: la tempesta, in questo caso, non è più sul palchetto in bilico, che è scomparso, bensì nello spazio intorno, nel volume intero del palcoscenico. L’attrice sospesa, evidente citazione di un’altra ben più celebre Tempesta strehleriana, ci racconta che Goldoni scatenò in scena un uragano, che investì la Venezia dei teatri.

 

Torniamo alla “maschera aggiunta”. Secondo me, anche nel testo, Lelio è un ulteriore alter ego dell'autore. Una specie di Goldoni capovolto: secentista e fedele alle norme convenzionali, quanto l'autore vero persegue uno stile naturale ed è maestro nell'arte inventiva dell'imitazione. Tutti e due, poi, trovano rifugio nel teatro, finiscono per caderci dentro. Lo spettacolo approfondisce questo gioco di rispecchiamenti e capovolgimenti. Lelio, disgiungendosi gradualmente da Pulcinella – la “maschera aggiunta” –, finisce infatti per diventare l'attore “veicolo di realtà” atteso da Goldoni.

Devi tenere presente che il cast del Teatro comico non è stato formato a tavolino, ma combinando e richiamando persone incontrate, conosciute e, per me, estremamente importanti. Così, viste le corrispondenze fra le storie artistiche degli attori e i loro personaggi, fatto il cast si era già al 51% del lavoro. Elena Bucci, ad esempio, fa sia la prima che la seconda donna, come a dire “ci sono io e basta”. E Manchisi ha portato con sé il suo Pulcinella, che, qui, è la maschera viva. Non viene da Goldoni, non è un recupero della Commedia dell'Arte. È Manchisi.

 

E Manchisi entra con la maschera e il costume di Pulcinella, poi appare sempre più nudo, più naturale. Forse, fra i vari personaggi, è il più smascherato di tutti.

Lelio deve venire accettato dalla compagnia. Il Teatro comico è anche la storia della sua iniziazione. E quand'è che gli altri attori lo accettano? Nelle pause, nei momenti di nudità. Inizialmente, pensavo che mostrarlo sul palchetto, assieme a tutti gli altri bastasse a sottolineare il passaggio, poi ho pensato che questo momento dovesse avvenire quando è giù dal palchetto, al livello della scena, un po' più in basso degli altri attori. Come hai visto, Lelio sale su un basamento speculare a quello che regge l'Arlecchino/Soleri. Nel momento in cui viene accettato – e viene accettato allorché dice le battute del testo in modo del tutto naturale, senza più sovrapporre Pulcinella – lui diventa l'alter ego del grande Arlecchino. Meglio, il suo dopo.

 

Il passaggio di Lelio/Manchisi dalla maschera pulcinellesca ad una recitazione diretta e immediata, sembra replicare il percorso di Goldoni, che incomincia con scrivere per attori in maschera e poi, via via, da' vita a caratteri da recitare a viso scoperto. È un'impressione? 

Tutte le letture sono possibili. Anzi, necessarie. Noi invitiamo a un gioco così come siamo invitati a un gioco. E in questo gioco ci sono temi che guidano le variazioni. Uno di questi – e Goldoni ci insiste tantissimo – è senz'altro il passaggio dalla vecchia alla nuova recitazione. Il rinnovamento del teatro.

 

Come si sta dentro Goldoni?

Se penso a come si dovrebbe stare, non so risponderti. Mentre, se penso a come ci si può stare, allora ti dico: “cogliendo le occasioni”. I “classici”, per me, sono le occasioni del teatro. Quello che m'interessa non è rappresentare un testo di Goldoni, ma fare uno spettacolo attraverso Goldoni, stando dentro al suo testo per potere accumulare e selezionare via via richieste, proposte e idee. E cioè variazioni.

 

Pensi che l'incontro con Goldoni e questo Teatro comico avrà degli effetti sulle tue prossime scelte teatrali?

Sicuramente. Tutto si lega, se non avessi fatto I giganti della montagna o Amleto + Die Fortinbrasmaschine o il Cantico dei Cantici o Metamorfosi questo Goldoni sarebbe diverso. Il mio prossimo spettacolo sarà, appunto, li abbiamo appena evocati, Sei personaggi in cerca d'autore. La novità è che non sarò in scena. Ci sarà un solo attore, ma non sarò io.

 

Quindi, lo sguardo autorale prosegue...

Tanto che sarò in scena solo come sguardo. Per Fortebraccio Teatro, se pensi a tutti gli altri miei spettacoli, è una svolta “epocale”.

 

Il presente testo è stato originariamente scritto per il programma di sala de Il teatro comico, e parzialmente pubblicato a cura dell’Ufficio Edizioni del Piccolo Teatro di Milano-Teatro d’Europa.

 

Piccolo Teatro Grassi, Milano, dal 20 febbraio al 25 marzo 2018
Il teatro comico di Carlo Goldoni, adattamento e regia Roberto Latini, scene Marco Rossi, costumi Gianluca Sbicca, luci Max Mugnai, musiche e suono Gianluca Misiti, con (in ordine alfabetico) Elena Bucci, Roberto Latini, Marco Manchisi, Savino Paparella, Francesco Pennacchia, Stella Piccioni, Marco Sgrosso, Marco Vergani. Produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa

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