People make Glasgow

28 Luglio 2014

Glasgow non ha una bella fama. Dentro e fuori il Regno Unito, si porta addosso ancora oggi lo stigma di città violenta e povera, duramente colpita da un processo di deindustrializzazione che a partire dagli anni ‘80 ha fatto a pezzi la sua un tempo gloriosa e compatta working class e ha portato numerosi quartieri a livelli impensabili di disagio sociale e deprivazione.

 

Allo stesso tempo, oggi è una delle città europee più vibranti dal punto di vista artistico e musicale. Alcuni fra i gruppi più famosi della scena musicale indipendente contemporanea vengono proprio da qui e da anni giornalisti e critici culturali si domandano come sia possibile che il premio Turner, il principale concorso britannico per l’arte contemporanea, finisca così spesso nelle mani di un Glaswegian.

 

Gli amici a cui dicevo che sarei andata a trascorrere un periodo di ricerca nella seconda città della Scozia si dividevano coerentemente fra un perplesso “Mmmh, ma perché a Glasgow?” e un entusiastico “Salutami i Mogwai e mi raccomando non ti perdere quel negozio di dischi…”.

 

Questa sensazione di ambiguità mi ha accompagnata costantemente in queste settimane, divisa fra la vita quotidiana nel ricco West End e le uscite nei quartieri dell’East End e di altre zone periferiche, dove mi recavo insieme ai colleghi dell’università impegnati in una grossa ricerca che studia l’impatto della rigenerazione urbana sulla salute dei residenti.

La rigenerazione urbana, già. Termine ambiguo, un po’ passe partout, spesso abusato. A Glasgow la rigenerazione urbana ha preso un senso quasi letterale. Ormai da diversi anni gli edifici più degradati nei quartieri popolari vengono rasi al suolo, demoliti; sono i malfamati high rises, costruiti negli anni ‘60 per far fronte alla crisi abitativa del dopoguerra per dare una casa che potesse essere definita tale alle masse popolari che vivevano in veri e propri slum.

 

Emblema dell’urban regeneration è diventato il quartiere di Red Road. Otto edifici, di trenta piani, costruiti fra il 1964 e il 1969 per ospitare all’incirca 4600 residenti. Un tempo simbolo di progresso, direttamente ispirati agli edifici modernisti di Le Corbusier a Marsiglia, questi palazzoni sono diventati in tempi brevi l’icona del fallimento di quella politica, e sinonimo di ogni tipo di problema sociale. Oggi sono il simbolo del cambiamento, un cambiamento controverso, ma ormai inevitabile.

 

Passate a essere patrimonio pubblico nel 2003, le torri di Red Road sono state dichiarate irrecuperabili e due di queste sono state demolite fra il 2012 e il 2013. Oggi ne restano in piedi sei: cinque sono già disabitate e i loro abitanti distribuiti in altri – questa volta piccoli – edifici di social housing, come nel Regno Unito si definiscono le case popolari, amministrate dalle housing associations, imprese private che gestiscono fondi pubblici.

 

Le sei torri di Red Road verranno presto demolite. La data non è chiara, ma alcune settimane fa le autorità locali hanno lanciato una proposta che ha fatto molto discutere: demolire le torri durante l’apertura dei Commonwealth Games, che si terranno a Glasgow a fine luglio. Secondo i suoi fautori, l’evento avrebbe celebrato un importante momento della storia sociale della città, mostrando allo stesso tempo come Glasgow cambiasse finalmente volto e mettesse la parola fine a quei quartieri malfamati che ne avevano segnato l’identità.

 

Un’idea bizzarra, al limite del grottesco: inaugurare un avvenimento sportivo e di festa con un evento distruttivo, mostrato sul mega schermo allo stadio e in mondovisione sui piccoli schermi dei cittadini di quello che fu l’impero britannico. Fare della miseria uno spettacolo, in una sorta di “porno della povertà”, come lo ha definito il blogger Jock Morrison. La proposta ha scatenato un polverone: in molti facevano notare quanto lo spettacolo sarebbe stato poco rispettoso per gli antichi abitanti del quartiere. La proposta è stata ritirata dopo una settimana a seguito delle proteste e della raccolta di migliaia di firme in una petizione on-line, formalmente per questioni legate all’impossibilità di garantire la sicurezza (i residenti delle case intorno alle torri avevano minacciato di non seguire il piano di evacuazione).

 

C’è un ulteriore elemento legato a Red Road che ha reso la proposta della demolizione-spettacolo ancor più – se possibile – criticabile. Una delle torri è ancora oggi abitata. I suoi residenti sono alcune centinaia di richiedenti asilo, collocati qui in forma temporanea in attesa che le autorità decidano della loro sorte. Nel piano dell’amministrazione locale, tutti gli edifici sarebbero stati demoliti durante l’apertura dei giochi, tranne quello dei richiedenti asilo. Cosa sarebbe stato di loro durante e dopo la demolizione non sembra aver destato troppo preoccupazione fra i promotori dell’iniziativa.

 

Glasgow è una delle città che fanno parte del piano di dispersione dei richiedenti asilo nel Regno Unito: migliaia ne sono arrivati negli ultimi dieci anni, cambiando la fisionomia di una città non troppo abituata alla diversità. In attesa del verdetto per ottenere lo status di rifugiati, vengono sistemati nelle case popolari disponibili, quasi sempre nei quartieri più poveri e problematici e spesso in edifici destinati alla demolizione.

 

Alcuni di questi sono tristemente famosi per l’aspettativa di vita dei loro residenti, che a causa di alcool, cattiva alimentazione, droga e violenza è paragonabile a quella di un paese del terzo mondo. In questi luoghi di convivenza forzata, gli episodi di razzismo e violenza sono all’ordine del giorno e il percorso di integrazione dei rifugiati non comincia sotto i migliori auspici. In un frangente in cui le politiche di austerity del governo di Londra colpiscono duramente le classi popolari, attraverso tagli dei sussidi e imposizione di nuove tasse – uno dei punti caldi per chi sostiene il sì al referendum per l’indipendenza della Scozia che si terrà in settembre – la guerra fra poveri e la percezione di competizione sulle risorse scarse si fa reale.

 

Eppure non è tutto così grigio e con il tempo si innescano processi di integrazione e di collaborazione, grazie al lavoro quotidiano – spesso volontario – di cittadini e cittadine che si impegnano a sostenere le comunità locali e che contribuiscono all’inserimento positivo dei rifugiati in contesti così disagiati. Sono queste reti, e la simpatia e accoglienza degli abitanti di Glasgow che fanno pensare che quel “People make Glasgow”, lo slogan dei giochi del Commonwealth che ti accoglie trionfante all’arrivo dell’aeroporto, non sia niente affatto uno slogan, ma una bella realtà.

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