La sigaretta di Hannah Arendt

28 Marzo 2014

Ma come si fa a fumare così, si chiedono i più giovani, strabiliati, all’uscita dal film. Salutisti e yoghisti, omeopatici e naturisti, più avvezzi alle canne e all’alcol che alla nicotina, il numero dei pacchetti di sigarette pare quello che li preoccupa di più. Nel film Hannah Arendt di Margarethe von Trotta, che in Italia non ha trovato un distributore, e che è uscito nelle sale solo in occasione del Giorno della Memoria, in effetti la sigaretta la fa da mattatore.

 

Hannah fuma sempre e dappertutto. In pubblico e in privato, da sola e in compagnia. Mentre fa lezione e mentre passeggia. Durante le discussioni con gli amici nel suo salotto newyorchese le sigarette si accendono e si spengono in continuazione, passano di mano in mano, sono i punti e le virgole del discorso. Quando è sola, distesa sul sofà, con accanto uno di quei portacenere di una volta che bastava premere e la cenere spariva, gli occhi chiusi, la mano distesa, immobile, è il fumo il suo segno di vita. Davanti alla macchina da scrivere, a ogni nuova sigaretta è una frase che inizia.

 

Anche nella foto in copertina del libro di Marie Luise Knott, Hannah Arendt. Un ritratto controcorrente (a cura di Laura Boella, Raffaello Cortina Editore, Milano 2012), che racconta una donna leggera che insegue la trasformazione del dolore in gioia, il suo sguardo punta oltre, mentre lei tiene la sigaretta tra le dita. La giovane allieva che aveva chiesto udienza al suo professore Martin Heidegger perché voleva imparare a pensare, è diventata la donna che non può vivere senza pensare. E che, per pensare, deve fumare.

 

Il film focalizza quattro anni per lei decisivi, quelli in cui il destino incrocia l’esistenza della studiosa con quella di Adolf Eichmann, il tenente colonnello delle SS, che aveva organizzato le deportazioni nei campi di concentramento. Hannah Arendt, nata ad Amburgo nel 1906 e morta a New York nel 1975, ebrea tedesca sfuggita allo sterminio, ora cittadina naturalizzata degli Stati Uniti, non si sottrae quando The New Yorker le chiede di andare a Gerusalemme a seguire il processo. È la prima volta che, in Israele, un nazista prende la parola in un’aula di tribunale –l’interrogatorio avviene nel 1961, Eichmann verrà impiccato nel 1962.
Si aspetta di andare incontro a un mostro, quello che vede durante le udienze è un “pagliaccio” che ha ubbidito, compiuto azioni – in assenza di pensiero.“Eichmann non era uno Jago, né un Macbeth, e niente gli sarebbe stato più estraneo di arrivare a decidere, come Riccardo III, di diventare un malvagio: a parte lo zelo veramente fuori dal comune impiegato nel fare tutto quanto potesse essere utile alla sua carriera, egli era privo in generale di motivazioni; lo stesso zelo in sé non aveva nulla di criminale, non avrebbe certo mai ucciso il suo superiore per prendere il suo posto. Per restare nell’ambito del linguaggio quotidiano, egli non aveva semplicemente idea di ciò che stava facendo”.

 

Il suo reportage, che esce a puntate nel 1963, diventerà poi il libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. I suoi articoli fanno scandalo, arrivano telefonate e lettere minatorie, l’atmosfera intorno a lei diventa incandescente, i rappresentanti dell’ebraismo si indignano. La sfera personale di Hannah, la fuga dall’Europa, le sue relazioni, il suo rapporto con Martin Heidegger, tutto diventa motivo di attacco politico. In Israele non la capiscono, all’amico sionista Kurt Blumenfeld, che la conosce da quando era ragazza, dice: non ho mai amato nessun popolo, ma amo te. Il filosofo Hans Jonas non le parlerà per anni e, una volta riconciliati, non toccheranno mai più l’argomento.

 

Considerata arrogante, insensibile, coraggiosa sì, però ora si è spinta troppo in là…
Il film mette in scena una comunità intellettuale che la tragicità della storia ha reso cosmopolita. In una parte del salotto si conversa in tedesco – c’è l’amato secondo marito, Heinrich Blücher, la sua assistente Lotte Köhler, l’amante di Heinrich, Charlotte Beradt. Nell’altra parte, Mary McCarthy, grande amica e complice, intrattiene in inglese altri ospiti. Hannah, considerata un genio dell’amicizia, è il trait d’union. Tra i due gruppi si gioca il confronto tra vecchio e nuovo mondo, tra reciproci complessi di inferiorità – di ebrei europei uniti da profondi legami personali che in America “hanno trovato il paradiso” e intellettuali del nuovo mondo in soggezione con chi conosce il greco e il latino.

 

L’interpretazione di Barbara Sukowa rende memorabile una donna di mezza età, golfino e filo di perle, che sposta libri e cartellette, batte sui tasti, fa lezione, parla con gli amici, bacia il marito, riceve un mazzo di fiori.
Ritorniamo a fumare?

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