Fus 2015, un anno dopo / Un teatro sempre in crisi?

12 Maggio 2016

Mi sembra che l'anno scorso nel teatro italiano non si sia fatto altro che parlare della riforma del Fondo unico per lo spettacolo (Fus). Che fra l'altro chiamarla “riforma” fa un po' ridere, quel decretino partorito dalla più che decennale esperienza dell'ex direttore generale allo Spettacolo dal vivo. Poco male, ché pare che ci penserà il nuovo direttore a dare una sistemata, visto che gira voce di un pensiero per una nuova Riforma, con la maiuscola, una potenziale Legge vera e propria per il teatro (l'ennesima dagli anni Settanta!, chissà se avrà l'obliato destino di tutte le altre). 

Nel frattempo il nuovo corso ha già cominciato a intervenire, prendendosi il tempo di pensare e di apportare qualche piccolissima modifica (che forse poteva aspettare la fine del triennio, invece che rimandare i finanziamenti 2016 a chissà quando, idem per la strana urgenza dello “stato di eccezione” del Piccolo di Milano). Il risultato è che le domande sono slittate di tre mesi e dal Ministero non arrivano novità o cenni di sorta su (se e) quando riprenderanno i lavori, anche perché fra l'altro c'è una fila infinita di ricorsi a tutti i livelli (in alcuni casi veramente pesanti).

 

La (cosiddetta) riforma del 2015 sembra la più discussa di sempre, così come i selezionati e gli esclusi, ovviamente compresa la contestatissima commissione che ha operato le scelte, in un intricato tunnel di corsi, ricorsi e rincorse da cui è ancora duro vedere la luce in fondo. Discussa non solo nei fatti, la riforma, ma anche molto nella sua teoria generale (fra le riflessioni a riguardo basta vedere quelle provenienti dall'Elfo Puccini o il discorso di Civica-Scarpellini). Guardando mezzo pieno un bicchiere ormai sempre più scarso: bene, in realtà, per lo stato del dibattito all'interno del teatro italiano (un po' meno bene per chi ne sta facendo e ne farà le spese). 

Dicono che gli effetti sul sistema teatrale italiano saranno devastanti. D'accordo, ma questo lo vedremo tipo nei prossimi dieci anni (anche se a guardare bene si vedono già indizi inquietanti). Per il momento potremmo fermarci ad alcuni fatti un po' strani che stanno segnando più o meno sotterraneamente le scene italiane di questi mesi. E capire gli effetti reali, immediati e concreti della riforma o almeno di come l'ha recepita, attuata e assorbita il teatro italiano. 

 

Catania protesta. 

Le stranezze dei Teatri Nazionali e dintorni

 

Una delle grosse novità dell'anno scorso erano i Teatri Nazionali. E, lì dentro, si sono infilate diverse stranezze, fra cui quella di un teatro non di produzione che si proponeva fra i nuovi colossi del sistema immaginati dalla riforma 2015: la Pergola di Firenze, diventata Fondazione Teatro della Toscana inglobando uno dei centri di ricerca storici, quello di Pontedera. La cosa aveva suscitato non poche polemiche prima (con l'ipotesi di diverse fusioni a livello regionale) e altrettante perplessità poi (come si mette assieme un teatro ex Eti di città con un centro di provincia votato alla ricerca?). Il teatro in realtà di cose ne fa, ma in seguito sono state la gestione e le relazioni interne a destare non pochi dubbi: dalla doppia conferenza stampa di inaugurazione (una della Pergola e una di Pontedera) al mantenimento dei siti web individuali delle due strutture, da voci di corridoio su una possibile estromissione di alcune figure al recente inglobamento di un'altra realtà assolutamente peculiare, la compagnia Krypton di Cauteruccio. 

 

Una delle produzioni di punta della stagione, uno Zio Vanja diretto dal regista Tomi Janežic (già in Italia qualche anno fa con un altro lavoro cechoviano che aveva scosso e commosso, Il gabbiano) pare sia stata cancellata a poche settimane dal debutto a Fabbrica Europa, dopo aver pagato gli stipendi ad artisti, attori, tecnici appositamente scritturati. Più che annullato, dicono i direttori, lo spettacolo è stato rimandato al prossimo anno. Staremo a vedere. Intanto si aspettano altre notizie ufficiali, per il momento l'unico segno è la sparizione dello spettacolo dal sito del teatro, mentre i commenti che girano riportano la motivazione – non del tutto soddisfacente – alcuni di una carenza di fondi e altri di una necessaria riprogrammazione per la sostenibilità economica del teatro (un po' inquietante per un teatro che ha visto come cifra d'ingresso nel Fus più di 1 milione di euro solo dal Ministero, forse troppo per un teatro al suo primo anno di attività?). Il punto non è quanti soldi pubblici si hanno (e sono tanti), ma come vengono usati. E ovviamente le tipologie di rapporto che caratterizzano le gestioni delle realtà che si sono fuse in qualche modo su auspicio del Decreto (per raggiungere numeri altrimenti inarrivabili), la necessità effettiva di queste collaborazioni e le modalità operative che hanno saputo mettere a punto. Altri nuovi assemblage sono il Kismet di Bari (Tric – Teatro di rilevante interesse culturale, appena un gradino sotto i teatri Nazionali – con l'Abeliano) e il centro salernitano Casa del Contemporaneo, nuova denominazione che comprende Salerno Contemporanea (dall'ex Teatro Nuovo di Napoli), Enzo Moscato e la compagnia per ragazzi Le Nuvole.

 

 

Il gabbiano, Tomi Janezic, ph di Ilaria Costanzo. 

 

Il festival di Castiglioncello e altri luoghi in pericolo

 

Dal livello macro dei Teatri Nazionali a quello micro dei festivalini, che nella loro piccola dimensione hanno però negli ultimi trent'anni sostenuto il teatro di ricerca italiano e coperto tanti buchi politico-culturali oltre che produttivi e distributivi che avrebbero in teoria dovuto essere appannaggio della stabilità. 

È degli ultimi giorni la notizia che il festival di Castiglioncello, gestito da Armunia, perderà la sede storica del Castello Pasquini. Il motivo? Pare un temporale che ha divelto il tendone esterno rendendolo inagibile (anche se in realtà, essendo un castello vero e proprio, di spazi ne avrebbe molti altri). Sorge il dubbio che sia stata colta l'occasione per sfrattare il festival dedicato al teatro e alla danza contemporanei, dopo che da qualche anno giravano voci sulla difficoltà dei rapporti fra Armunia e la nuova giunta comunale. Le attività (che non sono solo il festival, ma anche per esempio le residenze) saranno spalmate in vari teatri di paesi e frazioni vicine, con – dicono i giornali – l'obiettivo principe del Teatro Solvay di Rosignano con cui però ancora non si è formalizzato nessun accordo (la rassegna comincerebbe fra meno di due mesi!). Con l'idea comunque di farne una sede definitiva, visto che il Comune ha immaginato per il Castello tutta un'altra o almeno anche un'altra destinazione (convegnistica ed espositiva, votata allo spettacolo, più remunerativo, del turismo). 

Qui si apre il capitolo dei rapporti fra enti locali e realtà teatrali e in particolare legato a quanto sembri contare (a volte gran poco) il riconoscimento ministeriale a livello comunale o regionale. Armunia è un caso macroscopico, ma non è il solo da tenere d'occhio (un altro esempio interessante da capire sarebbe quello di Andria). 

 

Spettacolo nel parco, castello Pasquini, Castinglioncello. 

 

Un'immagine forte è quella del debutto napoletano del Lear diretto da Giuseppe Dipasquale, coprodotto dallo Stabile di Catania e dal Nazionale partenopeo: dopo un ritardo di 15 minuti, la scena si apre su un palco vuoto, senza alcuna scenografia. Era rimasta in Sicilia, a causa di una protesta dei lavoratori del teatro catanese, che hanno bloccato gli spettacoli e sono tuttora in agitazione; mentre anche quelli del Mercadante vessano in condizioni di grave difficoltà (i ritardi nei pagamenti, pare siano dovuti alle difficoltà di Comuni e/o Regioni). Le strutture hanno avuto grandi riconoscimenti dalla riforma e dalla sua prima applicazione: Napoli è diventato uno dei 7 Teatri Nazionali e Catania, pur non avendo ottenuto l'ambito riconoscimento, si è dovuto accontentare del secondo livello, quello dei Tric, consolandosi però con un aumento non indifferente dei finanziamenti statali (questo è successo anche nel caso di Napoli). 

 

Quello che voglio dire è che la riforma del Fus del 2015 ha sicuramente in partenza una serie di difetti macroscopici, assurdi e pure potenzialmente catastrofici sul breve e lungo periodo. Ma che facendo un'analisi di impatto (per ora) non si capisce bene se gli effetti negativi che ha portato nel suo primo anno siano da imputare alla legge in sé o al pittoresco corredo degli usi e costumi teatrali nazionali che naturalmente sono riusciti a infilarvisi in mezzo con grande tradizionale agilità. 

È possibile che un teatro pubblico finanziato con centinaia di migliaia di euro non paghi i suoi dipendenti (e però continui a produrre spettacoli)? Che cancelli una produzione a due settimane dal debutto dopo aver speso buona parte – immagino – del budget? Che teatri diversi, compagnie ed esperienze debbano fondersi solo per raggiungere dei numeri, invece che a partire da un desiderio, una necessità, una progettualità reale? È possibile che un festival di rilevanza nazionale perda il suo spazio dopo varie beghe col Comune e a due mesi dall'inizio non si sappia ancora bene come andrà a finire? Che una regione – il Veneto –, pure questa con tanti inaspettati riconoscimenti, azzeri i finanziamenti alla cultura e al teatro proprio nell'anno in cui il suo Stabile diventa – anche questo a sorpresa – Teatro Nazionale e uno dei suoi festival è il terzo in classifica dei multidisciplinari dopo Spoleto e RomaEuropa? Che sia bastato un cambio di giunta per cancellare l'eccellenza teatrale di un'altra regione – la Puglia, ma qualche anno fa era successo anche in Piemonte –, negli ultimi anni guardata con invidia da tutto il Paese per esempio per il suo sistema delle residenze dei Teatri Abitati? Una cancellazione che si è portata con sé la fine del festival StartUp Teatro di Taranto, che in quattro edizioni aveva disegnato un bel prototipo del fare teatro al Sud. È possibile che tante di queste cose passino in sordina e nessuno dica niente? 

 

Castello Pasquini e tensiostruttura, Castiglioncello. 

 

Quale futuro per il teatro?

 

La cosa che hanno in comune questi esempi così diversi – la Toscana, Castiglioncello, lo Stabile di Catania e Napoli (ma poi anche Andria, il Veneto e la Puglia) – è che non è che siano stati particolarmente bastonati dalla riforma del 2015. Anzi, si può dire che sono fra le realtà che ci hanno guadagnato di più, facendo le giuste proporzioni. Fra i Nazionali, Firenze e Napoli hanno visto triplicare il proprio contributo (da 400.000 euro a 1 milione e 200mila), senza contare che l'etichetta li dovrebbe tutelare anche a livello locale in fatto di denari (gli enti sono obbligati a investire almeno altrettanto). Anche Catania vede un bell'aumento: da 950.000 a 1 milione e 200mila, come i due Nazionali (forse gli è andata bene la “retrocessione” a Tric in fondo in fondo). E se Armunia è aumentato “solo” di 10.000 euro, è però fra i non molti che è riuscito a superare la dura selezione della nuova commissione multidisciplinare. 

 

Festival startupteatro, Taranto. 

 

Farà qualcosa il Ministero o il nuovo direttore, Cutaia, che mesi fa è stato salutato con gioia da tutti come un novello messia? La tanto contestata commissione imprigionata nella sua torre d'avorio di calcoli e equazioni? I critici che sembrano dare priorità ogni volta a un nuovo bellissimo debutto (rare volte chiedendosene il prezzo)? I teatranti, che sono sempre i primi a rimetterci ma sono lontani anni luce dagli intermittents d'Oltralpe? Faremo qualcosa noi, per dire la nostra su come vengono spesi i soldi pubblici delle nostre tasse o almeno provare a salvaguardare quel pochissimo di dignità che ci resta?

 

Sicuramente la riforma del 2015 – salvo cambiamenti – produrrà le aberranti trasformazioni globali e trasversali, teoriche e storiche, ipotizzate in questi mesi da tanti apocalittici e integrati. Ci vorrà del tempo per vederlo e per capirlo (e comunque è vero che è bene già da ora discutere, confrontarsi, anche combattere). Però forse dovremmo anche restare un po' coi piedi per terra: tenere le orecchie dritte e gli occhi attenti, guardare con lucidità a quello che sta succedendo in concreto, andare a pescare i veri cambiamenti e a smascherare le vecchie abitudini che riemergono. Dirli, raccontarli, fare e farsi domande. Essere presenti e pesanti. Tornare a dividere il grano dal loglio, stando sulle cose concrete e urgenti, che è quello fra l'altro che tradizionalmente ed etimologicamente avrebbe il dovere di fare la critica.

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