Panem et Circenses, Eating et Design

22 Novembre 2013

Panem et circenses, è questo che ci vuole per tener buono il popolo. Le cose non sembrerebbero troppo cambiate dai tempi dei romani se non fosse che non è la pancia vuota il problema (almeno per il momento) e che i circenses sono alquanto cambiati. Il diletto, sempre più spesso, sta nel provare panes diversi, nel cucinarli da sé, nel trovare il vinum che li accompagni e, naturalmente, nel parlarne fino allo sfinimento. Insomma, è chiaro, oggi la vera questione, il punto su cui si concentra la contemporaneità, non sono né l’uno né l’altro, è l’et che li tiene insieme, quel qualcosa che fa del cibo un divertimento e del divertimento qualcosa da mangiare (e non solo).

 

Ecco allora trEATicon, un evento curato da Panem et Circenses (P e C nel logo, ovviamente), duo di artisti  che a partire sabato 23 novembre alle 18 e per tre mesi, nella (galleria +) oltredimore di Bologna si propongono di ricostruire attraverso una serie di esperienze che includono action eating e aperitivi l’excursus evolutivo del rapporto uomo-cibo, da un mondo ideale in cui nulla è noto e tutto è sperimentazione al food-porn contemporaneo in cui si spettacolarizza il cibo fino all’estremo. Si tratta, a loro dire, del primo progetto dedicato all’eating design.

 

Eating design? Non bastavano gli chef-star, le stelle Michelin, le cataste di guide, gli infiniti show culinari due-tre volte al giorno che manco il TG? Non contenti del neonato food design che cerca non senza difficoltà di trovare una sua dimensione fra due ingombranti universi quali il disegno industriale e la cucina, ecco una nuova scommessa.

 

 

In due parole si tratta di progettare non il cibo ma le modalità del suo consumo. C’è chi ritiene (ingenuamente) che questa direzione sia obbligata dal fatto che “il cibo è già perfettamente disegnato dalla natura” (Marijie Vogelzang), chi invece pensa l’eating design come una branca del food design che guarda al contesto della consumazione alimentare (assumendo dunque che il food design riguardi direttamente la materia edibile) (Francesca Zampollo) e poi chi, come P e C, tenta di sparigliare mettendo dentro misteriosi concetti come food specific e food translation.

 

Un po’ d’ordine è allora necessario, se non altro per sapere come disporsi nei confronti di tutto questo. Per cominciare a farlo è utile partire proprio dal design che sembra la chiave di volta e da quel che dice un sociologo delle scienze come Bruno Latour: il design in quanto creazione ex nihilo non esiste, esiste solo il re-design, la ri-progettazione sulla base di qualcosa che c’è già.

 

È vero nel caso degli oggetti d’uso, ma lo è ancor di più per il cibo la cui storia accompagna quella dell’uomo. Non c’è mai stato un momento in cui il “contesto” in cui si mangiava non fosse importante e dunque, a suo modo, “disegnato”. Il punto è semmai il livello di consapevolezza con cui questo sia avvenuto. Il controllo che si è avuto sulle molteplici dimensioni in cui esiste il cibo in quanto opera totale per eccellenza che ci coinvolge in tutto e tutto coinvolge.

 

Il punto si sposta allora dalle cose alle strategie: lo dice la parola stessa, il design è disegno, e dunque obiettivo, scopo. Il problema non è riconoscere la multidimensionalità del cibo, ma il fatto che la forma che di volta in volta assume non è neutra bensì il prodotto di strategie più o meno implicite. Se una teoria del food design ha il dovere di fornire gli strumenti che consentano di ricostruire tali strategie, quel che la pratica progettuale può fare è non fingere che non esistano. Se si vuol credere davvero che il cibo è un linguaggio, come molti amano fare, bisogna riconoscergli una funzione che i linguaggi hanno: quella di esser capaci di parlare di se stessi.

 

Al di là delle etichette allora, e dell’inglese che le rende sempre più appetibili, la questione non è inventare per stupire ma esplorare la complessità di ciò che conosciamo bene. L’et allora prelude bene: significa guardare alle relazioni più che alle entità che le intrattengono. Magari con un occhio al passato, quello dei futuristi tanto per cambiare, che negli anni Trenta con i loro pranzi paroliberi avevano capito anche questo, che per innovare l’esperienza alimentare basta cambiarne la sintassi. Da Marinetti allora val la pena prendere una parola, visto che la lingua sembra così carente di questi tempi quando si parla di gastronomia: formula. Quello di Panem et Circenses non è un progetto, ma una formula.

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