Franco Cordelli. La figura che non ha figura

2 Febbraio 2016

Franco Cordelli è un uomo superstizioso. Ma è anche un essere razionale. «Che cos’è la superstizione se non una forma superiore della ragione?» si chiede infatti «François», il protagonista del suo nuovo romanzo Una sostanza sottile. Al modo di Manganelli (autore che non ama) non meno che vitali risultano dunque, per lui, regole che egli stesso si è dato, e alle quali s’impone di ubbidire col massimo zelo – ben consapevole della loro perfetta arbitrarietà. Una sua superstizione, enunciata in tempi non sospetti, riguardava il numero dei «romanzi» dei quali sarebbe consistita, infine, la sua opera: quel numero non doveva eccedere l’otto (numero corrispondente, fra le altre cose, a quello delle lettere del suo cognome). Anche Gustav Mahler, com’è noto, temeva a morte il momento in cui avrebbe raggiunto la canonica nona sinfonia: così evitò di considerare tale Il canto della terra e, dopo l’Ottava, di sinfonie iniziò a comporne due insieme (non ci fu niente da fare: della Decima rimase solo un movimento che risulterà poi, per ironia della sorte, forse il suo capolavoro). Allo stesso modo, per rinviare l’appuntamento col numero fatale, Cordelli ha espunto dal canone dei propri «romanzi» quelli che sono, anche nel suo caso, fra i suoi capolavori: i «libri coi poeti» Il poeta postumo e Proprietà perduta. Ma dopo l’ottavo numero “ufficiale”, La marea umana, ecco un nuovo libro che non si può definire altrimenti che un romanzo, appunto.

 

Per questo e altri motivi, Una sostanza sottile non poteva che recare caratteri di discontinuità sostanziale – è il caso di dire – col resto di un’opera narrativa tanto negletta quanto maiuscola. Certo ogni variante acquista pregnanza dal confronto colle costanti; anche in questo caso dunque, e anzi parossisticamente, come nei precedenti libri di Cordelli la sostanza del suo narrare non è fra quelle, oggi, più comunemente su piazza: «la realtà», così il suo portavoce bestemmia quello che è il più solido dogma odierno, «la realtà in sé, è insignificante»; a importare invece «sono le relazioni»: ossia i segni di cui sono portatori fatti e oggetti di quella che chiamiamo “realtà”. Questa la legge, arbitraria quanto inderogabile, dell’arte del romanzo – come diceva Deleuze di Proust: «considerare una materia, un oggetto, un essere, come se emettessero segni da decifrare, da interpretare». Più in generale, insegnava Georg Groddeck, «l’uomo, per sua costituzione, è portato a simbolizzare», «è un essere simbolizzante». La vita adulta non è che un prendere le distanze – tranne che nella sfera dell’arte, appunto – da una verità, questa, che risulta evidente nel suo comportamento infantile.

 

In questo modo «François» giustifica le digressioni, le interruzioni, i disturbi che fioriscono ogni suo discorso: il quale ubbidisce invece «alla circolarità, alle coincidenze, qualunque cosa esse significhino». Per questo «ogni romanzo, per quanto di se stesso dubiti, e contro se stesso operi, è una teodicea» – perché esso non può che ubbidire a un ordine, ancorché inapparente. A un disegno, insomma, ancorché imperscrutabile: «il suo consueto, sibillino, ordine». Un disegno, quello di Una sostanza sottile, che più di sempre appare improntato a una frastornante arbitrarietà, tanto più straniante quanto più allusiva a un centro che ci sfugge («poi, come si vedrà, tutto è connesso»). Il personaggio-portavoce alterna ricordi slegati, barlumi di storia, flashes e dediche, attingendo a due diverse classi di episodi fra loro incastrate senza rispetto di alcuna linearità temporale: da una parte una serie di soggiorni estivi in Provenza, col pretesto del festival di Teatro che ad Avignone si tiene ogni anno in luglio (l’avatar di «François» è un noto critico teatrale), dall’altra una serie di ricoveri ospedalieri prima di sua madre, Noris, poi di lui stesso: colpito da una trombosi polmonare che nell’autunno del 2009 lo riduce in fin di vita (esempio d’inquietante simmetria: tanto l’Ospedale che Avignone sono per antonomasia luoghi di clausura: topica, per la memoria dei cristiani, la «cattività avignonese» durante la quale ebbe sede, qui, la Curia papale).

 

Ed ecco la prima, non meno che scandalosa discontinuità: la narrazione riflette, almanacca, strologa – ma a tratti proprio racconta, non c’è niente da fare – su un dato d’esistenza reale. Fatti realmente capitati, insomma, all’autore storico Franco Cordelli. Evenienza scandalosa perché in apparenza omaggiante la moda attuale, in quanto moda per lui oltre misura detestabile, dell’autobiografismo o autofiction. Quando l’autore storico Franco Cordelli uscì finalmente d’ospedale, nel febbraio del 2010 – così ricorda «François» –, «i conoscenti, i superficiali gli dissero: Adesso scriverai un romanzo, su questa vicenda». Una «bestialità» (dal momento che un libro siffatto «finirebbe con il diventare quella questione, dominante su ogni altra: vero, verisimile, autobiografico, eccetera. Un po’ sì e un po’ no»). E siccome «gli idioti vanno trattati da idioti», lui decide che «scriverà un libro diverso da quello che pensano loro».

 

Dal momento che appartengo al novero di quegli idioti, solo ora capisco cosa egli volesse dire, a quel tempo. Non che non sia presente in Una sostanza sottile la vita, o meglio la semi-vita dell’Ospedale – il luogo dove «era tutto diverso, si era isolati fino alla vertigine, fino all’incomprensibile», il luogo immondo e sacro dove «esistono solo malattie, solo creature» – ma su essa fa aggio una sostanza più sottile. Parlare direttamente «dell’ospedale significa raccontare l’irraccontabile; o significa raccontare il fin troppo facile da raccontare». Non il fenomeno dell’Ospedale sarà dunque in questione, bensì il suo noumeno.

 

Filosoficamente, appunto, più che diagnosticamente: «il problema sono le cause», degli eventi, «le cause imperscrutabili!». Il soggetto, per dirla con Foucault, è mosso da una sola energia, la volontà di sapere: «come si muore, perché si muore». «François» vuole sapere a tutti i costi, insomma, perché si è ammalato, e (anche) perché non è morto – sebbene ora senta di vivere in una condizione di «post-vita» («guarito non sono, non guarirò più»). Domande alle quali la medica scienza, o pseudo-scienza, è incapace di rispondere (indizi importanti, però, gli vengono forniti da singoli individui, di professione medici, che – una volta svestiti della loro divisa scientifica – riescono a parlargli come uomini a un altro uomo).

 

Ed ecco allora il motivo dello sdoppiamento strutturale del testo, del suo «pellegrinaggio in Provenza». La Provenza è luogo di memorie letterarie, si può dire anzi sia questo per eccellenza il luogo-simbolo della letteratura d’Occidente. È la sede di nascita della poesia moderna, quella trobadorica dalla quale discendono lo Stil Nuovo e Dante; vi lampeggiano i luoghi di autori amati come Vincent Van Gogh, René Char e Lawrence Durrell (nonché di un autore disamato e innominato, Martin Heidegger). E, certo, è il regno di Petrarca. Che però non è per niente simpatico, dice lui («è sempre in posa, mi snerva»), al nostro bizzoso suo omonimo «François»: è qui che «l’odiato poeta, quello del peregrinus ubique, si rifugiava, dove trovava requie, dove vergava i suoi immortali versi». Ma è qui, ad Avignone, che «François» fa la conoscenza con una psicoanalista che risponde al nome – vero quanto inverisimile – di Michèle Jung. Che però non è junghiana; viceversa è una lacaniana ma – altra sottile coincidenza – ha «in gran conto, ai limiti del culto, tutti gli scritti di Groddeck, proprio lui, il suo faro». È lui a insegnare che «la biologia è […] sacra», «ma la biologia è nella storia, sono la stessa cosa». Quanto mai groddeckiano, in effetti, il presupposto della volontà di sapere di «François»: che, come l’altro suo faro Durrell (in esergo, in Una sostanza sottile, un’altra sincronica coincidenza: una frase del primo sul secondo), «credeva nella magia, nella magia nera, nell’alchimia, nell’atmosfera pregna di sostanze volatili ed effervescenti».

 

La sostanza sottile che insegue «François» è allora quella che – prima di Groddeck, archimandrita della psicosomatica – i trovatori, gli stilnovisti, e sommo Cavalcanti, avevano indagato: la parentela, oscura e luminosa, fra amore e morte, ossia fra spirito e corpo. Glielo fa capire la sorte dolorosa di un amico, un amico dalla straripante corporeità che indulgeva però alla superstizione dello spiritismo. Che egli «si fosse ammalato per amore, quello lo sapeva, ne era certo»: «è così che si muore, per amore» (anche se questa è «una parola», precisa «François» come avrebbe fatto l’a sua volta superstizioso Manganelli, «che non pronunciava mai»). È questa la superstizione più salda, quella che oscuramente avvertiamo come autentica («non vi è valore che non sia superstizione»): «il cuore del mondo era lì sotto, dentro il suo corpo». Un altro autore amato, Kleist, non aveva forse a questa superstizione improntato il più enigmatico dei suoi racconti, La marchesa di O..., la sorte della cui protagonista è segnata da una gravidanza non preceduta da alcuna penetrazione?

 

È stata questa credenza che ha sgretolato, col tempo, il dualismo – platonico, cartesiano, o proprio petrarchesco – coltivato in gioventù: quando «lo spirito prendeva il sopravvento» (I puri spiriti è il titolo dell’unico libro di Cordelli che francamente disami, osservante com’è una superstizione uguale e contraria a quella suesposta: definendo «romanzo» un, non so quanto durrelliano, quartetto di racconti…). Proprio la letteratura – a questo è servito il bagno nel Rodano – gli ha insegnato la verità di Groddeck (e di Cavalcanti): «il senso vero e ultimo d’ogni parola poetica è in un mondo senza dualismo e senza trascendenza, un mondo di pura immanenza […], un mondo in cui le parole e le cose si compenetrano così strettamente che non è possibile muoverne una senza che tutto crolli, senza che ogni altra parola e cosa acquisti un senso opposto». La sostanza sottile non è che (con minima alterazione verbale) lo stile, il soffio vitale che solo può dare anima alla materia: «quasi sempre ciò che conta, conta per come è scritto, per l’anima sua». Una «faccenda complicata», pressoché impossibile da spiegare in termini razionali; eppure «la nostra coscienza di questi meccanismi […] si è fatta sottile fino allo spasimo». Al termine del pellegrinaggio, senza perdere un grammo del suo laicismo (la sua paradossale fede nell’immanenza) «François» perviene a Lourdes, sede topica del culto mariano (seguendo questo pensiero già i surrealisti Breton ed Éluard, giocosi ma solo fino a un certo punto, avevano intitolato un loro libro L’immacolata concezione): «sì, la Madonna è ciò che ci spinge, da dove si comincia: è qui che si concepisce – immacolati – senza padre né madre».

 

Ma in Provenza si è verificato un altro evento – che segna la seconda, e più decisiva, discontinuità fra Una sostanza sottile e i libri che lo hanno preceduto. Se infatti in apparenza il suo impianto ricorda i libri fra Procida (1973) e Il duca di Mantova (2004) – che, al netto d’una grande escursione stilistica, sono accomunati da una simile voce narrante, o de-narrante piuttosto: appunto riflessiva, almanaccante, strologante –, in effetti l’unico precedente effettivo è quello dell’ultimo La marea umana (2010), che quella voce vede alternarsi con quella di un deuteragonista, l’amico Azio o Aki esiliato in Indonesia e rincontrato durante un suo passaggio in Italia: anche in Una sostanza sottile due sono le voci che si inseguono. E anzi, laddove nella Marea umana era quella del soggetto a riportare le battute dell’Altro, qui accade precisamente il contrario. Ma a sorprendere, soprattutto, è l’identità di questa seconda voce: colei che si presenta come «Irene». Una donna dunque! E soprattutto – colpo di scena “romanzesco”, non ci fosse stato svelato già nelle prime pagine… – quella che è la figlia di «François»!

 

Correlativo simbolico del tormentoso dualismo col quale da sempre, sino ad oggi, si erano presentati alle prese gli onniloquenti celibi, perfettamente sterili protagonisti dei libri precedenti di Cordelli era infatti un imperterrito, a volte intenerito più spesso corrusco, Agone col Femminile. Una presenza sempre oscura, dai tratti incerti; una punta d’ansia, una riga sottile che inquieta lo spettro dell’Ego. Anche adesso, naturalmente, non si penserà che entri in scena un personaggio femminile dotato di una propria tridimensionale autonomia: «chi ascolta, a pensarci bene, è per definizione invisibile, o almeno anonimo. Quando leggiamo un’intervista non ci preoccupiamo affatto di chi sia l’intervistatore». Lei stessa, a un certo punto, protesta di essere appena una portavoce, una funzione, anzi una meta-funzione narrativa: «non finirò con lo scrivere (il trascrivere) un libro, gli chiesi proprio io che sono una figlia, una femmina, in cui vi sarà un solo attore, colui che parla, sia che parli in prima che in terza persona? e questo attore unico non sarà comunque il maschio europeo, occidentale, del ventunesimo secolo, colui che tanto ha parlato nel secolo scorso, sempre e solo lui?». Al che lui ribatte, incrollabile, che proprio quello è il suo credo stilistico, la sua superstizione letteraria: «I personaggi, diceva, che cosa sono? Non ho personaggi, ho solo figure, silhouette, profili. Io sono uno che disegna con l’inchiostro di china, che fa schizzi, abbozzi, allusioni. Io, al massimo, lascio intendere. So che così è giusto, è uno dei miei punti fermi». Perché certo, anche «François» è tale: «io stesso sono un puro pretesto». Ma, stanti così le cose, perché mettere in scena allora un secondo pretesto? Cosa significa questo sdoppiamento, che chiama in causa un, ancorché spettrale, principio femminile? Anche noi lettori siamo animati da una legittima – credo – volontà di sapere.

 A più riprese «François» si rivolge a «Irene» coll’appellativo «anima mia». Espressione del più corrivo sermo familiaris, letteralmente inconcepibile dalla mens cordelliana: se non fosse che il loro incontro si svolge alla presenza della Dottoressa Jung. Davvero è l’anima di «François» quella a cui egli si rivolge, in un dialogo che è piuttosto un soliloquio teatralizzato – proprio come il Secretum in cui il Francesco di Provenza si rivolgeva ad Agostino, il maestro incontrato sulla cima del Ventoso… Fu in una condizione di grande inquietudine e sospensione – lo scoppio della Grande Guerra, nell’estate del 1914 –, ricorda Jung (Carl Gustav), che gli si manifestarono nella psiche presenze e immagini le quali gli «diedero la decisiva convinzione che vi sono cose nella psiche che non sono prodotte dall’io, ma che si producono da sé e hanno una vita propria», al punto che si poteva con esse conversare: «erano loro a parlare non io». La più stupefacente di queste apparizioni fu quella di una donna: «giunsi a capire che questa figura femminile interna rappresenta una parte tipica e archetipica nell’inconscio dell’uomo, e la indicai col nome di “anima”, mentre chiamai “animus” la figura corrispondente nell’inconscio della donna”». Nel pensiero di Jung, l’anima è il nesso tra l’individuo e l’inconscio collettivo; nella rielaborazione groddeckiana che di questo principio opera Cordelli, essa è appunto la sostanza sottile che separa e insieme congiunge, che fa venire meno ogni dualismo.

 

La circostanza di sospensione, e di discontinuità, che produce l’incontro con l’anima – l’equivalente della guerra per Jung – altro non è che la malattia («mi chiedo quanto le donne e la malattia siano la medesima cosa»). La sua causa, capisce infine «François», non è stata altro che la sua separazione dalla madre Noris: prima estromessa, per ricoverarla, dalla casa in cui madre e figlio, sino ad allora, con pacata quanto morbosa ostinazione avevano condotto la loro esistenza comune; poi più radicalmente forclusa, dalla propria esistenza, dalla di lei morte. A poche settimane dalla quale «François», infatti, subisce l’attacco che lo porta alla lungodegenza nella Casa Oscura che porta il non meno oscuro nome di San Filippo Neri (e che, per essere raggiunta, comporta lo sprofondamento in una quanto mai tenebrosa nekyia, l’attraversamento dell’interminabile Galleria Giovanni XXIII): «era sicuro che c’entrava Noris. La causa era lei, la sua morte – di fronte alla quale si era sentito come il protagonista del romanzo di Camus. Vi era una differenza, che quello aveva ucciso un arabo, se non ricordava male, ed era stato condannato alla pena capitale». Rotto l’equilibrio, fragile e instabile ma effettivo, colla parte femminile di sé, davvero «François» rischia di morire per amore: «si muore vivendo da soli […], non più cercando un colloquio con colei che è stata la causa della propria sofferenza».

 

Ma come si è salvato, lui, da una tale morte? È questa la domanda alla quale è più difficile rispondere. Insegna Pascal come delle malattie, persino delle loro più spiacevoli conseguenze, si possa fare un buon uso. Nel caso di «François», a farne le spese è stato quell’apparato riproduttivo che tante volte – nei libri passati – era stato chiamato in causa: come colpevole dei propri guai, talvolta, più spesso come strumento del proprio narcisistico solipsismo. Penetrare il femminile significava allora scotomizzarlo, simbolicamente negarlo se non, proprio, ucciderlo. Nel momento in cui tale penetrazione non è più fisicamente possibile – in conseguenza della morte non simbolica, bensì reale, del prototipo femminile – è alla lettera vitale evocarlo dentro di sé, quel principio, e dargli, ancorché una volta di più simbolicamente, voce. Questa l’immacolata concezione messa in scena da Una sostanza sottile. Così, abbiamo visto, aveva fatto Jung; ma così, da sempre, insegnano i poeti. I quali rimettono in scena ogni volta – così appunto, supremo, Petrarca – il mito di Orfeo: che nel voltarsi, sulla strada che lo fa uscire dagli Inferi, quel fantasma mette a morte e, insieme, consacra per sempre (parlando di una paura giovanile, quella del tumore alla prostata – ennesimo spettro di castrazione – si dice «François» che «avrebbe già formulato una quantità di ipotesi, in specie psichiche, che gli farebbero salire quelle scale» – quelle del medesimo San Filippo Neri dove già nel 1964, a vent’anni, aveva già dovuto subire un breve ricovero – «con più saldezza, con più energia – sebbene invalicabile la soglia della paura, come per Euridice quella del ritorno fra noi»).

 

C’è però un ultimo segno, un’ultima coincidenza sconcertante – tale da sfidare qualsiasi romanzesca verisimiglianza. Una volta dimesso dal San Filippo Neri c’è un centro di analisi dove da ora in poi, e per quanto resta della sua esistenza, una volta al mese dovrà recarsi «François». Il suo nome, un «semplice acronimo», suona irridente, leggero e sottile: Tao. Forse l’unico modo per sottrarsi al Dualismo dell’Occidente (come già si accennava nella Marea umana) è rinunciare, almeno in parte, al privilegio della sua identità culturale. Come Petrarca che nella famosa Lettera sull’ascesa al Monte Ventoso (la quale «François» non può esimersi dal ripetere – fingendosi devoto, magari, più di Tommy Simpson che del suo quasi omonimo di sette secoli prima) con sovrana mistificazione (è lui il Grande Mentitore, per ciò tanto detestato da Gadda – «è tutto una bugia, ramificata» – quanto amato da Manganelli: «nella sua finzione la sua verità», salomonico concludeva Sereni) inscena l’incontro col libro della vita, le Confessioni di Agostino, così fa lui dicendo d’imbattersi ad Avignone – oltre che nella dottoressa Jung – nel Tao-tê-ching: il testo cardine della cultura cinese che qualche ospite che lo ha preceduto ha lasciato nell’albergo dove soggiorna. Gran libro antidualistico (squisitamente anti-occidentale, dunque), quello che per prima cosa ci insegna che i principi oppositivi, lo Yin e lo Yang, non esistono allo stato puro: gli enti della “realtà” sono frutto del loro sempre mutevole mescolarsi, tutti sussunti in una medesima sostanza sottile, il ch’i, soffio etereo che di volta in volta prende forme diverse e altro non è, infine, che quanto chiamiamo “vita”.

 

Subito «François» riconosce uno spirito fraterno nel suo autore Lao-tzu, che lo precede di venticinque secoli: come lui suppone fosse «un uomo ordinato, una specie di collezionista, uno di quelli che rimuginano, rimaneggiano, sostituiscono, migliorano, accarezzano, graffiano, raschiano, gettano, salvano, recuperano e di nuovo gettano». Anche il Tao-tê-ching – come l’opera romanzesca dell’altro suo avatar – ha un’imperfezione voluta, esibita, un numero in eccesso: è «composto da ottanta strofe, un numero mistico, più un capitolo». Esattamente come Una sostanza sottile: che si compone appunto di ottantuno capitoli numerati, ciascuno compreso nella pressoché identica, euritmica misura di tre pagine (vengono a un certo punto ricordate le Centurie di Nostradamus, per forse evocare quella similmente euritmica di Manganelli… mentre fra i propri libri passati, per l’uso dei titoletti che ritmano ma anche cuciono la struttura frammentaria, si allude a Proprietà perduta). Ottanta più uno, nove (otto più uno) alla potenza. Trionfo dell’irregolarità, dell’eccezione, dell’imprevedibilità.

 

Si dice «François» che forse «quell’ottantunesimo c’era perché Lao-tzu aveva perso la sua fiducia nella matematica (anche lui), perché era invecchiato, perché sentiva di non avere il tempo di aggiustare tutto». La longevità di Lao-tzu è il suo tratto mitobiografico più caratteristico; sul numero degli anni che visse le fonti discordano, ma tutte insistono sul dato leggendario che sua madre l’avesse tenuto in grembo per ottantuno anni (nove volte nove anni) e che fosse venuto alla luce coi capelli e i sopraccigli bianchi – di qui il soprannome di «Vecchio bambino». Ma soprattutto, come Jung, Lao-tzu – in omaggio alla sua dottrina dell’armonia dei contrari – insegna all’uomo ad accettare la sua componente di debolezza. «Conosci la mascolinità, ma preferisci la femminilità. E potrai ritornare allo stato d’infanzia» suona uno dei suoi precetti: per restaurare quello che Mircea Eliade definiva «l’ideale arcaico androgino di perfezione umana». Colla parte femminile di sé, finalmente sottratta alle durezze dell’Agone, è venuto il tempo di fare una buona volta pace. Irene, appunto.

 

Dopo la morte rituale dell’Otto, il tempo del Nove è dunque per Cordelli quello di una vita nuova (anche nella Vita Nova per antonomasia, quella dantesca, il Nove è il numero del «miracolo»): «lui dice sempre che non scriverà più», commenta «Irene», «poi ricomincerà – dopo essere morto, quasi». Tale insperata e perturbante giovinezza, assai taoisticamente, coincide coll’ingresso consapevole, e per molti versi sereno, nella senilità («nella post-vita, si è lucidi ma si è storditi»). Lo diceva, Cordelli, in un’intervista rilasciata allo scoccare dei suoi settant’anni, nel 2013, commentando le pagine di Stile tardo di Edward Said e riconoscendo, nella libertà che è dato conseguire a un’età come la sua, quello «stato selvaggio» che vi riscontrò una volta Italo Svevo: «Soprattutto dopo quell’incidente, diciamo così, che mi ha fatto rischiare la vita… ogni minima proroga, come diceva Luigi Baldacci nei suoi ultimi anni, si assapora in modo selvaggio. E se penso alla Marea umana, o a quello che sto scrivendo adesso, mi accorgo che si è andata radicalizzando una mia forma mentis materialista. Non dimentico mai la mia educazione marxista. Anche di fronte alla malattia e alla morte so di continuare a pensare nel modo in cui ho cominciato a pensare. Non da marxista, perché non avrebbe senso dire una cosa del genere, ma con quel tipo di educazione, di imprinting». Squisitamente materialistico, immanentistico anzi, è il Tao – dal quale proviene pure l’immagine alla quale «François» sente di poter associare la propria scrittura: dove tutto torna, in circolo, «come una ruota, con un mozzo ben riconoscibile e dei raggi».

La ruota è evocata dal Tao per dare concretezza d’immagine a uno dei suoi concetti più suggestivamente anti-occidentali, quello del Wu, il vuoto al centro che solo consente il movimento: «trenta raggi convergono nel mozzo, ma è il vuoto del mozzo l’essenziale della ruota». Un vuoto, una lacuna è altresì evidente in Una sostanza sottile – e questa rappresenta l’ultima, importante discontinuità coi libri che lo hanno preceduto. «François» la enuncia senza compiacimenti né frissons provocatori. I temi della sua opera narrativa, ho provato a sintetizzare parlando della Marea umana sono in fondo riassumibili in due: quello della sparizione e quello della colpa. I due, come Yin e Yang, si presentano in ogni libro di Cordelli variamente intrecciati e coimplicati ma hanno diversamente orientato, nel tempo, le energie della scrittura. Se nella prima sua stagione (diciamo nella “prima trilogia”, quella composta da Procida, Le forza in campo e I puri spiriti) – diceva Cordelli nell’intervista del ’13, usando due storiche categorie di Matthew Arnold – ha fatto da dominante, in senso musicale, la critica della vita, nella successiva (diciamo nella “seconda trilogia” composta da Un inchino a terra, Il duca di Mantova e La marea umana) sempre più si è fatta strada la critica del mondo.

 

Si vuol dire che i romanzi recenti di Cordelli sono stati i più consapevolmente politici del nostro tempo, quelli che con maggiore insistenza hanno tentato l’impossibile racconto della nostra Storia, della storia del nostro presente, dall’interno. Mentre essa, cioè, si veniva compiendo: Un inchino a terra come storia del crollo degli ideali socialisti nella rugosa realtà della corruzione, Il duca di Mantova come storia del berlusconismo quale grande e volontaria illusione con cui hanno voluto sedurre se stessi gli italiani, La marea umana come storia – sempre più spettrale – del fascismo ideale eterno che, della loro terra, è tabe irredimibile. A questo progetto «François» pare peraltro più incline ad associare un testo precoce come Pinkerton (uscito nel 1986 ma scritto sul finire dei Settanta, comunque all’indomani del caso Moro), che anzi è per lui – insieme al Duca di Mantova – il testo esemplare di questa sua maniera: «il tema del rapimento e quello dell’incantesimo discendevano da un contenuto politico: non dal male di vivere, ma dal male del tempo suo».

 

Ebbene, la condizione biologale di post-vita alla quale l’Ospedale lo ha ridotto, o paradossalmente esaltato, ha anche provveduto a ridefinire in misura radicale la sua scala di valori o, piuttosto, di priorità: «la realtà del mondo, poniamo la politica che tanto m’appassionò, scomparve dal mio orizzonte percettivo. Mai più è riapparsa. Mai m’inquieto, tanto meno m’arrabbio o m’esalto per un fatto del mondo». Nel primo Cordelli, il condurre l’esistenza in uno stato di stupefazione allucinatoria – come facevano gli alter ego che popolavano Procida, poniamo, o Le forze in campo – era già di per sé vissuto come colpa. Ora non si può più considerare tale, in alcun modo, questa eclisse del politico. Il tempo della colpa si è compiuto ed esaurito, lo si è visto, colla morte della madre: spingendo l’espiazione sin sulla soglia della Casa dei Morti. Di lì, infine, si è risaliti. Non è questione di prima e dopo, di post hoc propter hoc: quello di Una sostanza sottile è il regno, una volta di più squisitamente junghiano, della sincronicità: «sto usando il passato remoto, è successo ieri, questa notte; ma potrei usare il presente, o il futuro, sarebbe lo stesso».

 

La storia del Taoismo, in Oriente, è anche la storia di un’abdicazione al Politico. Nel topico confronto con Confucio, amatissimo in tutta la tradizione, questi non può che perdere la partita dialettica con Lao-tzu; eppure, nel mondo, egli risulta vincente. Perché l’agire supremo, per il Tao, consiste nel sottrarsi all’azione (wu wei). In questo modo, chissà, potrà forse trovare una riconciliazione l’ultimo dei dualismi, quello fra la Realtà e la sua Rappresentazione: «I fatti non mi sfiorano più. Ma il mondo cos’è? Il mio mondo non è anch’esso mondo? Ne è forse una contraffazione, una parvenza?». Le ultime parole di Una sostanza sottile concludono nel più enigmatico dei levare: «Irene» una volta di più cerca di farsi ascoltare da «François» che, assorto al volante della sua auto, corre le strade di Francia. Una volta di più, invano: «lui non sentì; sordo, almeno un poco, lo era davvero. Raccontava andando a tutta velocità. Mi accorsi che aveva accelerato – come non fossimo in città».

 

In una poesia dedicata a Emilio Villa da un altro cultore del Tao, Corrado Costa (Accoglienze festose per l’ospite assente), c’è un’immagine memorabile: il punto più alto della ruota è quello che corre più veloce. Replicare che non esiste, nella ruota, un punto più alto degli altri equivarrebbe a non avere, del Tao, capito nulla. Corre, la ruota del Tao; corre sempre più leggera e veloce – sottile.

 

 

Il libro: Franco Cordelli, Una sostanza sottile, Einaudi 2016, pp. 264, € 21.00

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